La corruzione nei contratti pubblici, l’influenza delle organizzazioni mafiose
La corruzione nei contratti pubblici, l’influenza delle organizzazioni mafiose
Dal latino corruptio - onis, der. “corrompere, disfare dall’interno”.
L’obiettivo dell’approfondimento è quello di analizzare i punti di forza e di debolezza del sistema di prevenzione della corruzione nei contratti pubblici.
Anzitutto si vuole porre in evidenza come una definizione più ampia di corruzione sia utile a rendere punibili quante più fattispecie possibili, andando oltre la sola accezione fornita in sede penale.
L’accezione di corruzione oggi maggiormente accreditata è rinvenibile nella circolare n. 1 del 2013 del Dipartimento della Funzione Pubblica, quest’ultima sancisce, infatti, che la corruzione si ha allorché: “nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Le situazioni rilevanti sono più ampie della fattispecie penalistica e sono tali da comprendere non solo l’intera gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma anche le situazioni in cui - a prescindere dalla rilevanza penale - venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite ovvero l’inquinamento dell’azione amministrativa ab esterno”.
In un paese come l’Italia, in cui la corruzione nel settore dei contratti pubblici drena ogni anno ingenti risorse economiche, è necessario tutelare e rinforzare il ruolo che istituzioni come l’ANAC svolgono. Tuttavia, come a più riprese sottolineato dall’attuale scrivente, poiché “la corruzione è un mercato occulto, un fiume carsico che appare e scompare, del quale è difficile seguire il corso”, è necessario il coordinamento di più soggetti istituzionali, dal Governo fino alla singola amministrazione.
Queste ultime hanno il dovere di garantire efficienza, legalità e trasparenza al fine di limitare le occasioni di malaffare. In particolare, si ritiene che per contrastare efficacemente la corruzione nei contratti pubblici sia necessario promuovere il coordinamento tra Anac, Prefetture e DNA (Direzione Nazionale Antimafia). Poiché sono noti gli interessi della criminalità organizzata di stampo mafioso negli appalti stessi è opportuno sostenere un raccordo tra la disciplina della prevenzione antimafia e quella della prevenzione della corruzione.
Inoltre, il progresso tecnologico può potenzialmente fungere da strumento di rilancio delle tradizionali modalità di prevenzione. È stato messo in luce, infatti, che tecnologie come la blockchian e l’intelligenza artificiale, se applicate ai dati prodotti e raccolti dalle pubbliche amministrazioni nel settore dei contratti pubblici, consentono di rendere maggiormente visibile il procedimento logico e amministrativo che ha determinato una certa decisione. Dall’altro lato, permettono di mettere in evidenza eventuali irregolarità nelle procedure di assegnazione.
Ne consegue che il sistema, nella sua chiave più ottimale di prevenzione della corruzione, dovrebbe basarsi sull’unione di qualità della regolazione nella contrattualistica pubblica, la quale deve aumentare l’efficienza e diminuire la burocrazia difensiva, una efficiente ripartizione delle competenze istituzionali tra Anac ed altre istituzioni, nonché una maggiore collaborazione tra le stesse e un adeguamento delle modalità di contrasto al progresso tecnologico.
Il legame tra prevenzione della corruzione e prevenzione antimafia
Tra il 2015 e il 2022 le interdittive antimafia comunicate al Casellario Anac sono costantemente aumentate, quasi triplicate, con aumento maggiore soprattutto rispetto al numero di procedure bandite e del totale delle imprese attive, che per di più si è lievemente ridotto.
Il numero delle imprese interdette è passato da circa 1 ogni 14.000 del 2015 a una ogni 4.500 del 2022. Nel 2015 avevamo una impresa interdetta al giorno, nel 2022 sono più di tre.
Questi numeri dimostrano si lo sforzo che le prefetture stanno facendo per far fronte al fenomeno, ma rappresentano allo stesso tempo un campanello d’allarme in ragione dell’ampiezza del fenomeno.
Le Prefetture, così come tante altre amministrazioni, devono fare i conti con le significative carenze d’organico, le quali, solo in parte possono essere sopperite dalla grande professionalità di chi vi lavora.
