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Ronald Dworkin ed il suo giudice-re

Un giudice “creativo” che vada oltre il significato letterale delle parole è necessario per il coerente e buon funzionamento del sistema legale
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Abstract

La sempre più ampia discrezionalità della magistratura è un tema di grande interesse e che desta sovente scontri tra gli interpreti. In sintesi, è auspicabile che il giudice sia fortemente vincolato alla legge con un ridotto margine di apprezzamento? Non è un interrogativo solo “filosofico”, bensì molto concreto. Si pensi al caso di DJ Fabo del 2019 deciso dalla Consulta. Per rispondere al quesito, o almeno per proporre una chiave di lettura, proponiamo il pensiero di Ronald Dworkin. 

Indice

1. Introduzione sul pensiero di Dworkin

2. Cenni ai fondamenti della filosofia del diritto di Dworkin

3. La creatività della giurisprudenza secondo Dworkin

4. Hercule’s judge secondo Dworkin

5. Conclusione: la questione valoriale secondo Dworkin

 

Introduzione sul pensiero di Dworkin

Ronald Dworkin fu uno dei più influenti giuristi e filosofi del diritto del XX secolo. Secondo molti autori, la riflessione dworkiniana fu una vera e propria rivoluzione se paragonata a posizioni classiche come il positivismo giuridico, il giusnaturalismo ed il realismo giuridico.

Invero, la sua opera viene ricondotta ad una scuola giuridica completamente diversa, ossia l’interpretativismo giuridico: teoria contrapposta a quella di Hans Kelsen e di H.L.A. Hart, in cui la legge è qualsiasi cosa scaturisca da una interpretazione costruttiva della storia istituzionale di un sistema legale.

Inoltre, nei paesi europei – specialmente quelli di lingua neo-latina – Dworkin è considerato come uno dei principali fautori ed ispiratori della corrente del neocostituzionalismo.

Tuttavia, egli non si è occupato esclusivamente di tematiche legate al diritto, bensì ha analizzato anche questioni politiche ed etiche: si può affermare che la sua ricerca ha preso in considerazione le caratteristiche fondamentali della ragion pratica, ovvero la capacità di comprendere valori e principi che ci spiegano come il mondo dovrebbe essere e come gli individui dovrebbero comportarsi – il ought to be inglese.

In primo luogo, discuterò brevemente gli elementi centrali della teoria di Dworkin contrapponendola specialmente al suo più grande rivale, ovvero H.L.A. Hart – tra i massimi rappresentanti del “Soft or Inclusive Legal Positivism”. Il proposito di questa prima parte è il porre le basi e le necessarie premesse per una quanto più completa e globale trattazione del tema.

Successivamente, guardando prevalentemente alle riflessioni di influenti autori come Mauro Barberis, Giorgio Pino, Roberto Pardolesi, e di giudici come Marta Cartabia, proverò a comprendere se sia possibile – ed auspicabile nel XXI secolo – che un giudice prenda come modello ideale il c.d. Hercule’s Judge dworkiniano, oppure, all’opposto (o quasi), il giudice hartiano.

Un quesito decisivo per comprendere verso quale direzione potrebbe (o dovrebbe, a seconda delle posizioni) volgere il potere giudiziario e – contrariamente alle prime impressioni che vedrebbero questa problematica come una squisitamente da “giuristi nella torre d’avorio” isolati dalla realtà – per dare risposta ad un problema che colpisce direttamente ogni singolo individuo: la tutela dei propri diritti e libertà.

Per raggiungere questo scopo, e con la consapevolezza che il tema non potrebbe essere esaustivamente trattato nemmeno utilizzando tutto l’inchiostro a disposizione, la seconda parte verrà “parcellizzata” in diversi capitoli autonomi e distinti per ragioni d’ordine metodologico e concettuale, ma si avvisa, fin da subito, che essi sono intrinsecamente legati e concatenati.

 

Cenni ai fondamenti della filosofia del diritto di Dworkin

Il primo argomento che necessita di attenzione ed approfondimento è la separabilità tra diritto e morale. La morale, nel pensiero di Dworkin, ha una struttura ad albero, ed in particolare il diritto sarebbe una ramificazione della morale politica. Chiaramente, in questa prospettiva, il diritto non è semplicemente “connesso” alla morale, ma è parte di essa, quindi è pervaso dalla sua forza e potenza.

