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Illegittimità del silenzio amministrativo (can. 57)

Nota di aggiornamento
silenzio amministrativo
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Illegittimità del silenzio amministrativo (can. 57)
 

Nell'articolo di agosto, dedicato al can. 57 e ai problemi del silenzio amministrativo, soprattutto in termini di tutela, in conclusione ho rilevato una notevole incertezza sui limiti della possibilità di intervento della Segnatura Apostolica, quando decida un ricorso avverso il silenzio: se dovesse limitarsi a dichiarare ciò che è ovvio di per sé, l'obbligo di provvedere, non offrirebbe che una tutela nugatoria... ma fino a che punto può spingersi oltre? O, detto altrimenti: posto che la Lex Propria del Supremo Tribunale gli attribuisce il potere di stabilire (statuere), e non soltanto dichiarare, in sentenza gli “effetti immediati e diretti” dell'illegittimità dell'atto impugnato, quali possono essere tali effetti nel caso del silenzio?

In quel momento ho lasciato il problema aperto, limitandomi a rilevare che la procedura consente comunque alla Segnatura di sostituirsi al Dicastero vaticano che non ha provveduto e che dovesse ostinarsi a non provvedere. Nel frattempo, però, è divenuta di pubblico dominio la prima sentenza in cui il problema sia stato affrontato (o almeno la prima in ordine di divulgazione) e, data la notevole importanza della questione, mi sembra necessario redigere questa “Nota di aggiornamento”.

La sentenza, decisa coram quinque, redatta dallo stesso Cardinale Prefetto, Dominique Mamberti, e depositata l'8 ottobre 2019, è apparsa su Periodica de re canonica, la rivista di diritto canonico della Pontificia Università Gregoriana, con nota di Mons. Gian Paolo Montini, nel secondo fascicolo del 2022. L'intestazione ci dice che viene deciso un ricorso, presentato al Supremo Tribunale nel 2017, avverso la Congregazione per il Clero e relativo all'obbligo di aprire una chiesa al pubblico (“Ecclesiae adaperiendae”); questo già ci permette di notare che i tempi sono stati più contenuti rispetto al solito, il che ha una sua notevole importanza per l'effettività del rimedio.[1]

Il caso nasce dalla decisione dell'Arcivescovo del luogo, non specificato, di accorpare tre parrocchie e di erigerne una nuova: “il 18 novembre 2015 ha emesso il decreto di soppressione delle predette tre parrocchie e il 1 gennaio 2016 ha fatto chiudere definitivamente la chiesa X”, una delle tre ormai ex-parrocchiali. Si noti: “ha fatto chiudere”, non “ha emesso un decreto”. E qui bisogna precisare che, secondo logica ma soprattutto per la giurisprudenza amministrativa, la soppressione dell'ente giuridico parrocchia lascia intatto lo status del luogo di culto e comporta, semmai, che non vi si celebreranno più le specifiche funzioni affidate al parroco dal can. 530, come Battesimi, Matrimoni e funerali, che di norma avvengono nella chiesa parrocchiale (cfr. can. 1219); però le ex-parrocchie restano chiese e, come tali, non solo possono essere officiate, ma per definizione “i fedeli hanno il diritto di entrarvi per esercitare soprattutto pubblicamente il culto divino” (can. 1214). Sicché la Segnatura equipara la chiusura definitiva della chiesa ad una scelta di ridurla ad uso profano, che però, ai sensi del can. 1222, richiede una valutazione ulteriore e distinta rispetto alla soppressione della parrocchia.

Il 15 settembre 2016, il Chiar.mo X[2] ha chiesto all'Ecc.mo Arcivescovo che la chiesa fosse riaperta. Non essendo stata ottenuta alcuna risposta, il 24 ottobre 2016 ha presentato una doglianza alla Congregazione per il Clero, in merito alla chiusura della chiesa”. Qui giocano, dunque, due presupposti molto importanti: da un lato, il comportamento dell'Arcivescovo, concretatosi verosimilmente in un ordine verbale, non equivale ad un decreto, ossia non può produrre l'effetto giuridico di ridurre la chiesa ad uso profano o farle comunque perdere lo status di edificio sacro;  dall'altro, siccome non si è in presenza di un provvedimento che, per quanto illegittimo, dovesse essere impugnato entro termini perentori pena il suo consolidarsi, nel momento in cui viene presentata una richiesta di riapertura di quella che, legalmente, è ancora una chiesa, ecco che scatta l'obbligo di provvedere ex can. 57, perché i fedeli – in senso distributivo, quindi anche il singolo fedele richiedente – stanno facendo valere un loro diritto, positivamente previsto. In questo momento, però, i tre mesi non erano ancora decorsi, quindi la lettera del fedele alla Congregazione valeva come una sollecitazione ad esercitare i propri poteri di intervento, non come un ricorso.

