La clausola n. 5 dell’Accordo Quadro del 18.03.1999 (Direttiva 99/70/CE) sul divieto di successione dei contratti a tempo determinato: applicabilità anche ai rapporti di lavoro del settore agricolo

La clausola n. 5 dell’Accordo Quadro del 18.03.1999 (Direttiva 99/70/CE) sul divieto di successione dei contratti a tempo determinato: applicabilità anche ai rapporti di lavoro del settore agricolo
Abstract: La clausola n. 5 dell’Accordo Quadro del 18.03.1999 – attuato dalla Direttiva 99/70/CE - sul divieto di successione dei contratti a tempo determinato potrebbe ritenersi applicabile anche ai rapporti di lavoro del settore agricolo, sulla base dell’art. 7 delle Premesse e della clausola n. 7. Tuttavia, poiché la clausola n. 5 si applica soltanto “in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi”, e siccome dall’art. 34 comma 2 del D.lgs. 81/2015 si ricava il principio in base al quale l’art. 19 comma 1 del medesimo D.lgs., nel sanzionare la illegittima reiterazione dei contratti a tempo determinato, si riferisce anche ai lavoratori del settore agricolo (nonostante la diversa previsione contenuta nell’art. 29 comma 1 lett. B dello stesso), deve ritenersi che nella disciplina nazionale esista già una forma “equivalente” di tutela, e quindi sarebbe sufficiente applicare tale disciplina, senza che venga interessata la norma comunitaria.
Clause no. 5 of the Framework Agreement of 18.03.1999 – implemented by Directive 99/70/EC – on the prohibition of succession of fixed-term contracts could be considered applicable also to employment relationships in the agricultural sector, on the basis of art. 7 of the Preamble and clause no. 7. However, since clause no. 5 applies only “in the absence of equivalent rules for the prevention of abuse”, and since from art. 34 paragraph 2 of Legislative Decree 81/2015 the principle can be deduced according to which art. 19 paragraph 1 of the same Legislative Decree, in sanctioning the illegitimate reiteration of fixed-term contracts, also refers to workers in the agricultural sector (despite the different provision contained in art. 29 paragraph 1 letter B of the same), it must be considered that an "equivalent" form of protection already exists in national legislation, and therefore it would be sufficient to apply this legislation, without affecting the Community law.
La previsione del CCNL, in base alla quale, ai fini del divieto di successione di contratti a tempo determinato, è sufficiente che, a fronte di 12 mesi di durata contrattuale previsti, il lavoratore abbia prestato la propria attività in modo continuativo per n. 180 gg., si presta ad essere ritenuta quale “norma equivalente per la prevenzione dell’abuso” derivante dalla predetta successione, sia perché la clausola n. 5 dell’Accordo, nel rimandare all’autonomia della disciplina nazionale in merito alla definizione dei presupposti in presenza dei quali si possa parlare di “successione di contratti”, fa riferimento alle norme stabilite “previa consultazione delle parti sociali”, e quindi all’ambito dei CCNL, sia perché l’art. 19 del D.lgs. 81/2015 demanda al CCNL l’autonomia di stabilire i casi in cui il contratto a tempo determinato possa eccedere i 12 mesi, e quindi al medesimo CCNL dovrebbe essere lasciata anche la libertà di prevedere casi – come quello di cui all’ordinanza in commento – nei quali il suddetto contratto possa dirsi eseguito, e quindi tale da non poter essere reiterato (divieto di successione), pur se svolto per una durata inferiore (180 gg.) a quella stabilita (12 mesi).
The provision of the CCNL, according to which, for the purposes of the prohibition of succession of fixed-term contracts, it is sufficient that, in the face of the 12 months of expected contractual duration, the worker has performed his/her activity continuously for n. 180 days, lends itself to being considered as an "equivalent rule for the prevention of abuse" deriving from the aforementioned succession, both because clause n. 5 of the Agreement, in referring to the autonomy of the national legislation regarding the definition of the conditions in the presence of which one can speak of "succession of contracts", refers to the rules established "after consultation of the social partners", and therefore to the scope of the CCNL, and because art. 19 of the Legislative Decree. 81/2015 delegates to the CCNL the autonomy to establish the cases in which the fixed-term contract can exceed 12 months, and therefore the same CCNL should also be left the freedom to provide for cases – such as the one in the ordinance under comment – in which the aforementioned contract can be considered to have been executed, and therefore such that it cannot be reiterated (prohibition of succession) even if carried out for a shorter duration (180 days) than that established (12 months).