Dall’altro lato, il modello del giuspositivismo sostiene che lo Ius è indipendente dalla morale, o meglio, la morale ha un ruolo ed una sua dimensione, ma questa non va tenuta in considerazione nel momento in cui il parlamento legifera o il giudice decide un caso. Dworkin afferma, al contrario, che il diritto include valutazioni morali e la sua stessa validità non dipende meramente dalle sentenze dei giudici o dalla volontà della maggioranza dei cittadini (rappresentati dal parlamento), ma anche e soprattutto, dalla sua intrinseca correttezza e appartenenza alla morale politica della comunità.

Questa prospettiva ha conseguenze enormi, ed infatti in tal modo il Legislatore è limitato e vincolato nella sua attività dai principi e valori che fondano l’intera comunità. Inoltre, l’interpretazione e l’applicazione di questi principi è assegnata ai giudici, quindi si può sostenere che essi assumono un ruolo assolutamente centrale e fondamentale all’interno dello stato: in certi casi anche in totale opposizione alla volontà della maggioranza del parlamento. Gli eventuali strumenti a disposizione del giudice sono principalmente due: il primo, ammesso generalmente dalla maggior parte degli interpreti, è l’interpretazione costituzionalmente conforme; il secondo, e più controverso, è l’attuazione diretta della costituzione.

Altro tema, da affrontare preliminarmente, è la struttura dell’ordinamento giuridico. Secondo Hart, un sistema legale si fonda su di una combinazione tra norme primarie e secondarie, ed in quest’ultime si collocherebbero le c.d. “Rules of Recognition” capaci di distinguere tra “cosa è diritto” e “cosa non lo è”. Al vertice della piramide vi sarebbe la “Master rule”, la quale conferirebbe validità all’intero ordinamento. La critica di Dworkin si colloca qui, ovvero la validità di una norma non dipende dalla sua forma, bensì dal suo contenuto.

Non ci sono solamente le norme da prendere in considerazione osservandole asetticamente, ma anche i principi che possono notevolmente influenzare l’applicazione delle stesse all’interno di un tribunale. Ma come distinguere tra norme e principi? La domanda è centrale per comprendere successivamente il ruolo del giudice.

Dworkin spiega tale differenza citando un caso: Riggs v. Palmer. La decisione della corte si basò sul principio “nessuno dovrebbe trarre profitto dai propri illeciti”, che non è una norma in quanto queste ultime operano in “an all-or-nothing fashion. Si crea in tal modo una prevalenza dei principi sulle regole, ovvero i primi non possono essere derogati dai secondi. Dworkin riassume ciò dicendo che “Principles cannot be trumped by rules”.

Secondo l’autore statunitense, i principi definiscono e proteggono i diritti dei singoli individui, mentre le regole specificano e cercano di far raggiungere alla volontà collettiva (la maggioranza politica che, di volta in volta, governa) i suoi obiettivi. Fin da queste considerazioni preliminari si può osservare il potenziale conflitto tra “Principles and Rules.

Possiamo trarre una prima importante conclusione, ossia i principi legali non derivano da una norma del parlamento o da una decisione di un giudice, bensì nascono durante lo sviluppo della società. In altri termini, sono immanenti al sistema legale. Di conseguenza, può esistere un principio legale pur non essendo stato tipizzato da una norma positiva o da una sentenza di una corte.

Il giudice, in questa prospettiva, avrebbe il potere di dedurre dal tessuto della società i principi meritevoli di protezione giuridica. Asserzione, quest’ultima, tra le più delicate e criticate su cui torneremo in seguito, specialmente per comprendere se il giudice, nell’individuare un principio, operi all’interno dell’ordinamento costituzionale, oppure al suo esterno.

In altri termini, il giudice è vincolato alla legge oppure opera “liberamente” senza alcuna limitazione? Il quesito diventa particolarmente delicato nei c.d. “Hard Cases”, ovvero casi giuridici di difficile risoluzione in cui si va a testare la tenuta dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. La soluzione della controversia sarà il risultato di una complessa attività interpretativa – che si può definire come “attività creativa del giudice”.

