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Il concorso esterno in associazione di tipo mafioso

Concorso esterno in associazione mafiosa
Concorso esterno in associazione mafiosa

Il concorso esterno in associazione di tipo mafioso
 

Abstract. L'evoluzione storica delle organizzazioni criminali di tipo mafioso ha imposto, nella prassi giudiziaria, la necessità di individuare strumenti efficaci di tutela avverso forme variegate di fiancheggiamento al sodalizio criminoso. Con il presente elaborato si analizzerà la figura del “concorso esterno” in associazione a delinquere di tipo mafioso, ripercorrendone l’evoluzione storica in seno alla giurisprudenza di legittimità alla luce della riflessione della dottrina e analizzando le possibili prospettive de iure condendo nel perdurante silenzio del legislatore italiano.

Abstract. The historical evolution of mafia-type criminal organizations has imposed, in judicial practice, the need to identify effective instruments of protection against variegated forms of flanking the criminal association. With this thesis the figure of the “complicity” in association with mafia-type crimes will be analyzed, retracing its historical evolution within the jurisprudence of legitimacy in the light of the reflection of the doctrine and analyzing the possible perspectives de iure condendo in the persistent silence of the Italian legislator.

 

SOMMARIO: 1. Introduzione al tema. - 2. Il c.d. “concorso esterno” nelle pronunce più importanti della Suprema Corte e le critiche della dottrina penalistica. – 2.1. Il vaglio della Corte EDU nel caso Contrada e i “fratelli minori”. - 3. Le possibili prospettive di riforma nel silenzio del legislatore. - 4. Osservazioni e riflessioni conclusive.

SUMMARY: 1. Introduction to the topic. – 2. The “complicity in mafia crimes” in the most important pronouncements of the Supreme Court and the criticisms of criminal law doctrine. – 2.1. The scrutiny of the ECtHR in the Contrada case and the younger brothers”. – 3. The possible prospects for reform in the silence of the legislator. – 4. Concluding remarks and reflections.

 

1.      Introduzione al tema

 

         Con il presente elaborato si analizzerà la figura del “concorso esterno” in associazione a delinquere di tipo mafioso, ripercorrendone l’evoluzione storica in seno alla giurisprudenza di legittimità alla luce della riflessione della dottrina e analizzando le possibili prospettive de iure condendo nel perdurante silenzio del legislatore italiano.      

         Preliminarmente occorre fare un cenno al concorso di persone nel reato. Tale istituto giuridico, disciplinato all'art. 110 c.p., estende la punibilità a comportamenti che, sebbene di per sé leciti, contribuiscono alla realizzazione di un dato reato. Si è soliti distinguere il concorso di persone di tipo morale, da intendersi quale condotta di determinazione o di rafforzamento dell'altrui proposito criminoso, dal concorso di persone di tipo materiale, che si configura in presenza di un apporto, materiale per l'appunto, al compimento di un fatto di reato.

         Il concorso di persone nel reato non incontra rilevanti difficoltà applicative in relazione ai reati a struttura “monosoggettiva”, ossia a quelle ipotesi criminose concepite da parte del legislatore sul modello del singolo soggetto agente. Con riguardo ai reati “plurisoggettivi”, che, al contrario, ai fini della loro configurabilità, prevedono la necessaria presenza di più soggetti, tuttavia, esso non sempre risulta di agevole applicazione e l’interprete incontra spesso l’inconveniente di dovere distinguere, in via preliminare, la figura del soggetto concorrente “eventuale” da quella dell’agente-concorrente “necessario”.

Particolarmente controversa è l’applicabilità del concorso di persone nell’ambito dei reati associativi, e segnatamente in relazione al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, previsto e punito all'art. 416 bis del codice penale.

In tale ipotesi, l'istituto de quo viene costruito come “concorso nell’associazione complessivamente intesa”, senza tuttavia specificare a quale delle due distinte fattispecie autonome di reato (previste, rispettivamente, ai commi 1 e 2 dell’art. 416 bis c.p.) si faccia riferimento, ossia la partecipazione all'associazione o le più gravi condotte di promozione, organizzazione, direzione di essa.