La Direttiva 99/70/CE è stata adottata ai fini dell’attuazione dell’Accordo Quadro (di seguito “Accordo”) concluso tra le parti sociali CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato in data 18.03.1999. La clausola n. 5 di quest’ultimo prevede che gli Stati membri, “per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, si impegnano a predisporre misure volte ad indicare le “ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo”, la “durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi” e “il numero dei rinnovi dei suddetti contratti”. La medesima clausola chiarisce che l’obbligo degli Stati membri di adottare le misure sopra citate, si applica solo “in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi”, e quindi soltanto se la disciplina nazionale non preveda già forme di tutela “equipollenti”.
In ambito nazionale, la normativa di riferimento in materia di divieto di reiterazione dei contratti a tempo determinato, si trova contenuta nel D.lgs. 81/2015 (di seguito “D.lgs.”), e, segnatamente, all’art. 19, il quale prevede che, in caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a dodici mesi (a meno che non sussistano i presupposti previsti per una durata superiore che però non può superare i 24 mesi), “il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato”.
La controversia oggetto dell’ordinanza in commento nasceva dal fatto che i lavoratori ricorrenti avevano prestato attività di lavoro subordinato alle dipendenze della società convenuta, in qualità di operai addetti a coltivazioni vitivinicole, in forza di numerosi contratti di lavoro a tempo determinato. La Corte d’Appello respingeva il ricorso proposto dai suddetti lavoratori al fine di sentir accertata la costituzione di veri e propri rapporti di lavoro a tempo indeterminato, sulla base del fatto che il CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti, applicabile al caso di specie, già prevedeva il diritto dei medesimi, nel caso in cui avessero prestato n. 180 giornate di effettivo lavoro nell’arco di 12 mesi, alla trasformazione del loro rapporto in quello a tempo indeterminato. La stessa Corte, di conseguenza, riteneva che la disciplina di fonte collettiva fosse pienamente idonea (“norma equivalente”) a garantire ai ricorrenti il livello di tutela richiesto dall’ordinamento europeo e quindi a “prevenire l’abuso”, ma, al contempo, riscontrava che i lavoratori ricorrenti, dinanzi alla difesa del datore di lavoro il quale segnalava che gli stessi in realtà non avevano effettuato più di 180 giornate lavorative nei 12 mesi dall’assunzione e quindi non avevano maturato i requisiti previsti dal CCNL ai fini della stabilizzazione, non avevano mosso alcuna contestazione.
I lavoratori, nel ricorso in Cassazione, insistevano nel dedurre il contrasto esistente tra la disciplina del rapporto di lavoro a termine per gli operai agricoli, quale quella prevista dall’art. 29 comma 1 lett. B) del D.lgs., a norma del quale sono esclusi dall’applicazione delle disposizioni ivi contenute e quindi anche dell’art. 19 “i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato, così come definiti dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 375”, e l’Accordo, il quale invece, nello stabilire il divieto di abuso dell’utilizzo del rapporti di lavoro a tempo determinato, non prevede siffatta esclusione. Per tale ragione, chiedevano alla Suprema Corte di disporre il rinvio pregiudiziale alla CGUE in ordine alla compatibilità della norma nazionale con la Direttiva comunitaria.
La Cassazione – anche considerato l’obbligo, posto in capo ai Giudici nazionali di ultima istanza dall’art. 267 TFUE – con ordinanza interlocutoria n. 12572 del 12.05.2025, ha disposto il rinvio, sollevando due questioni.
se la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro a tempo determinato, emanate in attuazione della menzionata direttiva, non sono applicabili ai rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell’agricoltura e gli operai a tempo determinato;
Ogni volta che si deve discutere in merito alla compatibilità della norma nazionale con la norma comunitaria, occorre anzitutto vedere se quest’ultima, nello statuire un determinato principio, lasci o meno allo Stato membro una certa autonomia nella disciplina delle fattispecie che sono destinate ad essere attratte nel campo di applicazione del principio stesso.