 

La creatività della giurisprudenza secondo Dworkin

Gli elementi tratteggiati nel primo capitolo torneranno utili nel prosieguo del lavoro, ma ora proviamo ad entrare più nel cuore della questione. Il giudice, in tempi non recenti, veniva definito da Montesquieu come la “bouche de la lois, ovvero un giudice che doveva applicare alla lettera il contenuto della legge stabilita dal Legislatore. Questa prospettiva è definitivamente tramontata e, salvo una piccola minoranza, nessun autore, ad oggi, sostiene una simile teoria.

Un giudice “creativo” che vada oltre il significato letterale delle parole è necessario per il coerente e buon funzionamento del sistema legale. Tuttavia, non c’è concordanza su di un punto cruciale: l’estensione di tale creatività. In ogni caso, l’affermazione di un nuovo ruolo ricoperto dal giudice, quale quello di “co-creatore” del diritto, è una enorme novità nel nostro ordinamento giuridico nato a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione. Senza ombra di dubbio, il sistema legale si fonda e sviluppa sulla separazione dei poteri e sul meccanismo dei “Checks and Balances” tipico di uno stato democratico.

Ciononostante, l’inerzia del Legislatore e la sua abulica inattività hanno creato situazioni giuridiche “imbarazzanti” in cui il singolo aveva un diritto da reclamare, ma non una norma tramite la quale farlo tutelare – la morte dello Ius di fronte alla Lex.

Di fronte a queste difficoltà, l’unica soluzione percorribile è parsa quella dell’intervento risolutivo del giudice, il quale diviene, per certi aspetti, una fonte del diritto andando a creare – seguendo l’impostazione dworkiniana opterei più per il verbo rilevare o riconoscere – un principio di diritto nell’interesse della legge. Questa situazione nasce e si sviluppa grazie all’attività ermeneutica del giudice, ovvero della interpretazione che egli dà alle norme e al tessuto sociale-legale che osserva.

Occorre a questo punto concentrarsi sul concetto di interpretazione. A rigore il giudice interpreta sempre: sia quando prende la “lettera della legge” (sceglie, al negativo, di escludere altre possibili interpretazioni delle parole) sia quando è il Legislatore a delegare ad esso tale potere – tipico esempio sono le clausole che prevedono che il giudice deciderà la controversia secondo “equità”.

Peraltro, vi sono scuole di pensiero che affermano addirittura che prima dell’attività interpretativa umana (dei giudici nel contesto giuridico) le singole parole non avrebbero alcun senso, ovvero potrebbero assumere qualsiasi significato – pacificamente è sostenuto che tra l’assumere qualsiasi significato e il non assumerne alcuno non vi sia differenza. Su questo argomento, Dworkin spende molte parole ed illustra un concetto dell’interpretazione giurisprudenziale assai articolato. Per avere una teoria compiuta, ed applicabile, bisogna volgere lo sguardo verso ciò che viene definito “Constructive Interpretation”, ossia un approccio innovativo all’universo del diritto. I giudici non possono assumere il ruolo creativo, che ha elaborato Dworkin, sulla base di un approccio risalente e legato ad una visione completamente diversa. Questa tecnica interpretativa consta nel passaggio attraverso tre fasi (o “stages” nel linguaggio di Dworkin), ma l’attenzione deve focalizzarsi specialmente sulla seconda di esse, ovvero “l’interpretative stage.

Il motivo è che la decisione di un giudice in un caso sarà legittima solamente laddove questa sia coerente con i principi e valori immanenti nella società (la loro individuazione si collocherebbe nella prima fase di lavoro), e giustificabile alla luce degli stessi – sarebbe la terza fase. Questa prospettiva introduce due concetti che saranno fondamentali nell’analisi dell’Hercule’s Judge, ossia quello di “Fit” e quello di “Justification”. Il giudice, nel giudicare un caso di grande complessità – rientrante quindi nella categoria degli “Hard Cases” – dovrà fondare la propria decisione su di un principio che è coerente col sistema valoriale di una società, ma, e allo stesso tempo, che si giustifichi alla luce di una analisi successiva. A questo punto del lavoro è necessario riprendere e chiarire un problema lasciato in sospeso nel primo capitolo.

