Silenzio rifiuto sul ricorso amministrativo gerarchico: profili di illegittimità

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Silenzio rifiuto sul ricorso amministrativo gerarchico: profili di illegittimità

 

La norma contenuta nell’art. 6 del DPR 1199/1971, in base alla quale sul ricorso gerarchico, una volta decorsi 90 gg. dalla presentazione dell’istanza, si forma il silenzio rifiuto, deve considerarsi illegittima in quanto contrastante con gli artt. 24 Costituzione, 100 c.p.c., 24 e 10 bis della Legge 241/90. Essa, inoltre, contrasta con l’art. 5 comma 2 dello stesso DPR, il quale prevede, per tutte le decisioni – e quindi anche per quelle di rigetto – emesse sul ricorso gerarchico, l’obbligo della motivazione.

The provision contained in Article 6 of Presidential Decree 1199/1971, according to which a tacit refusal is established on a hierarchical appeal 90 days after the application is submitted, must be considered illegitimate as it conflicts with Articles 24 of the Constitution, 100 of the Code of Civil Procedure, and 24 and 10 bis of Law 241/90. It also conflicts with Article 5, paragraph 2 of the same Presidential Decree, which requires a statement of reasons for all decisions—including rejections—issued on hierarchical appeals.

 

L’art. 6 del DPR 1199/1971, nel disciplinare il ricorso gerarchico, prevede che decorso il termine di novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al Presidente della Repubblica”.

Ci si chiede se il meccanismo del silenzio rifiuto in materia di ricorsi amministrativi possa ritenersi effettivamente legittimo.

La conoscenza delle ragioni per le quali il ricorso amministrativo è stato respinto, consentirebbe al privato di verificare la fondatezza delle medesime, e quindi, nel caso in cui egli le riconosca fondate, potrebbe evitargli di proporre una domanda giudiziale inutilmente. Ciò in quanto l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., che costituisce il presupposto di qualsivoglia azione giudiziale, deve essere considerato dal Giudice come “fondato”, altrimenti la domanda verrebbe respinta, con conseguente condanna alle relative spese. Inoltre, l’art. 96 c.p.c. prevede che chi agisca (o resista) in giudizio con colpa grave, subisce una condanna, oltre che alle spese, anche al risarcimento del danno. Il privato, se potesse conoscere i motivi della decisione di rigetto del ricorso amministrativo da egli proposto, potrebbe anche condividerli, e quindi in tal modo si asterrebbe dall’intentare un’azione giudiziale che si concluderebbe con un esito per lui negativo (anche dal punto di vista economico).

Si potrebbe obiettare che, siccome il diritto alla difesa giudiziale è sacro ed inviolabile, l’esercizio del medesimo rientra nella piena discrezionalità del ricorrente, e pertanto non vi è alcuna ragione per la quale la controparte (in tal caso, la PA) debba, attraverso l’esplicitazione dei motivi di rigetto del ricorso amministrativo, “suggerirgli di meditare” sulla effettiva fondatezza della domanda che egli intenda eventualmente proporre innanzi al Giudice e quindi sulla convenienza o meno di agire. 

 

Però questa obiezione stride con il principio, previsto dall’art. 21 quinquies della Legge 241/90 (di seguito “Legge”), in base al quale il privato, a cui favore la PA aveva rilasciato un provvedimento e che tuttavia era consapevole della contrarietà di quest’ultimo all’interesse pubblico, non può chiedere, ove l’atto venga revocato, un risarcimento del danno da lucro cessante, potendo egli proporre istanza risarcitoria soltanto per il danno emergente.

La contraddizione sta in ciò: con il silenzio rifiuto di cui all’art. 6 DPR, non si mette il privato nella condizione di sapere i motivi della decisione di rigetto del ricorso amministrativo in quanto la PA non è tenuta a “mettere in guardia” il medesimo dalla probabile declaratoria di infondatezza dell’ipotetico ricorso giurisdizionale, e quindi non vi è alcun “obbligo” della PA di “collaborare con il privato” al fine di evitare a quest’ultimo un danno (derivante appunto dalla – assai probabile – sentenza di rigetto del ricorso); allo stesso tempo, però, si attribuisce al privato l’onere di “dover conoscere” (l’art. 21 quinquies infatti parla, oltre che di conoscenza, anche di “conoscibilità”) la contrarietà del provvedimento da egli richiesto all’interesse pubblico, e quindi un vero e proprio “obbligo di collaborare” con la PA al fine di evitare a quest’ultima un danno (derivante, appunto, dal concedere un provvedimento che poi si è rivelato lesivo dell’interesse, pubblico, tutelato dalla stessa PA, tant’è che poi quest’ultima si è vista costretta a revocarlo).