         Tale delitto, introdotto dall'art. 1 della l. 13 settembre 1982, n. 646, è collocato nel Titolo V del Libro II del Codice penale. Ai fini della sua configurabilità, occorre, anzitutto, l'esistenza, tra tre o più persone, del c.d. “pactum sceleris”, ossia di un vincolo associativo stabile, e dell'“affectio societatis”, cioè della volontaria consapevolezza di essi di far parte dell'associazione, conformandosi alle regole di essa e condividendone gli scopi ovvero il programma criminoso ideato.

Particolare importanza assume il terzo comma dell'art. 416 bis c.p., ove è descritto il c.d. metodo mafioso, ossia il modus operandi proprio dell'associazione in parola, che consiste nell'utilizzo da parte del sodalizio della forza di intimidazione del vincolo associativo e nella condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per le persone offese al fine di commettere delitti, acquisire la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.

Si tratta di un reato di pericolo e plurioffensivo, in quanto la sola costituzione dell’associazione è idonea a turbare più beni giuridici, segnatamente l'ordine pubblico, il corretto andamento dell’ordine economico, il funzionamento della Pubblica Amministrazione e - secondo una parte della dottrina - finanche la libertà morale dei cittadini. Inoltre, è un reato permanente, nel senso che esso si sostanzia in una condotta perdurante nel tempo e il cui momento consumativo coincide con lo scioglimento del vincolo dell’associazione a delinquere.

         Ciò premesso, la presente trattazione avrà riguardo allo specifico oggetto del “concorso esterno” di persone nel reato di associazione di tipo mafioso.
 

2.      Il c.d. “concorso esterno” nelle pronunce più importanti della Suprema Corte e le critiche della dottrina penalistica.

         L'evoluzione storica delle organizzazioni criminali di tipo mafioso ha imposto, nella prassi giudiziaria, la necessità di individuare strumenti efficaci di tutela avverso forme variegate di fiancheggiamento al sodalizio criminoso.

         Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già partire dagli anni '90 del secolo scorso, hanno ammesso l'applicabilità del concorso di persone eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, ritenendo penalmente rilevanti taluni comportamenti “atipici” posti in essere da parte di soggetti esterni alla consorteria ai quali ha esteso, ai sensi dell’art. 110 c.p., la punibilità prevista per il reato di cui all’art. 416-bis c.p.

         In particolare, il primo significativo arresto giurisprudenziale in materia è rappresentato dalla nota sentenza “Demitry[1].

Con tale pronuncia, la Suprema Corte, risolvendo positivamente l’annoso contrasto giurisprudenziale e dottorale tra chi ammetteva il concorso eventuale materiale di persone nei reati associativi e chi, al contrario, lo negava, ha distinto la figura del partecipe da quella del concorrente “esterno” affermando che la condotta del primo si caratterizza per la stabilità, continuità all’interno del sodalizio, laddove quella del concorrente interviene occasionalmente e in una fase patologica, di “fibrillazione” dell'associazione, ossia in quella situazione di fatto in cui la mancanza di risorse umane all’interno dell’associazione potrebbe ostacolare la realizzazione del programma criminoso. Inoltre, sotto il profilo soggettivo, il concorrente può agire anche con dolo generico (non essendo necessario il dolo specifico previsto per la fattispecie associativa) e cioè che il fine che muove l’agire del concorrente “esterno” coincida con quello proprio del partecipe di realizzare il programma criminoso, potendo il medesimo essersi determinato anche per uno scopo meramente personale.

         Detto criterio, tuttavia, non fu avallato in seno alla giurisprudenza dell'epoca[2], né convinse pienamente la dottrina, la quale ne criticò da subito i contorni labili e sfuggenti e l'incapacità di differenziale, sul piano probatorio, l’opera del concorrente da quella del partecipe, continuando a sussistere, pertanto, una insormontabile sovrapposizione di tali figure criminose.

         Qualche anno più tardi, le Sezioni Unite giungeranno a un nuovo importante arresto sul tema. Nel caso “Carnevale” [3], nel ribadirne l'ammissibilità, verrà affermato che il concorso materiale di persone nei reati associativi si configura ove taluno, privo dell’affectio societatis e non inserito nell'organizzazione del sodalizio, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purché detto contributo abbia un'effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e l’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso.

         La Suprema Corte, dunque, ritenne che non vi sia differenza tra il dolo del soggetto partecipe e quello del concorrente eventuale, poiché entrambe le condotte da essi realizzate devono essere sorrette dal dolo specifico, sull’assunto che anche il concorrente esterno fornisce un contributo che vuole e sa essere diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.

