La disciplina generale delle persone giuridiche (cann. 113-123)

mare d'inverno
Ph. Luca Martini / mare d'inverno

La disciplina generale delle persone giuridiche (cann. 113-123)

 

1. Le esigenze sottese e il sistema di Sinibaldo Fieschi

Se sono ben note le radici canonistiche del concetto di personalità giuridica, su cui non manca di soffermarsi anche la manualistica istituzionale di storia del diritto, possono invece sfuggire le peculiari esigenze che hanno condotto l'ordinamento della Chiesa ad elaborare un concetto che- al netto delle dispute tra romanisti circa la possibilità o meno di riconoscerlo all'opera nelle pieghe di questo o quell'altro istituto – neppure gli stessi giureconsulti romani avevano mai formulato.[1] Dopotutto, quanto più si sale sulle vette dell'astrazione, tanto più utile torna ricordare che il diritto, il positivo specialmente, è sempre mezzo rispetto ad un fine.

Nella concezione patrimoniale caratteristica dei popoli germanici, che l'hanno ovviamente portata con sé durante le invasioni barbariche, “Lo Stato […] è il re, che si presenta come il proprietario assoluto del regno. [Detta concezione], che ha la sua più larga applicazione nel campo feudale, discende da questo principio del tutto diverso dalla concezione del diritto romano. Infatti lo Stato così inteso si articola nelle diverse comunità dei villaggi […] e queste si presentano come enti collettivi formati dall'unione di più abitanti con rappresentanza ed ordinamento giuridico comune.”.[2] Di qui, tra l'altro, le polemiche ottocentesche e primo-novecentesche tra storiografia tedesca e italiana circa la rispettiva priorità nell'invenzione della personalità giuridica. Ma qui preme notare piuttosto quegli elementi che depongono in senso radicalmente contrario: “Il re longobardo, l'imperatore franco e con loro il feudatario erano portati a considerare questi beni su cui veniva esercitata la sovranità come un patrimonio personale che si confondeva con i beni privati della corona o del casato”; inversamente, “Quando il Comune nasce si può notare da alcuni dati il prevalere del concetto germanico della comproprietà: è infatti un vincolo solidale che lega il Comune a tutti i cittadini, e per ogni debito del Comune ogni membro risponde in solido con tutto il suo patrimonio.”.[3]

Fin quando il diritto romano aveva dominato senza contrasti, pur in assenza di particolari apparati concettuali le discipline concrete del collegium licitum, del corpus, dell'universitas e di fatti negoziali come il fideicommissum erano state sufficienti e adeguate ai bisogni della Chiesa; ma dinanzi alla concezione patrimoniale - le cui disastrose conseguenze per la libertà ecclesiastica hanno scatenato secoli di scontri, armati e no, dal tempo di Ludovico il Pio alla lotta per le investiture – si rendeva necessario tracciare nette linee di demarcazione. Innanzitutto, l'ufficio ecclesiastico, inteso come complesso di diritti e attribuzioni, non solo non poteva essere identificato con la persona del titolare, ma in larga misura, anzi diciamo pure in linea di principio, era sottratto alla sua disponibilità, dovendo egli trasmetterlo integro al proprio successore; e ciò era particolarmente vero per la dotazione patrimoniale annessa, il beneficium, di cui il possessore pro tempore dell'ufficio poteva far propri i frutti, ma non alienare i cespiti fruttiferi; quanto poi al lato inverso, l'insuscettibilità di esecuzione sui beni della Chiesa per debiti personali del tale o talaltro chierico (detentore di uffici o meno) doveva discendere direttamente da quello che oggi chiameremmo vincolo di destinazione d'uso, per cui lo stesso Vescovo, lo stesso Papa, pur potendo creare o sopprimere uffici e benefici, quindi disporre dei beni patrimoniali ecclesiastici, erano però tenuti ad impiegarli sempre e solo per fini di religione e di pietà, dal culto divino al sostentamento dei poveri. Inoltre, la massima parte di questi beni proveniva da donazioni modali, eredità o legati, quindi era soggetta a vincoli di destinazione ben più penetranti e specifici: p.es., il reddito del tale campo deve essere utilizzato in via priritaria per la celebrazione di tot SS. Messe di suffragio per Tizio, al tale altare della tale cappella. Infine, ma non da ultimo, queste caratteristiche vengono a riprodursi tutte le volte che alcuni cristiani si associano per perseguire un fine religioso specifico: dai grandi Ordini alle Confraternite di paese, tutti questi insiemi di persone, per il loro stesso successo, si vedevano destinatari di lasciti e donazioni con vincoli annessi. Segregare patrimonialmente gli insiemi di beni poteva essere operazione abbastanza semplice, un affare di inventari e registri; ma per gli insiemi di persone la faccenda era più complessa, perché occorreva sancire l'intangibilità del fine istituzionale e di alcune regole tra le più importanti, la perpetuità dell'insieme nonostante l'avvicendarsi dei membri, anzi grazie ad esso, e – punto probabilmente decisivo ai nostri fini - la titolarità di diritti e obblighi in capo all'insieme di persone operante secondo quelle determinate regole.