Il legame che unisce la prevenzione della corruzione alla prevenzione antimafia rappresenta un elemento di tutto interesse quando si studia il fenomeno corruttivo negli appalti pubblici. E’ proprio in questo ultimo settore che si concentrano maggiormente gli interessi delle organizzazioni mafiose che, sempre con più frequenza, fanno della corruzione uno strumento centrale nel loro operato.
Prima di giungere alla disamina degli strumenti di prevenzione comuni ai due settori è necessario soffermarsi sui motivi che spingono le organizzazioni mafiose a investire in questo settore.
A questo proposito, è risaputo, che i contratti pubblici rappresentano un settore in cui lo Stato investe molto denaro per realizzare infrastrutture o opere necessarie e a soddisfare i bisogni della società.
Ad oggi, per l’alta quantità di denaro investita e per strategicità nella gestione del territorio, gli appalti sono per definizione uno dei settori più esposti alle infiltrazioni dei gruppi mafiosi. Tuttavia, ci sono dei motivi specifici che portano queste organizzazioni criminali a infiltrarsi nell’economia legale.
In primo luogo, la necessità di riciclare i soldi di provenienza illecita al fine di trasformarli in un guadagno lecito agli occhi della società.
In secondo luogo, un motivo prettamente economico è legato al fatto che, attraverso società fittizie, vogliano accaparrarsi una fetta cospicua di risorse pubbliche. Da un punto di vista sociale, inoltre, la gestione degli appalti pubblici a livello locale, soprattutto in ambito edilizio, facilita il controllo del territorio da parte di queste organizzazioni che poi viene sfruttato come strumento di legittimazione.
Ultimo motivo di interesse nel settore dei contratti pubblici attiene all’ambito giudiziario. Le indagini nel settore degli appalti sono particolarmente lunghe e complesse, richiedono competenze specialistiche e, quanto alla risposta sanzionatoria, è difficile che il giudice si pronunci in merito alla procedura con cui è stato aggiudicato il contratto, poiché il bilanciamento tra giurisdizione amministrativa e discrezionalità tende a favore di quest’ultima.
In questo quadro, la corruzione costituisce una rinnovata modalità di influenza delle organizzazioni criminali. Queste, nel corso del tempo, hanno abbandonato l’uso della violenza e delle intimidazioni, ora extrema ratio del modus operandi mafioso, in favore del metodo corruttivo che ha il vantaggio di sviluppare dei network sociali di cui i corruttori si servono.
Le infiltrazioni, tuttavia, avvengono in una duplice direzione: dal lato della pubblica amministrazione e dal lato delle imprese che si candidano per ottenere un affidamento pubblico.
Va tenuto presente che, al giorno d’oggi, l’infiltrazione è molto più complessa rispetto al passato.
Gli sviluppi della normativa, gli oneri di pubblicità e legalità richiesti alle imprese, i requisiti molto stringenti per la partecipazione alle gare, la vigilanza dell’Anac hanno inciso sulla corruzione, ma ancora non sono sufficienti ad arginare tale fenomeno, patologico in Italia.
Una volta attivato il “network sociale sommerso”, gli strumenti utilizzati variano a seconda della fase in cui si vuole incidere.
Nella prima fase di programmazione e progettazione, si mira a pilotare il progetto fin dalle fasi iniziali andando a corrompere i vertici politici dell’ente che decidono di investire in quel progetto, i funzionari della stazione appaltante o i professionisti chiamati per le varie rilevazioni.
Nella fase propriamente di gara, invece, l’infiltrazione avviene attraverso bandi di gara ad hoc che sono realizzati per calzare perfettamente con l’impresa collusa, oppure attraverso bandi generici che non permettono accertamenti specifici. Più nel dettaglio, l’alterazione della fase di gara avviene con sofisticati meccanismi di manipolazione tra i quali, le intimidazioni mirate a limitare la concorrenza e quindi scoraggiare la partecipazione oppure con falsificazioni documentali o alterazioni delle procedure, facilitati dal benestare di qualche funzionario pubblico compiacente. Questa breve rassegna sui motivi e sulle modalità con cui avviene l’infiltrazione mafiosa nell’economia legale fa capire come, a fronte di meccanismi complessi e moderni, servano strumenti di prevenzione che incidano profondamente nel sistema e che vedano la partecipazione di diversi soggetti istituzionali.