• I motivi per i quali si deve ritenere che l’art. 29 comma 1 lett. B) del D.lgs. NON sia in contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo, sono questi:
L’Accordo, nel Preambolo, prevede che le disposizioni ivi contenute, seppur stabiliscono principi generali, debbono “tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali”, e quindi, nel caso dei rapporti di lavoro nel settore agricoltura, delle peculiarità proprie di quest’ultimo. Quindi, in teoria, un lavoro come quello agricolo, il quale è caratterizzato dalla stagionalità, potrebbe anche non essere ricompreso nell’ambito di applicazione della Direttiva. Da ciò deriverebbe, pertanto, che l’art. 29 del D.lgs., nell’escludere dal divieto di reiterazione del contratto a tempo determinato, e quindi dal diritto alla definitiva stabilizzazione, la categoria dei lavoratori agricoli, sia del tutto legittimo sotto il profilo comunitario.
La clausola n. 4 dell’Accordo stabilisce che “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”. Essa precisa che “le disposizioni per l'applicazione di questa clausola saranno definite dagli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o dalle parti sociali stesse, viste le norme comunitarie e nazionali, i contratti collettivi e la prassi nazionali”.
La clausola tutela i lavoratori a tempo determinato soltanto rispetto a quelli a tempo indeterminato, e non prevede che “tutte” le categorie dei lavoratori a tempo determinato (ivi compresi, quindi, quelli del settore agricolo) debbano ricevere la stessa tutela.
Ed in ogni caso è significativo che la scelta degli strumenti con i quali la parità tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato deve essere garantita, venga lasciata al legislatore nazionale, il quale dovrà sì tener conto delle “norme comunitarie”, ma anche di quelle nazionali, le quali sono poste, almeno stando alla formulazione letterale della clausola (l’uso della disgiuntiva “e” induce a ritenere ciò), sullo stesso piano di quelle comunitarie, e non in una posizione di subordinazione rispetto a queste ultime (tant’è che anche le “prassi nazionali”, le quali sono fonti del diritto di derivazione non normativa, sono collocate sullo stesso livello degli atti normativi UE).
Pertanto, poiché l’Accordo non prevede espressamente un principio di pari trattamento tra “tutte” le categorie di lavoratori a tempo determinato, si deve ritenere che l’art. 29 comma 1 lett. B) del D.lgs. sia pienamente conforme all’Accordo stesso.
La clausola n. 8, nel dettare le disposizioni di attuazione dell’Accordo, prevede che “gli Stati membri e/o le parti sociali possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel presente accordo”. La decisione dello Stato di dettare una disciplina favorevole potrebbe consistere, nel caso di specie, nella scelta di eliminare ogni eventuale limitazione (vedi art. 29 comma 1 lett. B del D.lgs.) all’applicabilità della disciplina nazionale (in tal caso, l’art. 19 dello stesso D.lgs.) a determinate tipologie di rapporti di lavoro a tempo determinato, come quelli agricoli. Quindi il legislatore nazionale, esercitando la facoltà – riconosciutagli dalla norma comunitaria – di introdurre disposizioni volte ad una tutela ancor maggiore, potrebbe abrogare l’art. 29 sopra citato, prevedendo che l’art. 19, il quale stabilisce la trasformazione in contratto a tempo indeterminato, si applichi anche ai rapporti di lavoro agricoli. Ma si tratterebbe comunque dell’esercizio di una facoltà, e non dell’adempimento di un obbligo: quindi lo Stato non può ritenersi obbligato all’abrogazione della norma sopra citata.
• I motivi per i quali si deve ritenere che l’art. 29 comma 1 lett. B) del D.lgs. SIA in contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo, sono questi:
La Direttiva 1999/70/CE, all’art. 7 delle Premesse, lascia agli Stati membri il compito di definire “i termini utilizzati nell’Accordo Quadro”, a condizione che tali definizioni “rispettino il contenuto” di quest’ultimo.
Tale previsione si presta ad essere interpretata nel senso che il legislatore nazionale può precisare quelli che sono i principi (“termini”) contenuti nell’Accordo, ma tale autonomia non può spingersi fino al punto da derogare a quelli che sono gli aspetti essenziali del medesimo. Il “contenuto” di un qualsiasi atto normativo, anche di origine pattizia qual è un Accordo Quadro, attiene a ciò che è espressamente previsto da quest’ultimo: tutto ciò che non è previsto, non può, per definizione, considerarsi come “contenuto”, ossia come “disciplinato” dal medesimo atto.