Se sussiste un obbligo di collaborazione del privato, finalizzato ad evitare alla PA di subire un danno derivante dall’adozione di un provvedimento contrario all’interesse pubblico, dovrebbe sussistere anche un obbligo di collaborazione della PA mirante ad evitare al privato di subire un danno derivante dalla sentenza di rigetto del ricorso giurisdizionale, e quest’obbligo potrà essere efficacemente adempiuto solo laddove si stabilisca che la PA è tenuta a pronunciarsi sul ricorso amministrativo, esplicitando i motivi della decisione di rigetto (e non, come invece prevede l’art. 6 DPR, mediante il silenzio rifiuto).

 

Inoltre, si consideri che, ai sensi dell’art. 24 ultimo comma della Legge, il privato è titolare di un vero e proprio “diritto soggettivo” – e quindi non di un “comune” interesse legittimo – di accesso agli atti della PA quando la conoscenza di questi ultimi “sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. “Cura” e “difesa” dei propri interessi “giuridici” significa, prima di tutto, verificare preliminarmente se sussistono le condizioni per poter azionare un giudizio che sia fondato su delle basi solide e quindi se vi siano i presupposti in presenza dei quali i suddetti interessi possano, in tale sede, essere efficacemente tutelati.

A ciò si aggiunga che, nel procedimento amministrativo, esiste l’istituto della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (c.d. “preavviso di rigetto”), prevista dall’art. 10 bis della Legge. La PA, prima di emettere un provvedimento di diniego dell’istanza proposta dal privato, notifica a quest’ultimo un atto con cui indica i motivi per i quali intende adottare tale provvedimento, di modo che il privato possa presentare osservazioni e depositare documenti tali da indurre la stessa PA a ripensare a tale decisione e quindi ad accogliere l’istanza. La ratio di questo istituto è quella di instaurare, nella fase pre – provvedimentale, un contraddittorio mediante cui la PA, attraverso l’apporto del privato, approfondisce i profili di legittimità dell’atto di diniego che intende porre in essere, in modo da evitare che poi quest’ultimo possa essere impugnato dal privato dinanzi al Giudice con probabile condanna della PA stessa. Quest’ultima, tramite il preavviso di rigetto, può rendersi conto della illegittimità della decisione di diniego, e pertanto può evitare un contenzioso che, verosimilmente, sarebbe per la stessa fonte di conseguenze negative.

Il procedimento amministrativo, pertanto, è caratterizzato da un’apertura alla partecipazione, da parte del privato, all’attività istruttoria, privato il quale in tal modo ha la possibilità di segnalare alla PA l’errore (che può essere anche “di diritto”, oltre che “di fatto”) da questa commesso nell’interpretazione della fattispecie e quindi nell’individuazione della norma da applicare.

Allora, se il principio è quello per cui la PA è tenuta a far conoscere al privato i motivi di quella che sarà la decisione di diniego dell’istanza volta al rilascio del provvedimento, di modo che poi il privato possa indurla a riconsiderare la legittimità di tale decisione e quindi possa evitarle una condanna giudiziale, la stessa PA dovrebbe considerarsi obbligata a far conoscere al privato anche i motivi per i quali ritiene di dover respingere il ricorso gerarchico da egli proposto, in quanto, in tal modo, essa potrebbe segnalare al medesimo l’errore da questi commesso nel ritenere come “dovuto” il suddetto provvedimento quando in realtà così non è, e pertanto il privato si potrebbe convincere che non è conveniente proporre un’eventuale domanda giudiziale poichè, vista la fondatezza (da egli riconosciuta) della decisione resa sul ricorso, una siffatta domanda sarebbe con ogni probabilità respinta (con conseguente condanna alle spese).

Pertanto, alla trasparenza delle decisioni della PA nella fase procedimentale (art. 10 bis Legge), dovrebbe corrispondere una trasparenza delle decisioni assunte in fase di contenzioso amministrativo (art. 6 DPR): se la conoscenza, da parte del privato, dei motivi del futuro atto di diniego serve a convincere la PA a non emettere tale atto, perché questo poi la esporrebbe, nel caso di azione giudiziale, ad effetti per essa pregiudizievoli, la conoscenza, da parte del privato, dei motivi del rigetto del ricorso servirebbe a convincere il privato stesso a non intraprendere un’azione giudiziale che lo esporrebbe ai suddetti effetti. Ma, nel secondo caso, questa conoscenza è impedita dal meccanismo del silenzio rifiuto di cui all’art. 6 DPR, e pertanto tale norma deve considerarsi illegittima, ex art. 3 Costituzione, per contrasto con quella contenuta nell’art. 10 bis della Legge.