Un esempio concreto mostrerà forse meglio il genere di problemi. Giovanni Bassiano ci ha tramandato notizia di una disputa dottrinale databile alla metà del XII sec., dunque all'alba del diritto canonico come disciplina scientifica:[4] da una parte Mosè, Arcivescovo di Ravenna dal 1144 al 1154, la cui attenzione “fu rivolta principalmente a un recupero attento delle proprietà di cui nei secoli era stata depauperata la sua diocesi”;[5] dall'altra il magister Gualfredo, già consigliere dell'imperatore Lotario II.[6] Il problema era la proprietà dei beni di un monastero che veniva abbandonato: i beni a chi spettavano? “Al patrono, dalla cui liberalità il convento li avesse avuti, oppure li si doveva considerare vacanti e da assegnare quindi al fisco pontificio?”.[7] Nessuno dei due, in realtà, parteggiava per il patrono, almeno non nel senso di una retrocessione, e questo è già significativo. Per Gualfredo, veri proprietari e possessori erano i monaci, cosicché in loro mancanza i beni erano vacanti e doveva subentrare il fisco pontificio; non così per Mosè, secondo il quale la titolarità spettava ai muri della chiesa, all'edificio sacro. L'intento comune ad entrambi era salvaguardare l'appartenenza dei beni alla Chiesa, ma il Prelato ragionava nell'ottica della continuità del singolo monastero, che in casi simili non di rado veniva ripopolato; e se la sua tesi incontrò l'ostilità compatta dei Glossatori, ebbe però il ben più autorevole favore di Bartolo e conobbe una longevità a tutta prima insospettabile: dopo aver svolto un rilevante ruolo sociale nel Mezzogiorno d'Italia, tra Cinque e Seicento, in difesa degli usi civici dei villaggi abbandonati, che senza qui diritti non sarebbero potuti risorgere, “Nel 1810 fu accolta infine da una sentenza della Commissione feudale napoletana in tema di demani comunali e nel 1953 dalla nostra Cassazione in materia di usi civici.”.[8] Se sulle prim può lasciare interdetti o anche divertiti, bisogna però anche dire che meglio della posizione di Gualfredo essa rispondeva all'esigenza sottostante. Era “Una tesi ardita, certo, ma non così arbitraria come dirà la tradizione di Giovanni Bassiano. Mosè, che non doveva essere digiuno delle fonti romane, vi poteva trovare ottimi argomenti data la frequenza con cui il termine ecclesia aveva in esse l'accezione di luogo materiale titolare di diritti e privilegi. D'altronde vi erano esempi di enti collettivi materiali, come l'eredità giacente, che avevano notoriamente obblighi e diritti; anzi lo Schupfer con molta fantasia ha visto in Mosè il lontano precursore della moderna teoria della 'fondazione' (ente formato di beni contrapposto all'associazione di persone) oggi dotata di personalità giuridica. Né si può negare, come osserva l'Orestano, che l'imputazione di diritti a edifici e mura è un'astrazione non maggiore dell'antropomorfizzazione insita nella teoria della personalità giuridica.”.[9] Teoria alla quale, d'altronde, non potevano dirsi più vicini i Glossatori.[10]

Se la linea di Mosè di Ravenna lascia tuttora una traccia piuttosto visibile nell'istituto canonico del privilegio locale, annesso per l'appunto ad luogo (in genere sacro, p.es. le indulgenze annesse alla visita ad una data chiesa o cappella), perché anche in caso di distruzione il relativo diritto non si estingue, ma rivive se l'edificio è ricostruito entro cinquant'anni, la scienza canonica si è tuttavia orientata verso la teoria della persona ficta seu repraesentata, portata a compimento da Sinibaldo Fieschi, poi Innocenzo IV, per ragioni che in ultima analisi sono teologiche. “La Chiesa, già nei padri più antichi, è il corpus mysticum di Cristo; essa viene con termini tolti dal diritto di famiglia designata a seconda dei casi quale sponsa, uxor, mater, filia, e altre volte ancora personificata come patrona, domina; e di essa si dice già persino che gerit personam pupilli. Una visione per la prima volta penetrante fino all'intimo di questi rapporti giuridici nuovissimi; e insieme una cosciente e concreta applicazione ad essi di quella terminologia figurativa, che innanzi non aveva avuto se non una portata quasi inconsapevole e molto indé:finita, per modo che la metafora letteraria si cambia in finzione giuridica: ecco i meriti capitali di Sinibaldo.”.[11] Detto in altre parole: il linguaggio paolino e poi patristico e così chiaro e forte nel fare della Chiesa un soggetto, un personaggio attivo nella storia della salvezza, la sintesi collettiva, per così dire, di tutti gli sforzi per la santificazione, gli aneliti dei purganti e le intercessioni dei beati, che il problema della sua soggettività patrimoniale non poteva, a ben vedere, che portare ad una trasposizione simile, cioè appunto ad una teoria della “persona giuridica”.[12] Anche se nessun cattolico, ovviamente, potrebbe parlare della Chiesa come di una persona ficta, ben altro essendo il senso di corpus mysticum; ma è senz'altro persona repraesentata, cioè non può agire che tramite altro soggetto in rapporto di immedesimazione organica, e nello stesso tempo non si identifica con esso, anche solo per il fatto che il numero dei membri è più ampio.[13]