Il 19 dicembre 2016, il Dicastero adito ha risposto, rinviando al proprio provvedimento anteriore con cui aveva respinto il ricorso avverso la soppressione della parrocchia, “affermando che la decisione impugnata nel predetto ricorso aveva incluso anche la riduzione [della chiesa] X” ad uso profano. Ma il 28 dicembre il Sig. Y ha impugnato il silenzio dell'Arcivescovo sulla richiesta di riapertura e il 4 marzo 2017 la Congregazione gli ha risposto rimandando alla propria ultima, “asserendo di non voler esaminare la richiesta [di riapertura], perché il termine perentorio per impugnare vuoi l'unione estintiva delle parrocchie, vuoi la riduzione della chiesa ad uso profano era ormai spirato.”.

A questo punto il caso è approdato in Segnatura, dove il ricorrente, però, ha impugnato innanzitutto il silenzio in punto riapertura e solo in subordine la risposta ricevuta; il Segretario ha rigettato in limine il ricorso, per mancata impugnazione tempestiva della chiusura della chiesa, tuttavia il ricorso al Cardinale Prefetto ha avuto esito favorevole, perché l'impugnazione della chiusura è stata giudicata tardiva, ma tempestiva quella del silenzio sulla richiesta di riapertura. Senonché – e questa è una vera sorpresa – di fatto la sentenza definitiva finisce per sconfessare la distinzione operata nel decreto di ammissibilità.

Dopo [la decisione de]l Congresso, la nuova ed unica intitolazione della causa è: Ecclesiae X adaperiendae, pertanto non bisogna neppure più discutere della sua riduzione ad uso profano”, esordisce la parte motiva. E tuttavia, il silenzio viene poi dichiarato illegittimo sul presupposto che\)  il decreto formale di riduzione della chiesa ad uso profano non esistesse e che 2) la chiusura definitiva avvenuta di fatto non si fosse affatto consolidata per effetto del decorso del termine perentorio, come invece assunto dal Segretario e, se non mi inganno, confermato in parte qua dal Prefetto in Congresso.[3]

Invero, la parte motiva della sentenza mette in chiaro, anzitutto, che il nuovo Arcivescovo non ha trovato in archivio nessun decreto formale di riduzione ad uso profano e che gli atti anteriori al 2016 non facevano parola di questa intenzione; però “dalla lettera che il Ricorrente in persona ha inviato al Sommo Pontefice il 6 gennaio 2016 si desume che il fatto della chiusura della chiesa X il giorno 1 gennaio 2016 era già tempestivamente a sua conoscenza. Poteva contestare (impugnare) allora quel fatto oppure (vel) chiedere un decreto formale per poi contestarlo. Gli restava sempre la facoltà di chiedere l'apertura della chiesa”, perché solo un provvedimento formale e notificato avrebbe fatto decorrere i termini perentori.[4]L'Ecc.mo Arcivescovo avrebbe dovuto rispondere alla richiesta di nuova apertura della chiesa in data 15 settembre 2016, poiché era stata contestata la chiusura permanente di una chiesa senza riduzione ad uso profano”: questo passaggio della motivazione è cruciale, perché chiarisce che in realtà la impugnatio del comportamento illegittimo non va intesa nel senso tecnico di “remonstratio o ricorso gerarchico entro il termine perentorio”,[5] potendo avvenire anche tramite la semplice richiesta di riapertura e quindi senza obbligo di rispettare termini di sorta; il che tuttavia equivale per forza di cose a sconfessare – senza dirlo troppo forte – la tesi, pur abbracciata dalle decisioni interlocutorie, secondo cui sarebbe stato necessario proporre ricorso nei termini.