Il giudice, nel decidere un caso complesso, opera all’interno dell’ordinamento o al suo esterno? La risposta è obbligatoriamente una, ossia che egli si colloca necessariamente all’interno dell’ordinamento giuridico, in quanto la sua decisione non potrà rappresentare una rottura dal sistema. Egli dovrà ricercare le risposte nei principi e valori immanenti nella società, non godendo di una discrezionalità illimitata. Il giudice, e più in generale il giurista, diventa il tramite, o il corpo, attraverso il quale lo Ius si manifesta nella sua più pura versione. Inoltre, si precisa che, per quanto ambiziosa sia la prospettiva dworkiniana, non si vuole creare un “nuovo Legislatore”, bensì un ordine giudiziario che ragioni per principi.

La storia di una società deve essere fedele al proprio passato, ma anche al suo futuro, in modo da non creare uno sviluppo successivo che tradisca quanto avvenuto prima – si comprende qui l’importanza di una sentenza che non avrà ripercussioni sul solo e singolo caso, ma su tutta la collettività.

 

Hercule’s judge secondo Dworkin

Visti i vari contributi di autori di scuole di pensiero diverse sul come il potere giudiziario debba agire, è giunto il momento di delineare le caratteristiche principali del giudice ideale e di come questo operi nei casi concreti.

Citando il giudice Marta Cartabia, iura has overcome lex, ciò apre a considerazioni necessariamente innovative per fronteggiare il nuovo panorama globale dei rapporti tra diritto e legge positiva dello Stato (il secondo elemento come sottoinsieme del primo).

I diritti possono essere direttamente fatti valere presso le corti nazionali o europee laddove il Legislatore non garantisca la loro tutela e/o piena attuazione. Si comprende, a questo punto, che il giudice non ha la possibilità di proteggere i diritti solo in forza di una norma positiva, ma anche, e soprattutto, nel momento in cui il Legislatore si disinteressi del tema, potendo il giudice operare tramite l’analisi e l’individuazione dei valori di una società.

Ritengo questa idea simile a quella di Dworkin. Difficilmente nei secoli scorsi si poteva trovare una simile affermazione, in quanto il potere del Legislatore – la sua potestas – conferiva ad esso una piena e totale legittimazione nel tutelare i diritti tramite la legge positiva dello Stato. In passato, molti membri della dottrina hanno sostenuto una posizione simile a quella di Cartabia, ma che una corte di giustizia prenda questa posizione è una grande novità. La ragione di una simile limitazione del potere giudiziario nei secoli passati è presto data.

A seguito del crollo dell’Ancien Régime e del conferimento dei poteri pieni ad una assemblea, la custodia dei diritti fondamentali dell’Uomo venne data ai rappresentanti del popolo. In questo contesto, i giudici non potevano e non dovevano “preoccuparsi” eccessivamente, in quanto aleggiava l’idea di un Legislatore infallibile. Inoltre, non si voleva riconoscere un “potere creativo” ad un ordine, come quello giudiziario, non rappresentativo della volontà della Nazione – nel senso che non veniva eletto dai cittadini. Mi riferisco alla tradizione di Civil Law europea, nello specifico gli ordinamenti in cui l’accesso alla Magistratura avviene per concorso.

Esistono altre tradizioni giuridiche in cui il giudice viene nominato dal corpo politico (caso più famoso è la nomina dei giudici della Suprema Corte degli Stati Uniti da parte del Presidente) e/o votato dai membri della comunità stessa (i giudici a livello statale sempre negli U.S.A.) – assistiamo qui al fenomeno definito come “politicizzazione” del potere giudiziario.

Purtroppo, ed in poco tempo, si comprese che la fede nel parlamento era, almeno in parte, mal riposta, poiché esso è composto da uomini che tendono a soddisfare anche interessi personali. I singoli parlamentari, una volta eletti, non si trasformano in un organo esclusivamente al servizio dei cittadini – è una illusione credere che l’individuo, coi suoi interessi privati, venga annullato.

Dunque, fatte queste constatazioni, a chi bisogna rivolgersi per avere Giustizia, quindi tutela dei propri diritti, laddove il Legislatore non lo faccia? Ai giudici, i quali amministrano la Giustizia in nome del popolo.