In Sinibaldo, la teoria già porta ad una serie di distinzioni piuttosto interessanti, anche se non sempre corrispondono alle odierne. Da tempo desueta, ad es., quella tra collegium reale e collegium personale, dove l'elemento comune sta nell'essere insiemi di persone, solo che il primo limita la propria operatività ad un dato territorio (sono dunque “collegi reali”, p.es., le città, i borghi e le chiese; personali, le corporazioni mercantili e gli ordini religiosi). Sono poi collegia necessaria et naturalia quelli dalla cui appartenenza non ci si può sciogliere liberamente e ai quali si è ascritti in virtù dell'origine, del domicilio etc., mentre il contrapposto dei non necessaria et voluntaria si spiega praticamente da sé; i primi corrispondono almeno tendenzialmente ai reali e i secondi ai personali, forse anche dove l'appartenenza segue obbligatoriamente all'esercizio di un'arte o mestiere, perché si può cessare liberamente l'esercizio stesso. Malgrado il mutamento terminologico e concettuale, invece, è rimasta in ambito canonico l'idea di un necessario intervento dell'autorità competente: per i collegia realia esso deve avvenire con un provvedimento ad hoc, per i personalia anche con norma generale, se però la causa è lecita – si pensa soprattutto ad uno scopo religioso - e c'è già una sostanziale similitudine tra le posizioni dei membri, ad es. perché coabitano e mettono in comune i beni, come per tutti coloro che seguivano la Regola di S. Agostino.[14] 

Le distinzioni di Sinibaldo sono rimaste in uso per secoli, anche se il loro influsso si è affievolito a partire dal Seicento; due concetti, invece, sono sempre stati e tuttora sono i pilastri della disciplina canonica delle persone giuridiche, e date le premesse non stupirà che si tratti di universitas rerum, ossia insiemi di cose, e universitas personarum, insiemi di persone.

 

2. Il Codice del 1917

Una disciplina generale delle persone giuridiche non è mai stata dettata dal legislatore prima della codificazione pio-benedettina: non ve n'era bisogno, in quanto potesse occorrere vi provvedevano gli schemi dottrinali. Molte, invece, e spesso di travagliata applicazione le norme sui benefici, quest'elemento materiale in linea teorica subordinato agli uffici, ma così spesso prevalente nella vita quotidiana, nella prassi e nel non sempre lodevole atteggiarsi degli interessi individuali. Molte anche quelle sulle “cause pie”, che almeno in via di prima approssimazione potremmo definire come “vincoli di destinazione” a scopi religiosi determinati.

Il CIC 1917, oltre ad accogliere e riordinare questi due plessi normativi, ne ha aggiunti altrettanti: una disciplina generale delle persone giuridiche – in larga misura nuova - e una degli uffici ecclesiastici. Noi ci occuperemo solo del nostro tema specifico, ma sporadici riferimenti agli altri si renderanno egualmente necessari, per ragioni di connessione già sottolineate in precedenza.

I cann. 99-102 del vecchio Codice enunciano, per prima cosa, l'esistenza nella Chiesa delle personae morales,[15] indicano quale loro tratto distintivo l'essere costituite dalla pubblica autorità[16]ad finem religiosum vel caritativum” e subito le distinguono in collegiali e non collegiali, adducendo come esempi di queste ultime le chiese, i benefici e i seminari (can. 99). In pratica, nelle prime il soggetto di diritto è un collegium e quindi un insieme di persone, nelle seconde un patrimonio o, nel caso degli uffici ecclesiastici, un complesso di diritti e doveri, quindi in ogni caso un insieme di cose, suddistinto poi in “istituti ecclesiastici”, che sono soggetti di diritto anche indipendentemente dal patrimonio, e “pie cause” o “pie fondazioni”, che al contrario consistono di un patrimonio e del suo vincolo di destinazione. Quanto poi alla costituzione da parte dell'autorità, la distinzione sinibaldiana si mantiene ma con un senso diverso, giacché essa può avvenire per legge o apposito decreto (can. 100 §1).

Va inoltre notato che la formulazione del can. 99 o lascia campo libero all'interprete quanto alle teorie della personalità giuridica, oppure semmai si compromette nel senso della “realità” e, con quel “In Ecclesia, praeter personas physicas, sunt etiam personae morales”, prende in qualche modo le distanze da secoli interi in cui ha prevalso, proprio in abito canonico dove è sorta, la tesi della fictio iuris. Del resto, se si intende “persona” come “soggetto di diritto”, allora la fisica e la giuridica non sono che due specie di un medesimo genere; e nell'ottica teleologica che allora dominava tutta la riflessione dei canonisti sui raggruppamenti umani, per influsso del diritto pubblico ecclesiastico, il fine non è semplicemente una questione di animus degli interessati, ma possiede per così dire una sua oggettività e trascendenza.[17] Ma, fittizio o reale che sia, il soggetto viene in essere sempre mediante il rapporto con uno specifico ordinamento, nel nostro caso quello canonico, mediante un giudizio dell'autorità competente sui suoi mezzi ed i suoi fini.[18]

Osserviamo, a questo punto, la notevolissima latitudine del concetto, che viene applicato ad entità tanto diverse come gli edifici sacri, le dotazioni patrimoniali degli uffici ecclesiastici e, anche se non vengono menzionate per nome dal can. 99, le associazioni di fedeli. Non stupisce, allora, che le norme comuni a tutte siano pochissime e molto generali, anche se in verità una trattazione monografica sulle persone giuridiche potrebbe prescindere dall'ordine sistematico del Codice ed aggiungerne alcune altre, relative all'amministrazione dei beni.

