La chiave a stella o della nobiltà del lavoro

La chiave a stella o della nobiltà del lavoro
Siamo a metà luglio, fa caldo e chi è al lavoro forse sogna di essere in vacanza.
Eppure, proprio ora vorrei cambiare prospettiva e parlarvi di Lavoro con la maiuscola.
Il termine viene dal latino Labor, che significa “fatica”, sforzo”, ma deriva «…. dalla radice Labh, che sembra avere il senso proprio di “afferrare” e quello figurato di “volgere il desiderio, la volontà, l’intento a q.c., agognare, intraprendere, ottenere, impossessarsi»: https://www.etimo.it/?term=lavoro.
Conoscete la frase (attribuita a Charles Darwin) «Il lavoro nobilita l’uomo»? Era il motto di mio nonno materno e sarà anche per questo che ho sempre pensato al Lavoro come a una condizione importante e desiderabile dell’esistenza.
L’idea del lavoro come valore umano era affiorata in qualche autore latino (Virgilio: «labor omnia vincit»; Appio Claudio Cieco: «homo faber fortunae suae»), ripreso poi durante l’Umanesimo, ma si è affermata solo in epoca moderna.
Nell’antichità – se pensiamo alla Genesi biblica che narra della cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden per aver rubato una mela dall’albero della conoscenza, o a Esiodo che ne “Le opere e i giorni” narra le conseguenze della vendetta di Zeus per il furto del fuoco divino ad opera di Prometeo – si credeva fosse esistita un’età aurea in cui gli esseri umani erano vicini agli dèi, la terra donava copiosamente i suoi frutti ed essi erano liberi tutto il giorno di nutrirsene, oziare, giocare e godere. In effetti, quello era lo stato di natura, ma non so quanto fosse felice e gioioso per una specie di ominidi che non era neanche tanto forte fisicamente rispetto altre specie animali.
Sentite la maledizione di Zeus a Prometeo:
«O di Giapèto figlio, maestro di tutte le astuzie,
t’allegri tu, che il fuoco m’hai preso, m’hai tesa la frode;
ma gran cordoglio, per te, sarà fra le genti venture:
ch’io darò loro, in cambio del fuoco, un malanno che tutti
accoglieranno con gioia, gran festa facendo al malanno»
(Esiodo, “Le opere e i giorni”, VIII Secolo a.C.)
Il “malanno” inviato da Zeus sapete qual era? La donna, la bella Pandora, colei che poi scoperchiò il famoso vaso facendone uscire tutti i mali del mondo! Perché gli uomini, in quella mitica età dell’oro, nascevano come le pere, cadendo dagli alberi. Capite che allegria, un mondo senza le donne?
Come che sia, in quelle rappresentazioni il lavoro era unicamente fatica, parte del castigo, conseguenza della perdita della prossimità al divino.
E per molti secoli dopo il lavoro è stato affidato agli ultimi anelli della scala sociale.
Poi arrivò Hegel, con la “Fenomenologia dello spirito” (1807), a dimostrare che la dialettica servo-padrone alla lunga vede prevalere il servo, quello dei due più capace di provvedere al sostentamento di entrambi.
Ma solo nel XX secolo si affermano (almeno sulla carta) il lavoro come dovere e come diritto di tutti «secondo le proprie possibilità e la propria scelta» a contribuire al progresso della società e i Lavoratori come soggetto sociale cui va garantita «un’esistenza libera e dignitosa» (per dirla con le parole della nostra Costituzione).
E se quel complesso di fondamentali obblighi e garanzie che formano il “Diritto del lavoro” deriva senz’altro dalla scoperta del valore nobilitante del lavoro, tuttavia essi non esauriscono il discorso su questo tema, che attiene anzitutto alla capacità trasformativa dell’umano sulla natura, inclusa la propria: il lavoro è la rivincita di Prometeo, la conquista da parte dell’essere umano dell’autonomia, della possibilità di essere artefice del proprio destino, inventando da sé mezzi e modi per trasformare le cose della natura insufflandovi la sua stessa anima, e di condividere i risultati di questo impegno.
Per questo, come osservava Primo Levi:
«Se si escludono singoli istanti prodigiosi che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono»
(Primo Levi, “la chiave a stella*, prima edizione Torino, Einaudi, 1978).