La clausola n. 5 dell’Accordo, nello stabilire, in capo agli Stati membri, l’obbligo di prevenire gli abusi derivanti da un utilizzo smisurato dei contratti di lavoro a tempo determinato, non prevede espressamente che da tale ambito siano esclusi quelli del settore agricoltura: una simile “esclusione” non è “contenuta” nella clausola stessa.
A ciò si aggiunga che, in base a quanto previsto dalla clausola n. 1, gli Stati membri possono stabilire che le norme della Direttiva non si applichino “ai rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato” ed ai “contratti e rapporti di lavoro definiti nel quadro di un programma specifico di formazione, inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi pubblici”. Tale non applicabilità non riguarda anche il rapporto di lavoro nel settore agricolo.
Di conseguenza, per effetto delle disposizioni sopra citate, la norma di cui all’art. 29 comma 1 lett. B) del D.lgs., la quale invece esclude che i rapporti di lavoro agricolo rientrino nell’obbligo della stabilizzazione dei lavoratori a tempo determinato, dovrebbe ritenersi contrastante con il “contenuto” della medesima clausola.
La clausola n. 7 dell’Accordo prevede che “i lavoratori a tempo determinato devono essere presi in considerazione in sede di calcolo della soglia oltre la quale, ai sensi delle disposizioni nazionali, possono costituirsi gli organi di rappresentanza dei lavoratori nelle imprese previsti dalle normative comunitarie e nazionali”. La rilevanza della legislazione nazionale per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, viene riconosciuta dal diritto comunitario ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali nelle “imprese”, laddove queste sono intese in senso generale, ossia senza alcuna limitazione legata al settore merceologico, e quindi, in assenza di casi di esclusione espressamente previsti, il riferimento deve intendersi anche alle imprese agricole. Lo scopo “istituzionale” delle suddette rappresentanze è quello di tutelare i lavoratori, soprattutto quelli con contratti precari per quanto riguarda l’aspetto temporale (vedi tempo determinato), e quindi non appare fuori luogo ritenere che la clausola n. 5, nel prevedere il divieto di reiterazione dei contratti a tempo determinato, faccia riferimento anche ai lavoratori del settore agricolo, visto, appunto, il generico riferimento alle “imprese”.
• Motivo per il quale la normativa nazionale già prevede forme di tutela equipollenti a quelle stabilite dalla Direttiva e per cui quindi la decisione della CGUE sul rinvio pregiudiziale disposto dalla Cassazione dovrebbe prendere atto di ciò, ritenendo sufficiente l’applicazione di tale disciplina, senza che venga interessata la norma comunitaria
L’art. 34 comma 2 del D.lgs., nel disciplinare il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, stabilisce che le condizioni di cui all’art. 19 comma 1 del medesimo – ossia quelle in presenza delle quali il contratto di lavoro può avere, eccezionalmente, una durata anche superiore ai 12 mesi (purchè non eccedente i 24 mesi) – “non operano in caso di impiego di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola”. Da ciò si ricava che le suddette condizioni non si applicano, e che quindi il contratto può comunque avere una durata superiore ai 12 mesi anche a prescindere da quelli che sono i presupposti di legge, per quanto riguarda quei lavoratori i quali godano, da almeno 6 mesi, di indennità di disoccupazione “non agricola”. Di conseguenza, per quanto riguarda invece i lavoratori che, da 6 mesi, godano di una indennità di disoccupazione “agricola”, i suddetti presupposti si applicano pienamente, e quindi se il datore di lavoro stipula con tali lavoratori un contratto di durata superiore ai 12 mesi quando non sussistono i presupposti stessi, il contratto, in forza del comma 1 bis dell’art. 19, “si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi”. Quindi, è proprio nei confronti dei lavoratori a tempo determinato del settore “agricolo”, che il legislatore nazionale vuole evitare l’indebito utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato, indebito utilizzo rappresentato dal superamento del termine dei 12 mesi: dal combinato disposto degli artt. 34 comma 2 e 19 comma 1 del D.lgs., risulta che, ove si tratti di lavoratori agricoli, le condizioni di legge (vedi art. 19 comma 1) previste per un prolungamento del rapporto a tempo determinato anche oltre i 12 mesi, debbono assolutamente essere rispettate. Di conseguenza, dall’art. 34 comma 2 del D.lgs. si ricava un principio che va sostanzialmente a smentire quello contenuto nell’art. 29 comma 1 lett. B dello stesso D.lgs., a norma del quale le disposizioni di quest’ultimo – e quindi anche l’art. 19 comma 1 – non si applicano ai lavoratori del settore agricolo.