Il can. 100 §1 dichiara che la Chiesa Cattolica e la S. Sede sono dotate di personalità morale per diritto divino: si tratta di una semplice trasposizione in linguaggio giuridico del fatto che l'una e l'altra – qui per “Santa Sede” deve intendersi solamente l'ufficio primaziale del Romano Pontefice – sono state dotate direttamente da Dio di un complesso di diritti e doveri; se ne può tuttavia desumere, per identità di ratio, che siccome il Papato è un ufficio ecclesiastico iure divino, anche gli uffici iure humano debbono considerarsi persone giuridiche ex ipso iuris praescripto.[19] Tali sono inoltre, all'evidenza, le chiese, i benefici, i seminari e tutti gli altri enti cui il diritto riconosca espressamente la qualità di persone giuridiche: essa conseguirà ipso iure, p.es., alla bolla di erezione di una Diocesi, anche se non se ne facesse menzione, mentre negli altri casi sarà neessario un decreto ad hoc (e il linguaggio codicistico, parlando di formale decretum, sembra soprattutto volto ad evitare che possa darsi un'acquisizione per via di fatto, comunque concepita o giustificata). 

La disciplina generale non ha disciplinato affatto il procedimento di erezione in persona giuridica, né il tipo di valutazione necessaria o il contenuto minimo del decreto finale; sicché, considerato che le varie norme di settore hanno usato in maniera promiscua i termini “erigere” e “approvare”, ci si è chiesti se potesse darsi un provvedimento che facesse in qualche modo “nascere” l'ente senza però conferirgli ancora la personalità giuridica. La conclusione è stata per lo più negativa: si è bensì ammesso che le associazioni di fedeli (ma anche gli istituti ecclesiastici) possano essere “approvate”, nel senso che si giudica lodevole la loro opera e raccomandabile la partecipazione dei fedeli, senza che ciò equivalga ad “ereggerle” in persona giuridica, tuttavia una simile valutazione non equivale ad un atto di nascita, perché si tratta di prendere atto di una loro esistenza de facto, il cui titolo legittimante riposa, in ultima analisi, sul diritto naturale di associazione, mentre gli effetti che si ricomprendono nell'espressione “personalità giuridica” sono di diritto positivo.

Può sorprendere, al can. 100 §3, l'enunciazione che equipara tutte le persone giuridiche ai minori. Lo scopo non è assoggettarle ad un qualche tutore, d'altronde non previsto da nessuna parte: l'annotazione dei fontes chiarisce che si richiama il principio, enunciato già da X.1.41.1 e 3 in tema di restitutio in integrum, secondo cui i loro diritti debbono essere salvaguardati; si tratta insomma, di un'equiparazione riferita alle norme di favore, soprattutto in ambito contrattuale.[20]

Le ultime due norme comuni a tutte le persone morali si ricavano dal can. 102 §1 e riguardano la loro estinzione: non è previsto un termine, ma possono essere soppresse dall'autorità competente – tautologica applicazione del criterio dell'actus contrarius – e si estinguono se “per centum annorum spatium esse desieri[n]t”. formula singolare questa, che fa estinguere qualcosa che non dovrebbe esistere più già da cent'anni! Ma ce ne offre il senso il §2: se ad una persona collegiale resta un solo membro, in questi si concentrano tutti i diritti e gli obblighi; come dire che essa si estinguerà passati cent'anni dopo la morte di costui, a meno che nel frattempo l'autorità – e ritroviamo qui il problema del monastero abbandonato e la ratio, se non la tesi, di Mosè di Ravenna – non provveda a rimetterla in attività nominando qualcuno che si incarichi di reclutare nuovi membri (può soccorrere in tal senso l'equiparazione con il minore, che consente la nomina di tutori o curatori se necessaria per la salvaguardia dei diritti e dunque, a fortiori, della stessa esistenza). Se dunque la persona collegiale esse desinit nel momento in cui resta priva anche di una sola persona fisica che agisca in suo nome, nel caso delle persone non collegiali, che sono insiemi di beni, il centennio comincia a decorrere dal totale perimento delle res, il quale non comporta l'estinzione ipso iure ed immediata perché, anche in questo caso, la meritevolezza del fine perseguito potrebbe consigliare una ricostituzione del patrimonio. Bisogna però osservare che diversi diritti e anche doveri si estinguono per prescrizione in un lasso di tempo ben inferiore al secolo; ciò vale anche per gli uffici ecclesiastici che restassero vacanti, perché la prescrizione non opera sola rispetto ai interessi materiali ma anche agli spirituali (e continua ad essere sia estintiva sia acquisitiva, cioè ad includere l'usucapione).

Il Codice non lo specificava, ma la dottrina già distingueva le persone giuridiche in pubbliche o private, rivolte le une a perseguire il bene pubblico della Chiesa intera (la S. Sede, ma anche le singole Diocesi e quelle che perseguono direttamente un aspetto particolare ma fondamentale della salus animarum, come il Seminario), le altre al bene, pur sempre spirituale ma talvolta anche materiale, di singoli individui, vuoi gli appartenenti, vuoi i poveri beneficati, p.es., da un ente caritativo. Le prime si ritenevano dotate di vera e propria giurisdizione, che non poteva provenire che dall'autorità ecclesiastica; le seconde della c.d. potestà dominativa, spettante ad ogni associazione per diritto naturale. Va da sé che queste ultime restavano comunque soggette alla vigilanza dell'autorità stessa.[21]

Venendo infine alla differenza tra persone giuridiche collegiali e non collegiali, vediamo che, in concreto, essa sta nel fatto che le prime, oltre a presupporre una pluralità di membri (Tres faciunt collegium: can. 100 §2), di regola agiscono mediante delibere per l'appunto collegiali, le altre nel modo determinato dai loro statuti e dalle disposizioni del diritto che le riguardano in particolare (can. 101) e che si trovano, quanto al Codice, nel Libro III – De rebus.