         Tale apporto dell'extraneus, che può concretizzarsi anche in un'attività continuativa nel tempo e senza che intervenga necessariamente al fine di “salvare” l'associazione né che provenga da un soggetto dotato di specifiche competenze, deve tradursi in un contributo volto alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio criminoso, essendo tale il significato che, ai sensi degli artt. 110, 416 bis c.p., assume la locuzione «concorrere nel medesimo reato».

Con tale pronuncia la Corte di Cassazione, da una parte, estende l’ambito di applicabilità – quantomeno sul piano oggettivo materiale – della disciplina del concorso di persone a ulteriori diversi comportamenti di soggetti estranei alla compagine associativa e, dall’altra, esclude dal perimetro della penale rilevanza i fenomeni della contiguità compiacente e della connivenza ove i relativi atti posti in essere, in base ad un accertamento giudiziale di prognosi postuma (ossia operato ex ante), non siano idonei ad apportare un contributo per il rafforzamento o per il consolidamento della vita dell’associazione ovvero di un particolare ambito di essa.

A distanza di tre anni le Sezioni Unite emetteranno un’altra significativa pronuncia, nota come caso Mannino.[4]

In detta sentenza la Suprema Corte tornerà sulla distinzione tra concorrente e partecipe, affermando, in particolare, che, sotto il profilo oggettivo, solo il partecipe è colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa, fa parte dell’associazione mafiosa, mentre l'extraneus si limita a fornire dall’esterno un concreto, specifico, consapevole, volontario contributo, quale condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento della capacità operativa dell'associazione o di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale.

Inoltre, con riferimento all’elemento soggettivo, la Corte afferma che il dolo del concorrente esterno, oltre a sorreggere l’attività dallo stesso posta in essere, deve altresì investire tutti gli elementi costitutivi del delitto dell’associazione di stampo mafioso con la consapevolezza di compartecipare in tal modo nel reato medesimo.

È, pertanto, necessario che il concorrente “esterno”, pur rimanendo privo dell’affectio societatis, sia consapevole dei metodi e dei fini del sodalizio (che, peraltro, potrebbe non condividere), e sia cosciente di contribuire, con il proprio apporto, alla conservazione ovvero al rafforzamento della societas sceleris.

Il merito di tale pronuncia, ad avviso di chi scrive, risiede nell’avere sostituito il precedente criterio della prognosi postuma, di idoneità ex ante, circa l’accertamento dell’efficacia causale del contributo del “concorrente esterno”, il quale aveva dilatato in maniera eccessiva la portata del concorso esterno (sconfinando, spesso, nell’arbitrarietà della valutazione), con un giudizio di verificazione ex post da enuclearsi sulla base dei criteri generali elaborati in tema di rapporto di causalità e fondati sul modello della c.d. sussunzione sotto leggi scientifiche o di copertura.

Il maggiore rigore preteso da parte delle Sezioni Unite, tuttavia, ha incontrato – e tutt’oggi incontra – oggettive difficoltà per l’interprete nel reperire affidabili leggi di copertura ovvero massime di esperienza con la conseguenza di esporre l’imputato a esiti processuali del tutto imprevedibili.

In tal modo, infatti, il giudice, al fine di individuare la posizione del concorrente “esterno” nel singolo caso di specie, deve fare i conti, da una parte, con gli elementi di vaghezza e di indeterminatezza propri delle disposizioni normative coinvolte, e segnatamente presenti negli artt. 110 e 416.bis c.p., e, dall’altra, con le implicazioni probatorio che ne derivano, essendo necessario, a tal fine, considerare e valorizzare la dimensione sociale e il contesto in cui è inserita l’associazione delittuosa nel caso concreto, il modo in cui quest’ultima è strutturata, il metodo di azioni dei sodali, le regole interne, gli scopi e il programma criminoso, fino a ricomprendervi i ruoli e le funzioni di ciascun associato, per tratteggiare, in via residuale e per esclusione, il profilo e le condotte del concorrente “esterno”.