L’attuale scrivente non è nuovo alla trattazione di suddette tematiche: nell’opera “Corruzione, riciclaggio e mafia”, pubblicato nel 2016 e nel nuovo manuale in fase di pubblicazione “Compliance integrata: obblighi, strumenti, opportunità per i professionisti”, si affrontano tali aspetti. Il problema trattato in queste pagine, non è naturalmente solo italiano: nella prassi applicativa statunitense, ad esempio, il dibattito, assai vivace, verte sulla possibilità di considerare foreign officials, ai sensi del FCPA, soggetti non dipendenti della pubblica amministrazione, ma inquadrati in enti partecipati o comunque controllati dallo Stato. Si discute in questi casi dell’applicabilità della teoria secondo cui l’ente possa comunque rappresentare una instrumentality del governo straniero, in modo da poter riconoscere ai suoi agenti corrotti la qualifica di pubblici ufficiali ai fini della legislazione penale.
Per ritornare all’ordinamento italiano e per meglio comprendere la complessità del percorso interpretativo affidato al giudice, può essere utile prendere le mosse dall’analisi di un procedimento penale avviato su impulso della Procura Distrettuale Antimafia di Palermo. Secondo l’accusa, l’indagato, in concorso con numerose altre persone, aveva, con artifizi e raggiri consistiti nella predisposizione di false garanzie bancarie, costituite da falsi titoli di stato venezuelani e falsi documenti informatici da depositare in istituti di credito britannici, tentato di ottenere la apertura di una linea di credito dell’importo di seicento milioni di Euro. I falsi titoli venezuelani erano stati autenticati da funzionari del Banco Centrale Venezuelano previa corresponsione di somme di danaro non quantificate.
I fatti risultavano aggravati dalla circostanza che i reati erano stati commessi con il contributo di un gruppo criminale organizzato transnazionale.
A seguito di un percorso giudiziario lungo e complesso l’arresto è arrivato dalla Suprema Corte, la quale dopo aver chiarito che l’attività del Banco da sottoporre a verifica consisteva nell’infedele autenticazione di falsi titoli di Stato da parte dei suoi funzionari, ha ritenuto che fosse essenziale accertare “l’eventuale qualità pubblica e le funzioni attribuite all’ente”, posto che l’attività di specie — la certificazione di genuinità dei titoli di debito pubblico— è senz’altro da ricondursi all’esercizio di una funzione pubblica se svolta “da un soggetto pubblico in ipotesi deputato alla cura degli interessi finanziari dello Stato”. Sulla base di questo rilievo la Corte fonda la censura dell’ordinanza gravata, ritenendo che il Tribunale avrebbe dovuto accertare tale natura, anche con una verifica del sistema normativo straniero.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte attiene pertanto alla conoscibilità da parte del giudice italiano del diritto interno dello Stato estero: secondo la Cassazione è principio generale del sistema quello contenuto nell’art. 14 della l. n. 218/1995—la legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato — « secondo cui l’accertamento della legge straniera è compiuto anche d’ufficio dal giudice, eventualmente tramite il Ministero della giustizia o esperti o istituzioni specializzate (comma 1) ovvero con l’aiuto delle parti interessate (comma 2)”.
Tale principio troverebbe in definitiva applicazione anche nell’ambito del procedimento penale, tutte le volte in cui l’applicazione della legge penale presuppone l’accertamento di un dato normativo straniero.
Whitelist antimafia
La legislazione italiana, in materia di prevenzione della corruzione e contrasto alla criminalità organizzata è oggi strettamente improntata su una sinergia volta a limitare il compiersi di queste attività illecite.
Frutto questo dei numerosi interventi normativi attuati negli anni.
Per un lungo periodo la produzione legislativa ha scorporato l’organicità e la sistematicità del fenomeno, risultando di conseguenza poco efficiente. Questi aspetti sono stati presto risolti dal Legislatore, il quale ha soddisfatto un’esigenza manifestata da tempo dagli operatori del settore, attraverso l’emanazione del d.lgs. 159/2011 noto come Codice delle leggi antimafia.