Il collegium va inteso come soggetto di diritto distinto dai singoli membri, che li si prenda individualmente o collettivamente, e viceversa;[22] resta dunque identico anche se mutano e si avvicendano le persone dei membri, perché l'identità è data dal fine e dal legame che unisce nel perseguirlo.[23] Tuttavia, se per regola generale il suo funzionamento è maggioritario, il CIC 1917 recepiva la regula iurisQuod omnes tangit uti singulos, ab omnibus approbetur” (Regulae Iuris in VI, n. 29; can. 101 §1 n. 2). In altre parole, esistono diritti e obblighi che spettano bensì al collegium, ma riguardano anche ciascun singolo membro come tale: p.es., l'indulgenza concessa ad una Confraternita per la festa del Santo titolare si traduce nella possibilità che ogni membro ha di lucrarla alle condizioni prescritte; sul lato passivo, possono esserci prestazioni che richiedono il concorso dell'intero collegium, come p.es. la recita dell'Ufficio divino nei capitoli dei canonici. In questi casi, la cui identificazione non è sempre agevole e richiede, oltre all'esame del diritto particolare, anche la disamina della traditio canonica intorno a detta regula iuris, è prescritta la deliberazione unanime. [24]

Applicandosi invece il criterio maggioritario, la norma dispositiva introdotta dal can. 101 §1 n. 1 prevedeva la regola della maggioranza assoluta dei voti validi,[25] che diventava relativa dopo due scrutini andati a vuoto;[26] mancando anche questa, e dunque in caso di parità al terzo scrutinio, nei successivi doveva prevalere il voto del presidente oppure, se si trattava di elezioni e il presidente non volesse dirimere così la parità, il candidato senior ordine (dotato di Ordine sacro, o dell'Ordine più anziano di ordinazione), o appartenente al collegium da più tempo o, se neppure questo criterio fosse risultato applicabile, il più anziano.[27]

 

3. Il Codice del 1983

La seconda codificazione latina, pur eliminando i benefici o almeno derubricandoli a materia di diritto particolare, non si è discostata molto dalle scelte precedenti: continuiamo dunque ad avere un corpus dedicato alla disciplina generale (cann. 113-23), rimpolpato per colmare qualche lacuna del Codice pio-benedettino, da integrarsi però con la ben più articolata normativa sull'acquisto e l'amministrazione dei beni ecclesiastici in genere (cann. 1258-89), integralmente applicabile alle persone giuridiche, ma in alcuni punti di notevole importanza, come la responsabilità degli amministratori, a tutte quante. Vi sono, poi, discipline di settore per le associazioni, i vari raggruppamenti di religiosi (che sono trattati come un caso a parte e non una specie del genere “associazioni”, sebbene l'eventualità sia stata discussa), le pie volontà e le pie fondazioni.

Nondimeno, la disciplina generale ha subito mutamenti di rilievo a livello terminologico. Anzitutto, ora si parla sempre e solo di “persona giuridica”; la qualifica di persona moralis è conservata, al can. 113, per la Chiesa e la S. Sede in quanto, derivando tale personalità dal diritto divino, con ciò si esprime meglio la sua anteriorità ad ogni disciplina umana.[28] Inoltre, al can. 114 si prevede che le persone giuridiche siano insiemi di persone o insiemi di cose, contraddistinti però sempre da “un fine corrispondente alla missione della Chiesa, che trascende il fine dei singoli”, oltreché dall'intervento dell'autorità, che mantiene i due tipi preesistenti (§1). In altri termini, la summa divisio non è più tra persone collegiali e non collegiali: sono state espressamente ammesse sia la universitas personarum non collegiale (can. 115 §2), sia la universitas rerum amministrata da un collegio (can. 115 §3). Anzi, il legislatore ha anche precisato di non intendere il collegium nel senso ulpianeo di societas aequalium, dal momento che il can. 115 §2 considera collegiale una persona giuridica quando i membri concorrono nel prendere le decisioni, ma non necessariamente con pari diritto.[29] Invece, il requisito minimo di tre membri è stato esteso ad ogni universitas personarum. La universitas rerum eretta in persona giuridica indipendente prendono anche il nome di “pie fondazioni autonome”, ai sensi del can. 1303 §1 n. 1°.

Per contro, le chiese e gli edifici d culto in genere non sono più previsti come persone giuridiche: i cann. 1214 sgg. distinguono gli edifici sacri solo in rapporto al maggiore o minore diritto per il pubblico di accedervi a fini di culto.[30] Ciò significa che, in concreto, non si ragionerà in termini di loro rappresentanza legale, ma di proprietà, eventuale separata dalla gestione e comunque spettante vuoi a persone fisiche, vuoi a persone giuridiche di qualunque natura. E in effetti, propriamente parlando un edificio non è un'universitas. Per la stessa ragione, dovrebbe oggi concludersi che non sono (più) persone giuridiche quegli uffici ecclesiastici che non si configurino come un'universitas rerum, unica ipotesi che sembri compatibile; se poi abbia senso o sia utile l'attribuzione della personalità, considerato che l'ufficio ecclesiastico ha, in genere e più ancora in concreto, una disciplina tendenzialmente esaustiva, è altra questione.