La sentenza prosegue che la prima risposta del Dicastero, contro la doglianza prematura, non ha interrotto il silenzio dell'Arcivescovo e che la seconda ha illegittimamente rinviato alla prima, “senza che fosse stata data alcuna risposta all'oggetto specifico del ricorso del 28 dicembre 2016”, cioè l'istanza di riapertura della chiesa; la Congregazione aveva dichiarato di non volerla esaminare, quindi la risposta valeva come rigetto, fondato però sull'erroneo presupposto già visto, che la riduzione ad uso profano fosse stata decretata dall'Arcivescovo insieme con l'accorpamento delle parrocchie. “Il dubbio concordato [tra le parti] ha considerato il problema piuttosto dal punto di vista del silenzio da parte della Congregazione per il Clero, che indubbiamente, respinta la richiesta del Sig. Y per un'asserita ragione preliminare, ha taciuto affatto sul merito” della stessa. L'errore sul citato presupposto costituisce violazione di legge in decernendo, mentre il rifiuto di esaminare l'istanza l'ha violata in procedendo: il Dicastero, osservo io, non ha affermato di “non potere”, bensì di “non volere” esaminarla, ben sapendo di avere l'autorità per provvedere nel merito dei casi anche se deferitigli a termini scaduti; se avesse negato il proprio stesso potere, si sarebbe invece trattato di un'altra violazione in decernendo.

La richiesta del Sig. Y doveva, pertanto, considerarsi legitima ai sensi del can. 57 e altrettanto il suo successivo ricorso. “È del tutto sconveniente che la chiusura di una chiesa avvenuta in modo illegittimo finisca per favorire l'autorità ecclesiastica e per nuocere ai fedeli che ne vengono pregiudicati, come osserva il Rev.mo Promotore di Giustizia designato [per il caso] nella sua ultima memoria pro rei veritate: 'Sarebbe infatti contrario al diritto divino (nefas) concedere all'autorità di potersi sottrarre all'obbligo di osservare la procedura di cui al can. 1222 §2 e di emanare un decreto, se la chiusura eseguita senza decreto alcuno diventasse legittima trascorsi dieci giorni e non si potesse più chiedere l'apertura'.”.

Non solo il ricorso è accolto – come ricorso avverso il silenzio del Dicastero sul ricorso gerarchico ex can. 57 §2, si noti - ma, recita il dispositivo, “l'effetto immediato di questa decisione (cfr. art. 90 della Lex Propria) è che la chiesa deve essere aperta e che bisogna provvedere che, almeno qualche volta, vi si celebrino gli atti del culto divino (cfr. can. 1219).”. Per la verità, il can. 1219 prevede che nelle chiese si possano compiere tutti gli atti del culto divino, salvi i diritti parrocchiali, non già che debbano essere compiuti; se però si considera che c'è chi ha dimostrato di tenere alla chiesa in questione e che alcuni atti di culto anche liturgico, come la recita della Liturgia delle Ore, possono essere organizzati direttamente dai laici, si può concludere che il dispositivo, pur essendo andato oltre la lettera del canone richiamato, ha saputo delimitare in modo corretto l'ambito che in concreto restava alla discrezionalità amministrativa. Il nuovo Arcivescovo non era costituito in giudizio e par di capire che non avesse intenzione di avviare alcun procedimento per ridurre la chiesa ad uso profano, quindi non si fa parola sulla salvezza di questo potere, comunque ovvia; ma il dispositivo lascia ampia libertà, sia a lui sia al parroco nel cui territorio la chiesa ora rientra, di stabilire quantum, quomodo e quando degli atti di culto in parola, purché non frustrino l'effetto utile della decisione impedendo che se ne celebri almeno qualcuno (per ottenere quest'effetto in modo legittimo è necessaria una riduzione ad uso profano decretata nelle debite forme). Resta sottinteso che, se vi fossero contrasti sull'esecuzione della pronuncia, potrebbero essere risolti dalla Segnatura stessa.