Si tratta di un intervento dichiaratamente “volto a riordinare e razionalizzare la disciplina vigente in materia di disposizioni antimafia”, in attuazione della delega contenuta nella legge 13 agosto 2010 n. 136 (“Piano straordinario antimafia”), che aveva previsto la ricognizione della normativa vigente in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’armonizzazione della suddetta normativa e, infine, il coordinamento con le disposizioni in materia di misure di prevenzione.
Il risultato è che la legislazione antimafia è venuta configurandosi come una vera e propria banca giuridica dotata di una sua riconoscibile identità ad alto tasso di complessità
Complessità che si è cercato di organizzare attraverso l’introduzione delle whitelist.
Queste ultime sono degli elenchi istituiti presso ogni Prefettura che hanno lo scopo di rendere i controlli antimafia più efficaci rispetto alle attività imprenditoriali considerate più a rischio di infiltrazioni.
L’iscrizione ai suddetti elenchi è obbligatoria per alcune specifiche categorie d’imprese, qualora debbano stipulare contratti diretti o indiretti con la Pubblica Amministrazione, l’iscrizione, inoltre rappresenta verso terzi un elemento di garanzia tra i soggetti privati.
Le attività considerate maggiormente esposte e vulnerabili al rischio di infiltrazione mafiose sono riportate all’art. 1 comma 53 della legge 190/2012 e comprendono servizi ambientali, ristorazione, gestione di mense e catering, servizi funerari e cimiteriali, guardiania dei cantieri, ecc. ecc...
L'iscrizione alla whitelist deve essere posseduta soltanto dal soggetto che effettivamente andrà a svolgere la prestazione rientrante all'interno dell'elenco di cui all'articolo 1, comma 53, il quale potrà essere, in base al caso concreto, l'appaltatore, un'impresa del raggruppamento temporaneo verticale, il subappaltatore o il sub-affidatario.
A chi sostiene che la white list è inutile occorre replicare facendo presente che lo strumento non è una duplicazione delle comunicazioni e informazioni antimafia, perché lo strumento è stato introdotto nell'ordinamento quando il T.U. antimafia (T.U. n. 159/2011) era già in vigore. Se fosse realmente un doppione non si comprenderebbe perché nel decreto semplificazione, all'art. 3, si prescrive "2. L'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori di cui all'articolo 1, commi 52 e seguenti, della legge 6 novembre 2012, n. 190, nonche' l'iscrizione nell'anagrafe antimafia degli esecutori istituita dall'articolo 30 del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229, equivale al rilascio dell'informazione antimafia".
Dopo l'intervento legislativo sopra ricordato non si può non sostenere che i commi 52, 52 bis e 53 dell'art. 1 della legge n. 190 del 2012 prevedono, per determinati settori sensibili, l'iscrizione nella whitelist quale meccanismo sostitutivo della documentazione antimafia.
Da parte sua, il D.P.C.M. del 18 aprile 2013 prescrive che la consultazione del relativo elenco è la modalità obbligatoria per l'acquisizione della documentazione antimafia necessaria in vista del perfezionamento del successivo contratto.
Non si discute perciò che la funzione della whitelist sia quella di approntare una tutela anticipata e più incisiva in determinati settori sensibili
L’orientamento della Cassazione penale sulle whitelist
Secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione la mancata iscrizione nella whitelist dei prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti al rischio di infiltrazione mafiosa va considerato equivalente ad un’interdittiva antimafia.
Gli Ermellini (Corte Cass., sez. II Penale, sent. n. 2156 del 2022) hanno accolto il ricorso di una S.r.l. operante nel settore dello smaltimento rifiuti, contro il decreto con il quale la Corte d’Appello, in linea con il Tribunale, aveva respinto la richiesta di accesso al controllo giudiziario, in assenza di un’interdittiva antimafia.
La Suprema Corte parifica le due condizioni.
Quanto alla whitelist rammenta che riguarda le imprese che operano in settori delicati ed esposti. Ad avviso della Cassazione i presupposti che legittimano il diniego di iscrizione nella white list sono gli stessi che fanno scattare l'interdittiva antimafia. Circostanza che deve portare ad affermare “una sostanziale equiparazione tra i due istituti, con la differenza che il primo consegue ad un procedimento promosso dal privato, la seconda ad un procedimento attivato d'ufficio”.