Colmando qualche lacuna, il nuovo Codice ha ampliato i fini perseguibili, che debbono essere “attinenti ad opere di pietà, di apostolato o di carità sia spirituale sia temporale” (can. 114 §2),[31] e soprattutto ha dettato un doppio criterio per la scelta se conferire la personalità giuridica (si noti che la formula “ne conferat nisi” pare sottendere quasi una presunzione di risposta negativa): il fine perseguito deve essere reapse utilis, s'intende non in astratto ma nel caso concreto e per quella particolare situazione, e i mezzi, “omnibus perpensis”, sufficienti a conseguirlo (can. 114 §3). Non si è invece detto nulla – almeno in questa sede generale - su quegli insiemi di cose o di persone che cominciano ad operare de facto prima di avere una personalità giuridica; il can. 215 ha tuttavia chiarito che i fedeli, a monte di ogni intervento autoritativo, hanno il diritto di associarsi per fini soprannaturali, mentre in materia di contratti, ivi compresa la capacità a stipularli, il can. 1290 canonizza il diritto civile, cosicché la maggior parte dei problemi pratici dovrebbe considerarsi superata.[32]

Dal canto suo, il can. 116 ha conferito crisma legislativo alla distinzione tra persone giuridiche pubbliche e private, troncando le incertezze dottrinali: le prime sono sempre costituite dall'autorità, agiscono nomine Ecclesiae – beninteso, se e in quanto restino entro i limiti della competenza loro concretamente assegnata - e in vista del bene pubblico della Chiesa; tutte le altre, comunque nascano, sono private; e solo quelle pubbliche possono essere costituite ipso iure (o veder definito dal diritto, anziché dagli statuti, chi siano i propri rappresentanti: can. 118).

Il can. 117 prescrive, per ogni riconoscimento di persona giuridica, un previo esame degli statuti, con esito finale di approvazione. Nulla è detto su come debba svolgersi questo giudizio, ma, a parte la congruenza di tutti i mezzi al fine perseguito ex can. 114 §3, conterà il rispetto dei vari requisiti legali previsti per le diverse categorie di persone giuridiche e di attività. Comunque, il provvedimento finale è, anche per le persone giuridiche private, un atto amministrativo e non un'omologa notarile, quindi l'autorità approvante gode di una discrezionalità piuttosto ampia e può esigere chr negli statuti si inserisca ogni genere di clausola ritenuto opportuno (salvo il diritto al ricorso se gli interessati si rifiutassero e per questo si vedessero negare la personalità giuridica).

Il can. 119 mantiene intatta, al n. 3°, la regola Quod omnes tangit con tutti i suoi problemi interpretativi, ma ha semplificato la disciplina degli atti delle persone collegiali: se si tratta di elezioni, infatti, è stato soppresso il potere discrezionale del presidente di dirimere la parità, sostituito con il ballottaggio, al terzo scrutinio, tra i due candidati che abbiano ottenuto il maggior numero di voti;  se per ragioni di parità fossero più di due, o se anche il terzo scrutinio desse esito pari, prevale l'anzianità anagrafica (n. 1°). Invece, per tutti gli altri affari, si è introdotto un quorum costitutivo – la maggioranza di coloro che devono essere convocati, requisito che andrà evidentemente precisato a norma degli statuti – e si è eliminato il passaggio alla maggioranza relativa: se al terzo scrtinio l'esito è pari, il presidente “può dirimere” la parità (a meno che, chiaramente, non ritenga preferibile un rinvio, per qualunque ragione).

Il can. 120 riproduce le cause di estinzione previste in precedenza, precisando però che il centennio comincia a decorrere quando la persona ha smesso di agire (“agere desierit”), non più di esistere; sono invece introdotte ex novo, per le persone giuridiche private, lo scioglimento a norma degli statuti, nel caso di associazioni, e a norma degli statti ma con giudizio di accertamento dei presupposti demandato all'autorità per le fondazioni. Il can. 121 introduce un'altra ipotesi, la fusione, che non richiede particolari rilievi, tranne forse la permanenza di tutti i vincoli di destinazione dei beni rispettivamente posseduti dalle persone giuridiche di partenza, e il can. 122 disciplina il più difficile caso inverso, la scissione, ma solo per le persone giuridiche pubbliche, e contempla sia la possibilità di una divisione solo parziale dei beni, in modo che di altri restino in comune tanto l'uso e i frutti quanto gli oneri, sia il rispetto della volontà degli offerenti (però stavolta anche degli statuti), sia il riparto della massa attiva e passiva “con debita proporzione secondo il giusto e l'onesto”, tenuto conto di tutte le circostanze, ma in particolare delle esigenze imposte dai fini che dovranno essere rispettivamente perseguiti. Infine, il can. 123 disciplina, nuovamente per entrambi i tipi di persona giuridica, gli effetti patrimoniali dell'estinzione: per le persone giuridiche pubbliche, nel silenzio del diritto (particolare) e degli statuti, beni, diritti e oneri vanno “alla persona giuridica immediatamente superiore”, p.es. dalla parrocchia alla Diocesi, salva sempre la volontà degli offerenti; invece, la destinazione dei beni delle persone giuridiche private è sempre retta dagli statuti.