A questo punto, sorge un interrogativo: tra Magistratura e Legislatore c’è una concorrenza nel dare il “giusto” significato, e, di conseguenza, attuazione alle leggi dello Stato per tutelare gli interessi e i diritti dei cittadini? La risposta è affermativa, in quanto senza una ulteriore interpretazione la norma giuridica non potrebbe, di per sé, trovare immediata applicazione. L’entrata in vigore di una disposizione non è sufficiente, non è il punto di arrivo, dunque non risolve il problema. Vi sarà una tensione – in certi casi forte – tra i due protagonisti anzidetti per la specificazione del significato della disposizione e per l’estrazione, da essa, della regola da applicare ai casi concreti per rendere Giustizia. Il diritto non è più esclusivamente il prodotto di un potere potestativo del Legislatore, bensì è il risultato della ricerca dei principi e valori che giacciono alle radici della società di riferimento. Questa conclusione solleva un tema lasciato in sospeso nel capitolo primo, ossia il concetto di maggioranza in Dworkin.

I giudici ricoprono un ruolo talmente potente ed importante da potersi opporre anche alla volontà della maggioranza che governa in un preciso momento storico – a patto che la propria decisione si fondi su principi e valori immanenti alla società.

In altri termini, e a certe condizioni, la Magistratura può essere considerata come un potere contro-maggioritario. Questa prospettiva nasce da una particolare declinazione del significato di democrazia, ossia “democracy does not mean only majority rule, but majority rule subject to those conditions that make majority rule fair”. Solamente a queste condizioni le minoranze potranno essere protette dagli abusi delle maggioranze politiche. In caso contrario, ed in ogni momento, vi sarebbe il rischio di una deriva del potere che spesso si è verificata nel corso della storia: emblematico quanto avvenuto nel XX secolo.

Si riafferma così la caduta del mito del Legislatore onnipotente ed infallibile: la sua volontà non è “Il diritto”, ma “una parte di esso”, perciò esisterebbero altri soggetti capaci di leggere lo Ius e di verificare se la Lex sia o meno conforme.

Fatte queste precisazioni di carattere sociopolitico, giungiamo al cuore del presente lavoro, ossia trattiamo il giudice dworkiniano: chi è l’Hercule’s Judge?

Sicuramente è un modello di giudice ideale – quasi mitologico – che dovrebbe operare nelle più alti corti nazionali ed internazionali diventando, in forza delle sue sentenze ed argomentazioni, fonte di ispirazione per i giudici “minori”. Tuttavia, questo modello di giudice non vuole formare giudici “perfetti”, anzi è semplicemente un ideale a cui ispirarsi nel corso della propria attività interpretativa. È un giudice che riesce a leggere nella storia di una nazione e nel suo tessuto sociale riuscendo ad individuare valori e principi fondamentali di una societas.

Conseguentemente, andrà a tradurre tutto ciò in argomentazioni giuridiche per decidere i casi (in particolare “Hard Cases”) che gli si presentano dinanzi. Imprescindibile per questo giudice è l’altra fondamentale teoria, ovvero la “Right Answer Thesis”: i casi avrebbero una sola soluzione possibile e corretta. Teoria questa che è una precisa e critica risposta alla “Open Texture Thesis” di Hart – in cui la discrezionalità del giudice è illimitata.

Molti criticano questa tesi sull’assunto che non sarebbe possibile la derivazione di una sola risposta in ogni singolo caso, ma Dworkin non sostiene che tale teoria debba trovare compimento in ogni singola situazione, bensì principalmente negli “Hard Cases”, ed in tal modo la sua teoria rimarrebbe perfettamente valida – o comunque sarebbe un ideale a cui tendere. Solo nei casi di estrema tensione dell’ordinamento giuridico è possibile osservare chiaramente l’applicazione di una teoria rispetto ad un’altra e le annesse conseguenze. Viceversa, in quelli che si potrebbero definire come “Easy Cases” (volendo qui riprendere la terminologia usata da Dworkin), le varie teorie sull’Adjudication – come la “Open Texture” o la “Right Answer Thesis” non emergerebbero con chiarezza, dunque impedendo di trarre conclusioni soddisfacenti sul tema.