Pertanto, siccome la clausola n. 5 dell’Accordo si applica solo “in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi”, e quindi soltanto nel caso in cui la disciplina nazionale non preveda forme di tutela equipollenti, e siccome il D.lgs., nel sanzionare la illegittima reiterazione dei contratti a tempo determinato, si riferisce in realtà anche ai lavoratori del settore agricolo (art. 34 comma 2 D.lgs.), la decisione della CGUE sul rinvio pregiudiziale dovrebbe attestare che la disciplina nazionale prevede già una forma “equivalente” di tutela dei suddetti lavoratori.
2) Seconda Questione
se la clausola 5 sopra citata debba essere interpretata nel senso che, nell’ambito delle norme equivalenti per la prevenzione degli abusi, che tengano conto delle esigenze del settore agricolo, possa rientrare una misura stabilita dalla contrattazione collettiva sottoscritta dalle parti sociali che prevede il diritto alla trasformazione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato per gli operai agricoli che abbiano effettuato, presso la stessa azienda, centottanta giornate di effettivo lavoro, da calcolarsi nell’arco di dodici mesi dalla data di assunzione, diritto da esercitarsi entro il termine di decadenza di sei mesi.
La domanda è: può essere considerata come “norma equivalente per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” una clausola del CCNL la quale preveda che il contratto a tempo determinato di un lavoratore agricolo, nel caso in cui quest’ultimo abbia prestato la propria attività per 180 gg. nell’arco di 12 mesi, si trasformi in contratto a tempo indeterminato?
Il criterio della “successione” dei contratti, poiché deve essere naturalmente inteso in senso cronologico, dovrebbe consistere nel fatto che un contratto a tempo determinato possa essere considerato come “successivo” solo quando faccia seguito ad un precedente contratto che sia venuto a scadere e che – questo è il punto centrale – sia stato eseguito dal lavoratore “per intero”, ossia dalla data dell’assunzione fino alla scadenza. Invece, la clausola del CCNL, prevedendo che sia sufficiente, ai fini della trasformazione in contratto a tempo indeterminato, che il lavoratore agricolo abbia prestato la propria attività per almeno 180 gg. nell’arco di 12 mesi decorrenti dall’assunzione, si presta ad essere interpretata nel senso che siano appunto sufficienti a tal fine n. 180 giornate lavorative, e quindi 6 mesi, ossia la metà della durata contrattualmente prevista. Ci si chiede se tale criterio sia legittimo.
La Direttiva, alla clausola n. 5, nel prevenire i suddetti abusi, al comma 2 prevede che sono gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, a stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato debbano essere considerati come “successivi”.
Pertanto, in teoria, vista l’autonomia che il legislatore comunitario lascia allo Stato membro nel definire il carattere di contratto “successivo”, si potrebbe ritenere che la sopra citata clausola del CCNL sia legittima.
D’altra parte, però, a rigore appare difficile parlare di “abuso di successione di contratti da parte del datore di lavoro” in relazione ad un contratto che sia stato eseguito dal lavoratore soltanto per una metà (appunto 180 gg.) della durata prevista dal medesimo. L’abuso derivante dalla reiterazione del rapporto a tempo determinato si può configurare solo laddove il lavoratore abbia adempiuto “integralmente”, sotto il profilo temporale, agli obblighi oggetto del rapporto stesso: in mancanza di tale adempimento, il contratto potrà dirsi eseguito temporalmente solo in parte, e quindi un’eventuale richiesta, da parte del datore di lavoro, di eseguire la prestazione lavorativa, sempre nella forma del contratto a tempo determinato, per ulteriori 6 mesi, non potrà essere considerata quale “successione di un nuovo contratto”, bensì come mera prosecuzione del contratto già esistente, il quale prevede una durata di 12 mesi: si tratta non già della stipula di un “nuovo contratto”, bensì della richiesta di adempimento della restante parte “del contratto in essere”.
A ciò si aggiunga che l’art. 19 del D.lgs., in merito al criterio di calcolo della “successione di contratti”, al comma 2 prevede che si debba tenere conto “dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato”.
La norma parla di “periodo di missione”. Normalmente, la “missione” consiste nello svolgimento – durante il rapporto di lavoro “base” – di prestazioni diverse da quelle che costituiscono il contenuto tipico di quest’ultimo.