A causa di ciò, l’utilizzo delle massime tratte dall’esperienza comune e sganciate dal caso concreto si risolve, a ben vedere, nella spasmodica ricerca in sede applicativa di rispondere a esigenze general preventive e di politica criminale nel contrasto al fenomeno di fiancheggiamento alla mafia, che, com’è noto, si manifesta in forme sempre più sfuggenti e mimetiche all’interno del tessuto sociale, difficilmente afferrabili e soprattutto non inquadrabili all’interno di un’unica categoria dogmatica prima ancora che giuridica.

Per tale ragione si registrano nella prassi vere e proprie distorsioni interpretative relativamente all’istituto del concorso di persone al fine di renderlo compatibile con i reati associativi, poco importa se le garanzie e i diritti fondamentali posti a tutela dell’imputato e, più in generale, del corretto andamento del processo penale, vengono seriamente pregiudicate se non addirittura pericolosamente minate alla base.

Ad accrescere le difficoltà di interpretazione e di applicazione è, inoltre, l’avvenuto riconoscimento in senso alla giurisprudenza di legittimità circa la natura permanente, propria del delitto associativo, anche al “concorso esterno”, la quale si fa derivare dalla circostanza che tale fenomeno rappresenta nient’altro che una mera propaggine del delitto associativo di stampo mafioso cui accede.

Com'è noto, a differenza che nel reato istantaneo, nel reato permanente l’offesa al bene tutelato non si consuma nello stesso momento in cui essa è attuata ma coincide con la cessazione del comportamento posto in essere, venendo così incriminata in un tempo cronologicamente successivo una condotta già perfetta in tutti i suoi elementi di tipicità.

         Ciò posto, con riferimento al concorso “esterno” la dottrina ha aspramente criticato detta equiparazione, in quanto la Suprema Corte, non solo si è evidentemente discostata dalla cornice di tipicità che, con grande sforzo, era stata delineata nel 2005 nel dictum “Mannino” ma non ha neppure fatto buon governo dei principi e degli indirizzi interpretativi dalla stessa già espressi in passato sul tema. In altri termini, il concorso “esterno”, lungi dal poter essere definito come mera propaggine del reato associativo, rappresenta il frutto di una decennale opera di “tipizzazione” compiuta dalla prassi giudiziaria e costituisce, semmai, un eccezionale caso di “anomalo innesto” dell’istituto in parola in una fattispecie di reato a concorso c.d. necessario quale quella prevista all’art. 416-bis c.p.

La dottrina osserva ancora che, nel caso Mannino, le Sezioni Unite avevano peraltro avuto modo di definire il “concorso esterno” quale reato causale di evento, avente natura istantanea, integrato anche dalla mera promessa di impegno alla consorteria da parte del politico che, in base a un giudizio di accertamento causale ex post, risulta avere inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale mafiosa.

         Inoltre, viene pure rilevato che gli atti compiuti da parte dell’extraneus in esecuzione di accordi con la consorteria non spostano in avanti il momento consumativo del reato ma devono essere, al più, valutati come post facta non punibili, atteso che essi, pur potendo costituire una progressione dell’offesa, si collocano tuttavia al di fuori del perimetro del penalmente rilevante eccezion fatta per le sole condotte del concorrente esterno, non previamente pattuite con la consorteria, che incidono direttamente sulla vita dell’associazione o su suoi particolari aspetti organizzativi.

2.1.  Il vaglio della Corte EDU nel caso Contrada e i “fratelli minori”

         Bruno Contrada, ex dirigente generale dell'Amministrazione della Polizia di Stato, veniva condannato, ai sensi degli artt. 110, 416 bis c.p., per avere concorso, tra il 1979 ed il 1988, nell'associazione a delinquere Cosa Nostra.

Dopo avere esperito i rimedi interni, lo stesso ricorreva alla Corte EDU lamentando di essere stato giudicato in violazione del principio di legalità sancito all'art. 7 CEDU, e segnatamente di essere stato disatteso nel caso di specie il divieto di irretroattività della legge penale, sull'assunto che il “concorso esterno” è un reato di elaborazione giurisprudenziale che riceve una compiuta definizione da parte delle Sezioni Unite soltanto nel 1994, con il caso “Demitry”, e, dunque, in un’epoca successiva rispetto ai fatti allo stesso contestati.

La Corte di Strasburgo [5], all’esito del giudizio, affermava che, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente, il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo, che, dunque, non poteva conoscere la sanzione prevista per la fattispecie di reato in conseguenza degli atti compiuti, condannando, per tale motivo, l'Italia per avere violato l’articolo 7 CEDU.