Mi è sembrato che il caso meritasse una citazione per esteso, perché appare molto istruttivo su due punti almeno:

  • anzitutto, l'equiparazione pratica tra ricorso avverso il silenzio e avverso un provvedimento di rigetto che rifiuta l'esercizio di un potere – in tesi – discrezionale di riesame sulla scorta di un presupposto erroneo in fatto e in diritto;
  • l'affermazione, cui si può tranquillamente riconoscere portata generalissima, che di fronte a un comportamento de facto che ritenga illegittimo il fedele può reagire sia contestandolo, sia chiedendo il provvedimento che lo dovrebbe legittimare e da cui si assume leso, sia domandando che si ponga rimedio alla situazione, senza che gli si possa opporre l'avvenuto decorso dei termini perentori;
  • ma soprattutto la scelta della Segnatura di provvedere – non “sul merito” nel senso dell'ambito di discrezionalità amministrativa, però certamente – sull'interesse pretensivo fatto valere con l'istanza, al quale ha dato soddisfazione nella misura ritenuta doverosa alla luce non solo della lettera della legge, ma anche delle circostanze del caso.

Il primo punto non stupisce troppo, sebbene la disinvoltura sia probabilmente dovuta, almeno in parte, alla necessità di sconfessare de facto il decreto preliminare del Prefetto (cioè dello stesso Ponente): dopotutto, il can. 57 prevede un ricorso avverso una presunta risposta negativa e la prassi della Segnatura consente di “aggiustarne” i termini qualora un diniego espresso e motivato dovesse sopraggiungere in corso di causa; non è, quindi, così assurdo che un provvedimento negativo la cui motivazione sia del tutto inconsistente (quanto al fatto presupposto e anche alle conseguenze che ne trae) sia considerato alla stregua di un silenzio illegittimo sul merito della richiesta. Del resto, sebbene la sentenza canonica debba dare una risposta corrispondente al dubbio concordato tra le parti, che nella specie si riferiva al silenzio, il giudice deve pur sempre apprezzare il complesso dei fatti e delle prove; se la risposta negativa – dovesse considerarsi espressa o presunta - di fatto si fondava su un presupposto fattuale che non sussisteva, cioè l'esistenza di un decreto formale di riduzione ad uso profano, l'asserita tardività nel ricorso avverso la riduzione stessa non poteva impedire di annullare la risposta. Ma, per un verso, questo ragionamento è stato possibile proprio perché i motivi del rigetto erano espressi e noti; per altro, il petitum sostanziale della nuova richiesta era lo stesso dell'asserito ricorso tardivo. In termini assoluti, a mio avviso si sarebbe dovuta cambiare a formula del dubbio; in concreto, però, questo non avrebbe potuto apportare vantaggi sostanziali alle parti, dato che i fatti rilevanti restavano gli stessi ed erano già stati trattati, quindi si può ritenere che non sussistesse la causa grave ex can. 1514. La flessibilità procedurale è stata molto opportuna in questo caso, anche per evitare un allungamento dei tempi; credo, però, che resterà circoscritta a situazioni simili, in cui cioè si rende necessario porre rimedio, nel modo più economico in termini di procedura, ad un errore nell'impostazione del giudizio da parte della stessa Segnatura.

Il secondo punto richiederebbe, forse, precisazioni ulteriori sul modo in cui potrebbe avvenire la contestazione immediata: nel caso di specie, il fedele si era rivolto direttamente al Sommo Pontefice (sembra senza esito o con rimessione del caso al Dicastero); a mio parere, avrebbe potuto anche presentare al Vescovo la remonstratio o richiesta formale di modifica della decisione assunta, intraprendendo quindi l'iter del ricorso gerarchico, ma con ciò si sarebbe assoggettato all'onere di provare di aver reagito entro dieci giorni dalla conoscenza del dato di fatto. Almeno in presenza di un diritto individuale direttamente leso – e poteva non essere questo il caso – avrebbe anche potuto adire il foro contenzioso, allegando proprio l'assenza di un qualunque provvedimento e dunque il carattere meramente fattuale del pregiudizio. Ma la richiesta di riapertura, almeno nella fattispecie considerata, era senz'altro la via che presentava meno rischi. 