Necessario menzionare la riflessione del Procuratore Generale, il quale dubita della sovrapponibilità dei due sottoinsiemi, poiché da un lato l’informativa antimafia è uno strumento riferibile a qualunque attività economica, la cui adozione determina, in via cautelare, una incapacità di avere rapporti contrattuali con la PA. Dall’altro, il diniego d’iscrizione alla whitelist, riguarda solo alcuni settori imprenditoriali, precludendo lo svolgimento di determinate attività.
Resta assodato però che entrambi questi provvedimenti siano volti ad arrestare i pericoli di infiltrazione mafiosa o di condotte agevolanti, ed avendo i medesimi effetti lesivi per l’impresa coinvolta vanno assicurate parità di trattamento, eliminando una disparità irragionevole.
Danno da disservizio
In relazione a quanto tutto sopra detto ne consegue che dalle condotte sussumibili nella nozione di corruzione, anche talvolta in assenza di rilevanza penale, la giurisprudenza ha individuato una serie di figure sintomatiche tipiche di danno, una tra tutte e forse quella con una cassa di risonanza più ampia sulla collettività il danno da disservizio, che si realizza quando il servizio non è conforme alle sue qualità essenziali.
Il danno da disservizio è stato individuato nel pregiudizio per il servizio, nel disservizio di cui l’ente risente o nell’aggravio delle spese che ne conseguono.
Tra i criteri elaborati dalla giurisprudenza l’art. 1226 c.c. è l’articolo di riferimento ai fini della quantificazione del danno da disservizio, a mero titolo esemplificativo si possono richiamare: il valore delle risorse umane e strumentali impiegate dall’ufficio per svolgere una specifica attività, poi vanificata a causa della condotta illecita posta in essere dall’agente, gli oneri connessi alla riorganizzazione, alle consulenze legali esterne e al servizio di auditing impegnato nelle attività straordinarie di indagini interne collegati alle condotte dannose.
I danni conseguenti a tali deplorevoli episodi di corruzione sono stati individuati soprattutto in materia di affidamento e gestione dei lavori pubblici, ove le utilità promesse e ricevute dai pubblici ufficiali si sono manifestate in svariate tipologie, talune di carattere patrimoniale, altre nella forma di opportunità lavorative.
In tale quadro, i giudici contabili hanno spesso deciso di quantificare il danno in maniera equitativa, determinandolo in una percentuale dell’importo complessivo della retribuzione lorda percepita nel periodo coperto dai fatti delittuosi.
Conclusioni
In ottica di voler giungere, per quanto l’argomento lo consenta, a delle conclusioni secondo una ricerca Anac pubblicata nell’ottobre 2019, tra l’agosto 2016 e l’agosto 2019 le ordinanze di custodia cautelare per corruzione spiccate dall’Autorità giudiziaria in Italia sono state 117, con una media di circa 15 arresti effettuati ogni 10 giorni. Si tratta comunque di un’approssimazione fatta per difetto, poiché le ordinanze che non rientravano nella competenza Anac non sono state acquisite.
Altro dato agghiacciante è quello che evidenzia come tra il 2017 e il 2021 sono più di 27mila i dipendenti pubblici che hanno “venduto” la loro funzione a politici e imprenditori disonesti.
Che il fenomeno della corruzione e nello specifico legato alle attività gestite da organizzazioni mafiose, sia un vero e proprio cancro per l’economia del Bel Paese è sottolineato anche dagli investigatori della Dia, i quali attestano come le mafie anche al tempo del Covid-19 e della guerra hanno saputo adattarsi alle dinamiche del contesto storico e hanno continuato ad adottare un approccio silente.
Da ultimo (forti della possibilità di realizzare affari approfittando di tanto denaro in circolazione e della difficoltà a mettere in atto un’azione di controllo estesa da parte delle istituzioni) hanno rafforzato la loro capacità di “fare sistema”, costruendo legami di reciproca convenienza a scapito, lo ribadiamo nuovamente, dei cittadini onesti.
Scrive la Dia che: “Le province con più presenza mafiosa negli ultimi cinquant’anni hanno registrato tassi di crescita significativamente più bassi delle altre e, un ipotetico azzeramento delle mafie in questi territori, comporterebbe un tasso di crescita annuo stimato in cinque decimi percentuali.”