Alla luce di quanto espresso dalla Corte EDU, il Contrada proponeva incidente di esecuzione per la revoca della sentenza di condanna emessa a suo carico, ricorso che veniva rigettato dalla Corte di Appello di Palermo adita in quanto la sentenza della Corte EDU non indicava gli strumenti processuali utilizzabili per consentire all’ordinamento italiano di conformarsi alla sua decisione.[6]

Avverso tale provvedimento di rigetto il Contrada ricorreva per Cassazione, sollevando due distinte questioni giuridiche.

In particolare, la prima relativa all’efficacia “interna” delle pronunce della Corte EDU e la seconda concernente gli strumenti interni idonei a recepirne le statuizioni.

Quanto alla prima questione, la Suprema Corte, osservando che l’art. 46 CEDU obbliga gli Stati contraenti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU nelle controversie in cui sono parti di causa, ha ritenuto, contrariamente a quanto aveva statuito sul punto la Corte di Appello di Palermo, che il giudice nazionale, in ipotesi di accertata violazione di norme CEDU, deve conformarsi alla decisione.

In ordine agli strumenti interni, la Cassazione esclude l’idoneità sia dell'istanza di revisione, ex art. 630 c.p.p., perché nessuna rinnovazione dell’attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte EDU, sarebbe un mero errore di diritto, sia il procedimento di revoca della sentenza, ex art. 673 c.p.p., non versando il caso di specie nelle ipotesi di abolitio criminis ovvero di illegittimità di una norma incriminatrice, e individuando, quale unico strumento idoneo l’incidente di esecuzione - così come aveva correttamente proceduto il Contrada -, atteso che il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed ricomprende tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo.[7]

La Cassazione, dunque, affermava che la sentenza di condanna emessa dal giudice territoriale nei confronti del ricorrente Contrada non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali.

         Orbene, nel 2019, le Sezioni Unite vengono investite di un’altra importante questione di diritto, formulata nei seguenti termini: «se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia o meno portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile».

Si tratta, per la Cassazione, di esprimersi in buona sostanza in ordine alla sorte dei cc.dd. “fratelli minori” di Contrada, ossia di quei casi giudiziari che, in modo analogo, erano stati definiti nei confronti degli imputati con sentenza di condanna per “concorso esterno” relativamente a fatti compiuti in epoca anteriore al 1994, anno della pronuncia Demitry.

         Quanto alla natura o meno di “sentenza pilota” del caso Contrada c. Italia, cioè se essa sia produttiva oppure no di efficacia erga omnes ovvero erga alios, le Sezioni Unite[8] osservano, anzitutto, che l’art. 61 reg. CEDU dispone che, ove sia riscontrata la presenza di un problema strutturale o sistemico o di altra disfunzione simile che ha dato luogo o potrebbe dare luogo alla presentazione di altri ricorsi analoghi, la Corte EDU può emanare una “sentenza pilota” che indichi la natura del problema e le misure riparatorie adottabili a livello nazionale.

Inoltre, osserva ancora la Corte che, al comma 9 il medesimo articolo equipara alla “sentenza pilota” qualsiasi altra sentenza in cui la Corte EDU abbia rilevato un problema strutturale dell'ordinamento giuridico interno dello Stato coinvolto in causa.

Alla luce di ciò, la Suprema Corte riunita ha affermato che la sentenza “Contrada” non può essere ritenuta “sentenza pilota”, poiché redatta in termini strettamente individuali, né può assumere portata generale, ex art. 61, comma 9 reg. CEDU, poiché essa non affronta la questione della legittimità del “concorso esterno” - quale fattispecie di creazione giurisprudenziale concepita in violazione del principio costituzionale della riserva di legge in materia penale - ma si concentra unicamente sulla “prevedibilità” della sanzione penale, rammentando sul punto come, in seno alla giurisprudenza della Corte EDU, talvolta, si è data enfasi alla concreta possibilità per l'imputato di conoscere il disvalore del fatto commesso tenendo conto di eventuali sue qualifiche e competenze professionali, talaltra, si è attribuita importanza al contenuto precettivo sulla scorta dell’opera di interpretazione della Corte di Strasburgo.