Il libro citato racconta le conversazioni tra l’autore, chimico e scrittore, con un operaio specializzato di una grande azienda torinese, Libertino Fassone detto Tino, che se ne va in giro per il mondo a montare tralicci e gru, fiero e soddisfatto di ogni nuovo cimento.
Scrive ancora Levi:
«Tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pienezza... insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovesce ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia e a tenerle testa […] Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio i potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura […], e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce».
Sta nell’Opera il valore nobilitante del Lavoro e questo valore travalica di gran lunga quello di scambio, misurabile con la sua (eventuale) remunerazione (p.es., nel caso di Levi, l’incasso dalle vendite dei suoi libri; nel caso di Tino, il salario che percepiva). E, per inciso, travalica anche la cosiddetta “età lavorativa”: è lavoro tutto ciò che mobilita il nostro impegno e le nostre competenze e abilità, che a volte ci induce anche a sfidare circostanze avverse e che si traduce in un risultato osservabile (anche se non necessariamente tangibile), con un valore d’uso per qualcuno.
È un valore morale, civile e relazionale, che si manifesta nel tempo osservando la modificazione che la nostra opera ha determinato in noi stessi e negli altri rispetto a prima di essere prodotta: l’impatto che ha avuto la lettura dei libri di Primo Levi su generazioni di lettori e prima ancora quello che ha avuto su di lui scriverle; l’utilità dei tralicci montati da Tino e prima ancora quello che ha avuto su di lui installarli.
Italo Calvino riconobbe a Levi il merito di avere restituito, con questo libro:
«un'immagine (felicemente "inattuale" rispetto agli umori dei tempi) di quella quasi ignota civiltà della competenza che pure esiste in Italia, ed in cui rivive l'antica nobiltà dell'artigiano che fa le cose con le proprie mani»
(https://disf.org/educational/la-chiave-a-stella).
Se già sul finire degli anni Settanta del secolo scorso quella era un’immagine inattuale, ci sarebbe da chiedersi come possa apparire oggi, nella “società liquida” (Bauman), in cui le relazioni – quelle personali e quelle lavorative - sono sempre più labili e precarie e in cui da un giorno all’altro anche le competenze acquisite potrebbero non valere più nulla.
E poi, per amare il proprio lavoro e sperimentare quella sensazione di pienezza di cui parla Levi nel tempo che vi si dedica, bisogna avere fiducia, da un lato, nelle proprie capacità e, dall’altro, in una qualche ragion d’essere, per sé e per altri, dell’opera che si va producendo: è questo che ce la rende desiderabile e meritevole di dedizione.
Scrive Zygmunt Bauman:
«Sembra che la moralità, quel [...], senso di responsabilità per un Altro [...] sia stata fatta, con tutti i suoi panorami mozzafiato e tutti i suoi vicoli ciechi, agguati e ingannevoli deviazioni, a misura dell’'homo faber'.
Liberato da compiti di costruzione e contrariato da qualunque tentativo in tal senso, l’’homo consumens' può esprimere le proprie capacità in modi nuovi e fantasiosi [...].
Quando non c'è niente che duri, è la rapidità del cambiamento che può redimerti.
[…] Nella società dei consumi la figura di successo è il prestigiatore».
(Zygmunt Bauman, Amore liquido. Pubblicato per la prima volta in inglese nel 2003).
Quanti oggi concepiscono il lavoro, la condizione di produttore e l’impegno che vi è connesso come un “valore nobilitante”?
E per quanti altri è invece solo una “condizione abilitante”, una delle tante possibili e nemmeno tanto gradita per sopravvivere, consumare, partecipare alla festa, distrarsi, stordirsi?
Le strutture produttive, le istituzioni della conoscenza e i sistemi di comunicazione possono certamente influire, nel bene e nel male, sulla percezione individuale e collettiva del valore e possono accrescere o fiaccare quella fiducia di cui si parlava prima.
Ma sono anch’essi prodotti umani e l’impegno (il lavoro) per trasformarli è una sfida in cui vale sempre la pena cimentarsi, perciò buon Lavoro (e buone ferie) a tutti/e!