L'importanza dell'ultimo punto si spiega da sé: la Segnatura, paradossalmente in un caso che non avrebbe (secondo me) dovuto decidere come ricorso avverso il silenzio, ha deciso di rendere effettive le tutele accordate contro il silenzio illegittimo, riconoscendo il proprio potere di dichiarare sia l'esistenza del dovere di provvedere, ravvisato oltretutto nell'illegittimità stessa dell'azione “a monte” della richiesta del fedele, sia che quest'ultima era una legitima petitio ai sensi del can. 57, e anche di provvedere sul merito della pretesa fatta valere, in termini dotati di effetto utile per il ricorrente. Non credo che sia esagerato affermare che questa sentenza costituisce una pietra miliare per la giustizia amministrativa canonica e un punto fermo rispetto a cui – c'è da augurarsi – il Supremo Tribunale non retrocederà.

note

[1]    Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, sentenza 8 ottobre 2019, c. Mamberti, Sig. Y / Congregazione per il Clero, prot. n. 53235/17 CA, Ecclesiae X adaperiendae, in Periodica 111 (2022), pagg. 306-19, con nota adesiva di G.P. Montini, I diritti dei fedeli di fronte all’autorità ecclesiastica che procede per vie di fatto, Ibid., pagg. 321-41 (cfr. anche le massime sul sito della Gregoriana).

[2]    In italiano, “Chiarissimo” è appellativo dei soli professori universitari, ma in ambito canonico è titolo di distinzione esteso anche ad avvocati e laici in genere.

[3]    La sentenza riporta le due decisioni in termini leggermente diversi: “Ottenuti ed esaminati gli atti il giorno 29 settembre 2017, l'Ecc.mo Segretario di questo Supremo Tribunale, con decreto del 26 ottobre 2017, ha respinto in limine il ricorso per mancanza di un presupposto, cioè di un ricorso interposto entro il termine perentorio contro la chiusura della chiesa.”. Ma il dispositivo del decreto adottato dopo la discussione in Congresso, protrattasi per due sedute, suona: “Deve essere confermato, e di fatto si conferma, il decreto dell'Ecc.mo Segretario di questo Supremo Tribunale emesso relativamente alla riduzione della chiesa X ad uso profano; deve essere ammesso e di fatto si ammette alla discussione davanti agli Em.mi ed Ecc.mi Padri Giudici il ricorso avverso il silenzio quanto all'apertura della chiesa X.”. Quest'altra dicitura farebbe pensare, piuttosto, che sia stata condivisa la tesi della Congregazione, secondo cui la riduzione ad uso profano era stata annunciata dall'Arcivescovo nella stessa lettera in cui annunciava ai fedeli l'intenzione di accorpare le parrocchie; ma, se così fosse, il decreto del Prefetto sarebbe intrinsecamente contraddittorio, perché non avrebbe senso ammettere alla discussione il tema Ecclesiae adaperiendae se quella non doveva più considerarsi una chiesa. La diversità di espressioni, allora, deve spiegarsi per effetto dell'equiparazione giurisprudenziale tra chiusura definitiva e riduzione ad uso profano; il senso della decisione del Prefetto è che la chiusura de facto si sarebbe potuta e dovuta impugnare come illegittima, e ciò intra fatalia legis, ma l'equiparazione opera in favore dei fedeli e non contro di loro, quindi restava comunque possibile, in assenza di un decreto formale, chiedere la riapertura della chiesa al culto.

[4]    A questo proposito, notano i giudici, la Congregazione ha frainteso il contenuto della lettera dell'Arcivescovo ai fedeli, che in realtà non faceva parola di una chiusura del luogo di culto, non ha chiesto il decreto e si è limitata ad affermare che il ricorrente non aveva dimostrato di averlo chiesto più volte, senza domandargli di fornirne la prova.

[5]    In effetti, il CIC usa impugno ed impugnatio sia nel senso proprio degli omologhi italiani sia in quello più generico di “contestazione”, ad es. la impugnatio del Matrimonio è quella che un tempo si chiamava “accusa di nullità”, quindi l'avvio di un giudizio di primo grado, e il can. 1745 prevede la possibilità che il parroco “impugnet” le ragioni addotte per la sua rimozione, che in quello stadio della procedura è solo prospettata.