Inoltre, le Sezioni Unite rilevano che il “concorso esterno” non è una création prétorienne, ossia un'ipotesi delittuosa di creazione giurisprudenziale, costituendo, invece, fisiologica applicazione del combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p. ed escludono, altresì, la ritenuta sussistenza di deficit strutturali nell’ordinamento interno, perché, rispetto ai fatti commessi prima del 1994, le condotte perpetrate a favore di un’associazione mafiosa assumevano, già in quell’epoca, penale rilevanza tanto che avrebbero potuto portare, alternativamente, ad una condanna per “concorso esterno” in associazione a delinquere di stampo mafioso, ex artt. 110 e 416 bis c.p., ovvero per avere preso parte ad essa, ex art. 416 bis c.p..

Quanto alla sorte dei “fratelli minori” di Contrada, le Sezioni Unite, affermando che la statuizione adottata nei confronti del Contrada da parte della Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori del caso specifico risolto né consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per il concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per aver commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della sentenza Demitry e che allo stesso tempo non abbiano adito la Corte europea ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole, concludono che i principi affermati dalla Corte EDU nel 2015, nel caso Contrada c. Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza consolidata.

Pertanto, il caso Contrada, pur avendo segnato un solco profondo nella prassi giudiziaria italiana, rimane al momento un caso isolato.
 

3.         Le prospettive di riforma nel silenzio del legislatore.

         Da quanto sin qui esposto emerge con evidenza che, malgrado gli sforzi compiuti negli anni da parte della Cassazione, specialmente a Sezioni Unite, il “concorso esterno” stenta a elevarsi quale valido strumento di tutela rispetto alle forme eterogenee e variegate di contiguità e di fiancheggiamento al fenomeno criminale associativo.

         In ragione di ciò, la dottrina ha suggerito di abbandonare il modello di accertamento causale ex post del contributo dell'extraneus per sostituirlo con criteri di imputazione provenienti dalle teorie sociologiche dell'organizzazione, alla cui stregua ritenere fiancheggiatore punibile colui che fornisce un contributo “funzionale” apprezzabile e significativo all’associazione criminale, idoneo ex ante ad incrementare le risorse di cui l’organizzazione criminale dispone per perseguire un suo scopo o realizzare una sua attività[9].

         Tale prospettiva è, tuttavia, molto limitata e presta il fianco a numerose critiche, in quanto poggiando su teorie sociologiche, le quali naturalmente non sono concepite per soddisfare l'esigenza del diritto penale di formulare giudizi di disvalore dei comportamenti umani, finisce per estendere la punibilità ad ogni contributo che appaia “funzionale” a un’organizzazione criminale, senza, però, distinguere l’agire lecito da quello illecito.

         Nonostante il perdurante silenzio del legislatore, ad avviso di chi scrive sarebbe opportuno - quanto auspicabile - un intervento definitivo da parte del legislatore che possa “tipizzare” e positivizzare l’imponente elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in tema di “concorso esterno”, a partire dalla semantica utilizzata nella prassi, valorizzando, ad esempio, taluni termini, come proteggere, agevolare, favorire, e rendere, anzitutto, comprensibile e accessibile il significato della condotta compartecipativa vietata, con la naturale conseguenza di orientare le azioni dei destinatari dell’incriminazione.

In virtù di tale semplificazione linguistica, già a monte, si escluderebbero dal perimetro del penalmente rilevante, inoltre, alcuni comportamenti di soggetti esterni al sodalizio criminoso compiuti nello svolgimento di funzioni istituzionali o nel libero esercizio di attività professionali (si pensi, a titolo esemplificativo, ad avvocati, pubblici funzionari, magistrati), rispetto ai quali si riscontrano insormontabili difficoltà probatorie in ordine all’accertamento della concreta incidenza causale di una o più condotte di tali soggetti nella vita dell’intera organizzazione criminale di volta in volta interessata.

         A tal fine, potrebbe costituire valida base per sviluppare l’intervento auspicato del Legislatore il Progetto elaborato nel 1999 da parte della Commissione “Fiandaca”, che descrive compiutamente la fattispecie di “concorso esterno” nel seguente modo: «chiunque fuori dei casi previsti dall’art. 416-bis c.p. e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, eccedendo i limiti del legittimo esercizio di un’attività politica, economica, professionale o di altra natura, ovvero abusando dei poteri o violando i doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio (o alla qualità di Ministro di culto), protegge o comunque agevola un’associazione di tipo mafioso, al fine di trarne in cambio vantaggi».