Anche dopo le integrazioni disposte dai codificatori del 1983, ci si può interrogare sull'utilità concreta, anche solo in termini di economia dei precetti legislativi, di una disciplina generale tanto scarna e comune a realtà così diverse; sarebbe stato forse più opportuno dettare una norma, questa sì generale, sugli effetti della personalità giuridica qua talis e poi, rispetto alle singole figure previste dal Codice, precisare quali canoni si applichino anche alle entità che ne siano sprovviste, ovviamente nei casi in cui possono esistere. Non mancano critiche più radicale, come quella di massimo del Pozzo, secondo cui “Al di là dell'insidiosità ed equivocità dei presupposti ideologici del modello secolare” - perché a suo parere esisterebbe una netta cesura tra la riflessione dei canonisti medioevali, impregnata di metafisica scolastica e orientata sempre alla soluzione di problemi concreti, e la recezione codificatoria di un precipitato civilistico otto-novecentesco, sfrutto degli eccessi di astrazione tipici del giusnaturalismo razionalista prima, poi dell'idealismo - “l'espressione stessa 'persona giuridica' appare confusa e inadeguata.”:[33] non si può sostenere un concetto di persona come genus unitario e l'aggettivo si presta all'idea, di chiara impronta autoritaria, che la soggettività giuridica stessa nasca solo “dall'alto”. Ma simili censure o considerazioni, quali che ne siano i rispettivi eriti o demeriti, non hanno senso che in prospettiva de iure condendo, o eventualmente come caveat per l'interprete; la descrizione del diritto positivo quale attualmente è può terminare qui.

 

[1]    Cfr. B. Albanese, s.v. Persona (dir. rom.), in Enciclopedia del Diritto vol. XXXIII, Milano 1983, pagg. 169-81, qui 180: “Pur se non manca del tutto, in Roma, un uso del termine persona in relazione a certe collettività di uomini, i giuristi romani non elaborarono una teoria della persona giuridica. Una siffatta teoria, del resto, non poteva essere elaborata in un ambiente intellettuale che non sentì la necessità di astrarre concetti più semplici (come quelli di soggetti di diritto, e di capacità giuridica) che costituiscono evidentemente un presupposto del concetto stesso di persona giuridica. Quel che conta, però, è che i Romani ebbero, fin da epoca risalente, consapevolezza dell'utilità di concepire come un unico soggetto giuridico certe pluralità di persone. Si parò, al riguardo, di corpus e di universitas, per tacere di altri termini con portata specifica (populus, municipium, collegium ecc.).”.

[2]    A. Campitelli, s.v. Persona (dir. interm.), in Enciclopedia del Diritto vol. XXXIII, Milano 1983, pagg. 181-93, qui 189.

[3]    Ibid.

[4]    Ricordiamo che “La tradizione storiografica corrente ritiene che la raccolta di G. abbia visto la luce poco prima della metà del secolo XII, in una data fissata dallo Schulte fra il 1139 - l'anno del concilio Lateranense I - e il 1142, a compimento di un'elaborazione che nel campo del diritto canonico datava almeno dalla seconda metà del secolo XI e parallelamente al lavorio dei glossatori civilisti”, anche se nuove scoperte di manoscritti e gli studi di A. Winroth orientano verso una datazione più tarda della stesura definitiva. D. Quaglioni, s.v. Graziano, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LIX, Roma 2002.

[5]    G. Pilara, s.v. Mosè, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXXVII, Roma 2012.

[6]    A conferma del fatto che si sta parlando di esponenti del Gotha giuridico del tempo, si può osservare che l'unico atto notarile in cui compaia il Maestro Graziano è un parere richiesto in materia di decime da un Cardinle legto di Innocenzo II a tre giuristi: oltre a lui, appunto Gualfredo e Mosè, ancora per poco arcidiacono di Vercelli.

[7]    E. Cortese, Le Grandi Linee della Storia Giuridica Medievale, Roma 2000, pagg. 327-8.

[8]    A. Bartocci, Ereditare in povertà. Le successioni a favore dei Frati Minori e la scienza giuridica nell'età avignonese (1309-1376), Napoli 2009, pag. 208. Ibid., pag. 229, testo e nt. 229, la citazione di Bartolo, che sposa la tesi nel commento a D.47.22.4, che pone il problema di un collegium ancora esistente, ma disperso, p.es. da un'epidemia: “Vel pone propter alium casum universitatem vel collegium recedere, isto casu privilegia et iura non pereunt, immo ipsa iura dicuntur retineri per illum locum a quo denominabatur universitas secundum opinionem Moysi.” (Bartolo non accoglie, invece, quest'opinione nel caso particolare dei Frati Minori).

[9]    E. Cortese, op.cit., pag. 328. Dimostra, a suo modo, l'asserto dell'Orestano anche R. von Jhering, Serio e faceto nella giurisprudenza, Firenze 1954, Lettera I, pagg. 15-8, che tra gli esempi di astrazione eccessiva annovera sia la disputa su “natura” e “personalità” dell'hereditas iacens sia l'attribuzione della titolarità del diritto soggettivo a res, p.es. al tetto quella del diritto di stillicidio, o al biglietto quella dell'ingresso in teatro, che per fortuna, verrebbe da dire, si trasmette al suo legittimo portatore. 