 

• Ci può essere anche il caso opposto, ossia il privato, se conoscesse i motivi della decisione di rigetto del ricorso gerarchico, potrebbe constatarne l’infondatezza, e ciò gli darebbe un ulteriore stimolo a proporre domanda giudiziale, nel senso che il suo “interesse ad agire” diverrebbe ancor più concreto. Proprio la sacralità ed inviolabilità del diritto di difesa giurisdizionale implicano che il privato debba essere messo nella condizione di poter esercitare “al meglio” tale diritto, e cioè con consapevolezza della “non temerarietà” (art. 96 c.p.c. ed art. 26 CPA) della lite e quindi delle proprie possibilità di vittoria. Questa consapevolezza può essere acquisita soltanto se si stabilisce che la PA sia tenuta a pronunciarsi sul ricorso gerarchico, ossia se si prevede un principio opposto a quello del silenzio rifiuto di cui all’art. 6 DPR.

il ricorso gerarchico, ai sensi dell’art. 1 DPR, può essere proposto non soltanto dal destinatario del provvedimento di diniego dell’istanza, ma anche da parte di “chi vi abbia interesse”, e cioè di chi, pur non risentendo in maniera diretta degli effetti dell’atto, sia comunque titolare di una situazione soggettiva riconosciuta come meritevole di tutela giudiziale. Tale ricorso, pertanto, può essere esperito anche da “terzi”.

L’art. 9 della Legge stabilisce che “qualunque soggetto”, che abbia un interesse (privato od anche pubblico) il quale possa subire un pregiudizio dal provvedimento, ha facoltà di intervenire nel relativo procedimento. Pertanto, anche “terzi” possono prendere parte a quest’ultimo.

Tuttavia, l’art. 1 DPR, quando dice “chi vi abbia interesse”, non specifica che il “terzo” debba essere necessariamente intervenuto nel procedimento conclusosi con l’atto di diniego.

Ebbene, appare contraddittorio che il suddetto ricorso possa essere esperito anche da un terzo il quale, pur potendo prendere parte al procedimento, non abbia mai esercitato tale facoltà e quindi sia rimasto sostanzialmente inerte, e che invece il ricorrente, ossia il diretto interessato dal provvedimento finale di diniego, non possa conoscere i motivi per i quali il ricorso stesso è stato rigettato. L’applicazione del silenzio rifiuto nei confronti del ricorrente pone quest’ultimo in una condizione di disparità di trattamento rispetto al terzo il quale, pur avendo scelto di non intervenire nel procedimento, è comunque legittimato a proporre il ricorso.

l’art. 5 comma 2 DPR prevede che “tutte” le decisioni rese sul ricorso gerarchico – e quindi anche quelle di rigetto – debbano essere motivate.

Ai sensi dell’art. 3 della Legge, “la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”.  Gli atti normativi non vanno motivati in quanto il loro contenuto è predeterminato dalla legge, e quindi, essendo di natura vincolata, non necessitano di una motivazione a loro sostegno. Ma la decisione su un ricorso è questione diversa, in quanto essa è frutto di una valutazione autonoma della PA, la quale, in base a quella che è la “propria” interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie, interpretazione che potrebbe anche non essere condivisa dal Giudice, stabilisce se il ricorso possa essere accolto o meno. Pertanto, l’art. 5 comma 2 DPR, nel richiedere che la decisione (anche di rigetto) su ricorso vada motivata, è pienamente coerente con il disposto di cui all’art. 3 della Legge.

Ciò premesso, la motivazione assolve ad una funzione di trasparenza delle scelte della PA, trasparenza che se, nel caso del provvedimento terminativo del procedimento, serve a consentire al privato di verificare se vi sono i presupposti per impugnarlo, nel caso della decisione su un ricorso amministrativo serve a permettere al privato stesso di accertare se vi sono gli estremi per esercitare un’azione giudiziale volta ad ottenere una pronuncia contraria a quella di reiezione del ricorso.

Non ha alcun senso stabilire che la decisione di rigetto debba essere motivata se poi si prevede che tale decisione possa anche non essere emessa (silenzio rifiuto), poiché tale non emissione impedisce al privato di conoscere la motivazione della decisione stessa, e ciò comporta la violazione di quell’obbligo di trasparenza che, oltre ad essere stabilito dallo stesso DPR (art. 5 comma 2), deve caratterizzare, ai sensi dell’art. 1 della Legge, “tutta” l’attività amministrativa, ossia non soltanto quella precedente l’adozione del provvedimento ma anche quella (successiva) di decisione del ricorso.

Di conseguenza, il silenzio rifiuto ex art. 6 DPR si pone in contrasto con l’obbligo, previsto dall’art. 5 comma 2 dello stesso, della motivazione della decisione resa sul ricorso.