         A ben vedere, si tratterebbe di introdurre nel panorama normativo dell’impianto codicistico un inedito reato di pericolo, e non già di danno, modellato sul delitto di cui all'art. 416 ter c.p., ossia su di un accordo tra l'associazione a delinquere di stampo mafioso e il soggetto “esterno”, avente ad oggetto, da un lato, la prestazione resa da parte di quest'ultimo e, dall'altro, la “protezione” del sodalizio criminoso medesimo.

            Nel silenzio assordante e perdurante del legislatore, si auspica, dunque, un suo definitivo intervento di riforma al codice penale.
 

4.      Osservazioni e riflessioni conclusive.

         Al termine della presente trattazione si può affermare che l'ammissibilità dell'istituto del concorso eventuale nel reato associativo mafioso è, ormai, riconosciuta nell’ordinamento giuridico italiano, nonostante l'auspicio di procedere, per via legislativa, muovendo dai correttivi sempre lucidi proposti, negli anni, da parte della dottrina più avveduta, alla “positivizzazione” di talune condotte che sono state individuate nella prassi e ritenute idonee a integrare l’ipotesi delittuosa di concorso esterno.

In tal modo, si eliminerebbero definitivamente le inaccettabili incertezze che genera l’istituto de quo nell’ambito dei reati associativi a causa dell’infelice formulazione lessicale dell’art. 110 c.p. che si contraddistingue per uno spiccato tasso di indeterminatezza.

         Inoltre, si orienterebbero i comportamenti dei singoli, riducendo il paventato rischio di applicazioni inique e imprevedibili della legge penale.

         Allo stato, infatti, il “concorso esterno”, nonostante i lodevoli sforzi in seno alla giurisprudenza di legittimità e i correttivi proposti da parte della dottrina, non è in grado di elevarsi a idoneo strumento di tutela e di garanzia dei principi fondamentale del diritto penale (quali, ad esempio, quello di materialità, offensività, di legalità), per cui risultano quanto mai attuali e comprensibili le richieste di intervento riformatore da parte del legislatore.

In particolare, è diffusa l’esigenza di avviare un inedito processo di criminalizzazione dei comportamenti sociali che si fondi su scelte operate nell’ottica di un diritto penale del fatto e che possa finalmente e correttamente declinare i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo con le ineluttabili esigenze di difesa sociale.

         Ad avviso di chi scrive, è, pertanto, opportuno invocare il principio della riserva di legge in materia penale, non solo in senso strettamente tecnico-giuridico, ossia quale importante presidio costituzionale posto a garanzia delle libertà individuali dei singoli ma, soprattutto, per evidenziare quel dovere di intervento cui il Parlamento non può e non deve sottrarsi di fronte a questioni di natura politico-criminale di massimo rilievo sociale e istituzionale, come quelle che abbiamo succintamente affrontato, e che, ingiustificatamente, continuano a essere lasciate all’arbitrio dell’indeterminatezza dell’Accusa, incidendo profondamente non solo nella vita e nella dignità delle persone coinvolte nel procedimento penale ma compromettendo altresì la credibilità e l’autorevolezza della Giustizia italiana.

Bisognerebbe prendere definitivamente coscienza di tali gravissime storture all’interno degli equilibri costituzionali e degli irreparabili pregiudizi che possono derivarne in senso alla collettività prima di imbattersi ambiziosamente e strumentalmente per via giudiziaria nel contrasto al sostegno del crimine organizzato.

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Note:
 

[1] Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 1994, n. 16.

[2] Per tutte, v. Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2001, n. 3299.

[3] Cass. pen., sez. un., 30 ottobre 2002, n. 22327.

[4] Cass. pen., sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748.

[5] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 14 aprile 2015, Causa Contrada c. Italia, Ricorso n. 66655/13.

[6] C. Appello Palermo, sez. I, ord. 11 ottobre 2016 (dep. 24 ottobre 2016).

[7] Cass. pen., sez. I, 6 luglio 2017 (dep. 20 settembre 2017), n. 43112.

[8] Cass. pen., sez. un., 3 marzo 2020, n. 8544.

[9] G. DE FRANCESCO, Concorso di persone, reati associativi, concorso nell’associazione: profili sistematici e linee di politica legislativa.