Ricapitolando, lHercules Judge sarebbe un giudice capace di individuare i valori e principi di una società e di dare una unica risposta ai casi difficili. In altri termini, egli sarebbe una figura dotata di competenze e qualità che superano quelle di un giudice “umano”, ed infatti sarebbe meglio definirlo come un giudice dotato di superpoteri.

Possibile immaginare che ogni giudice sia in possesso di tali caratteristiche? Assolutamente no. Ma allora è tutta una utopia? Negativa la risposta anche a questa domanda. Errori nell’applicazione del diritto se ne faranno, e lo stesso Dworkin lo ammette, ma col tempo questi verranno sempre più ridotti e superati. Questo è solo un ideale nell’esercitare l’attività giurisdizionale che i giudici devono avere in mente.

L’approccio di Dworkin potrebbe essere utile agli odierni giudici per almeno due ragioni: la prima è che l’operato del giudice dworkiniano è un modello che non costringe, bensì ispira l’attività dei giudici “umani” lasciandoli liberi anche di sbagliare; la seconda ragione, e a mio parere più convincente, è che questa prospettiva è davvero “normativamente attrattiva”.

 

Conclusione: la questione valoriale secondo Dworkin

Un giudice creativo operante nel nostro sistema giudiziario può attrarre favori e critiche, ma è una realtà che ormai bisogna affrontare e comprendere, e non respingere a prescindere.

Autori come Zagrebelsky, Grossi e Dworkin ci offrono particolari lenti in grado di farci vedere il mondo del diritto in una prospettiva completamente diversa rispetto al passato.

A mio parere, prescindendo dalla condivisione delle loro teorie, siamo invitati (tutti) ad una nuova riflessione sul concetto di separazione dei poteri, e sul ruolo del Legislatore e del giudice messi dinanzi ai valori Costituzionali. La questione valoriale non può più essere esclusa dal diritto, perciò dobbiamo abbandonare il mantello della neutralità nel mondo giuridico per trovare risposte ai problemi del XXI secolo.

I giudici, dal canto loro, devono assumere un ruolo di grande responsabilità, ovvero quello di interprete e di garante dei diritti degli individui, anche laddove tale funzione sia in contrasto con la volontà del Legislatore.

A mio avviso, un esempio lampante in cui i giudici hanno assunto questo nuovo ruolo, quindi anche in contrasto con la volontà del parlamento, è il caso Englaro. I giudici non hanno interferito in modo illegittimo con la funzione legislativa creando una disciplina ex novo – come ha sostenuto invece la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica –, bensì hanno svolto proprio quella “attività creativa” di invenzione del diritto (per dirla con Grossi). La Cassazione ha riconosciuto (o rilevato) un principio immanente nell’ordinamento giuridico, e, di conseguenza, meritevole di tutela diretta.

Un ulteriore caso da evidenziare è quello recente di Dj Fabo. La Consulta è intervenuta su una questione molto delicata – quella della punibilità del suicidio assistito ex. art. 580 c.p. e del c.d. “diritto a morire” – invitando il Legislatore ad un pronto intervento. La decisione della Corte è stata non di eliminare tout court l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ma di rinviare la questione al parlamento, invitandolo a legiferare sul punto entro il termine del 24 settembre 2019. Indicazione chiaramente disattesa ad oggi, ovvero lo stesso referendum d’iniziativa “popolare” ha tentato di porre un rimedio a tale paradossale immobilità del legislatore – tentativo discutibilmente vanificato dalla Consulta stessa.

Anche in questo caso, la tutela dei diritti delle persone è stata garantita non dal Legislatore, ma dall’operato dei giudici, i quali, prendendosi grandi responsabilità, hanno garantito un diritto che la legge non ha tutelato. Vista l’inattività del Legislatore, la Consulta con un comunicato del 25 settembre 2019 ha posto delle importanti novità all’interno del nostro ordinamento, ovvero innovazioni non previste dalla legge. Si comprende in tal modo che il giudice non basa la propria attività sulla mera conoscenza della Lex, ma anche sulla lettura del contesto sociale e culturale dell’ordinamento: legge, contesto sociale e culturale che assieme vanno a formare i principi immanenti di una società, ovvero compongono lo Ius.

 

Bibliografia e letture consigliate

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Betti Emilio, L’Ermeneutica Giuridica (Giuffrè, 1994)

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