Nel caso di specie, la missione consiste nell’esecuzione – durante il rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato – di prestazioni afferenti ad una diversa tipologia contrattuale, che è quella della somministrazione di lavoro a tempo determinato.
In base alla norma sopra citata, il principio è il seguente: nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato della durata di 12 mesi, il dipendente viene chiamato, per n. 4 mesi, a svolgere lavoro somministrato (sempre a tempo determinato); al termine dei 12 mesi, dei quali n. 8 svolti come lavoro subordinato e n. 4 svolti in regime di somministrazione, il datore di lavoro non potrà sottoscrivere con il dipendente un nuovo contratto di lavoro subordinato a tempo determinato motivando tale scelta con il fatto che nei 12 mesi precedenti tale contratto è stato eseguito solo per n. 8 mesi, in quanto gli altri n. 4 mesi sono stati svolti in regime di somministrazione. Non lo potrà fare perché, ai fini della “successione” di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, si tiene conto anche della “missione” (ossia del servizio) svolta sotto forma di contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, e quindi in realtà anche tale “missione” verrà considerata come contratto di lavoro subordinato a tempo determinato.
L’art. 19 comma 2 disciplina il caso in cui il lavoratore abbia “sempre” prestato la propria attività lavorativa nell’arco dei 12 mesi previsti dal contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, ossia n. 8 come lavoratore subordinato e n. 4 come somministrato. Esso, invece, non disciplina il diverso caso in cui in tale lasso temporale il lavoratore abbia prestato la propria attività (lavoro subordinato) per soli 180 gg. e poi, allo scadere di questi ultimi, non abbia più lavorato. E’ solo nel primo caso che viene previsto il cumulo tra le due prestazioni e che quindi viene stabilito il divieto, per il datore di lavoro, di stipulare un nuovo (“successivo”) contratto di lavoro subordinato a tempo determinato. Invece, nel secondo caso, visto il silenzio della norma in merito, sembrerebbe doversi ritenere che il suddetto divieto non si applichi, e che quindi il datore possa, nel caso di attività lavorativa a tempo determinato prestata per soli 180 gg., sottoscrivere, al termine dei complessivi 12 mesi, un nuovo contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, senza che quest’ultimo configuri una “successione di contratto”.
Il quadro, pertanto, è il seguente: da un lato, l’Accordo Quadro, al comma 2 della clausola n. 5, lascia agli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, la facoltà di stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato debbano essere considerati come “successivi”; dall’altro, però, dalla disciplina nazionale (art. 19 comma 2 del D.lgs.) si ricava il principio in base al quale anche l’esecuzione solo parziale, sotto il profilo temporale, della prestazione di lavoro subordinato a tempo determinato, deve essere considerata ai fini del divieto di stipula di un secondo contratto dello stesso tipo, ma solo nel caso in cui per la restante parte della durata contrattuale il lavoratore abbia prestato la propria attività con un’altra tipologia negoziale (somministrazione di lavoro), e non anche nel diverso caso in cui egli, al termine dei n. 180 gg. sopra citati, non abbia reso nessun’altra prestazione allo stesso datore di lavoro. Quindi, in ambito nazionale, la “legge” prevede, nei confronti del lavoratore subordinato a tempo determinato, un trattamento di minor favore rispetto a quello previsto dal “CCNL”.
Di conseguenza, visto l’art. 19 comma 2 del D.lgs., la suddetta clausola del CCNL non può essere considerata quale “norma equivalente per la prevenzione degli abusi” derivanti dalla successione di contratti a tempo determinato.
Tuttavia, il comma 2 della clausola n. 5, nel rimandare all’autonomia della disciplina nazionale, fa riferimento alla “previa consultazione delle parti sociali”, e quindi all’ambito del CCNL. Al riguardo, la considerazione da fare è la seguente: se, ai sensi dell’art. 19 del D.lgs., è il CCNL a poter stabilire i casi in cui il contratto di lavoro a tempo determinato può avere una durata superiore a 12 mesi, allo stesso CCNL dovrà essere riconosciuta l’autonomia di prevedere anche casi – come quello di cui all’ordinanza in commento – nei quali il suddetto contratto possa dirsi eseguito, e quindi tale da non poter essere reiterato (divieto di successione) pur se svolto per una durata inferiore (180 gg.) a quella stabilita (12 mesi).