[10]  Non solo le glosse palesano una notevole e persistente incertezza quanto ai termini e alle idee, ma “Il concetto di corporazione si fa vago ed indeterminato per permettere di ricomprendervi ogni collettività riconosciuta come soggetto giuridico. La Chiesa universale si riconduce all'universitas fidelium e la stessa concezione corporativa si applica alle singole Chiese”. A. Campitelli, op.cit., pag. 190. Più drastico, ma uguale nella sostanza, il giudizio di F. Ruffini, La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi (Innocenzo IV) ed in Federico Carlo di Savigny, Torino 1898 (estr.), pag. 8: “la loro dottrina è tutta quanta rudimentale e come brancicante nel buio, quando pure non ha qualcosa dell'ingenuità dei primitivi. I Glossatori non sanno di fatti concepire personalità giuridica senza il substrato di una collettività di persone. Onde il predominare esclusivo presso di loro del concetto di corporazione, che essi designano indifferentemente come universitas, collegium, corpus, e anche societas. Però nell'universitas essi non riescono, giovandosi dell'insegnamento romano, a vedere un soggetto di diritti staccato a pieno e indipendente per virtù di una astrazione giuridica dalla totalità dei membri che la compongono […] Per essi la corporazione non è se non il complesso dei suoi membri; vale a dire che l'unità risulta non già per virtù o di una astrazione, o di una fusione organica, o di una imposizione autoritaria, ma invece dalla pura e semplice somma materiale delle parti singole. Unità e totalità sono per essi concetti identici.”.

[11]  Ibid., pag. 11.

[12]  Ovviamente il procedimento, una volta ammesso in linea teorica, poteva essere applicato a qualsivoglia istituzione: “È per tal modo che primo Sinibaldo, per non citare qui se non uno degli esempi più calzanti, riuscì a fissare la personalità giuridica delle prebende canonicali, per cui innanzi a lui non si sapeva rinvenire altra soggettività giuridica che non fosse la corporazione stessa dei componenti il capitolo. Onde una infinità di dubbi sorgeva nei casi, in cui una prebenda si trovasse in conflitto con un'altra, o col capitolo stesso, o con alcuno avente causa dal medesimo: dubbi che Sinibaldo risolve nettamente e definitivamente, affermando il diritto del prelato di agire in tali casi nel nome della sua prebenda, poiché: 'haec praebenda potest habere iura sua et possessiones sicut episcopatus, abbatia, hospitale, vel quaecumque alia domus, vel dignitas, vel administratio'.”. Ibid., pag. 13.

[13]  Sebbene di persona repraesentata parli piuttosto Jacques de Révigny, la dottrina impiegherà in seguito l'endiadi persona ficta et repraesentata. Giustamente in fin dei conti, perché in realtà i concetti sono molto simili: per Sinibaldo la persona ficta è tale in quanto non può agire in modo autonomo. La differenza sta nel ricorso al concetto di finzione giuridica, mediante cui l'ordinamento suppone che accada qualcosa di impossibile propter utilitatem publicam; è però stata rimessa in discussione la communis opinio secondo cui Sinibaldo sarebbe appunto fautore di una teoria “finzionista”, mentre resta chiaro ed incontroverso il riferimento all'incapacità di agire da sé in brani come “capitulum, quod est nomen intellectuale, et res incorporalis, nisi facere potest, nisi per membra sua”. Cfr. amplius su tutto il tema F. Belvisi, Alle origini dell'idea di istituzione: il concetto di "collegium" come "persona ficta" in Sinibaldo dei Fieschi, in Materiali per una storia della cultura giuridica moderna XXIII (1993), pagg. 3-23. Invece, lo menziono per completezza, l'autore dell'espressione persona moralis, che oggi in ambito canonico concorre con persona iuridica, sembrerebbe Samuel Pufendorf, mentre juristische Person sembra conio di un tedesco assai meno noto, A. Heise. Cfr. A. Gauthier, Le persone giuridiche nel Codice del 1983, in Angelicum 69 (1992), pagg. 105-22, qui 107.

[14]  Può essere utile notare che, mentre la Chiesa è ritenuta persona moralis per diritto divino – e secondo la terminologia sinibaldiana essa è certamente un collegium reale istituito da Dio stesso con un provvedimento specifico – lo Stato, per la scuola del diritto pubblico ecclesiastico, è parimenti necessario, sebbene non in ordine alla salvezza, però deve intendersi approvato da Dio solo in via preventiva generale.

[15]  Ma al can. 687 si trova persona iuridica e al can. 1409 ens iuridicum; quest'ultima espressione è forse più adatta per il beneficio, di cui ivi si tratta, e per le persone non collegiali in genere, ma è comunque sinonimo delle altre e indica sempre un'entità diversa dalle persone fisiche, che esiste in quanto eretta dall'autorità competente, senza limiti di tempo. Cfr. in tal senso T. Mauro, s.v. Enti ecclesiastici (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto vol. XIV, Milano 1965, pagg. 982-99, qui 982.

[16]  “Sed ad hoc ut «persona moralis» in Ecclesia habeatur, proindeque subiectum iurium specialium socialis organismi, illa non sufficit, sed actus voluntatis interveniat necesse est, nec solum singularium coeuntium, qui collegio dare non possent nisi habita ab eis ut singulis iura, quae augeri nequeunt, secus ac in societate civili, quia per sociorum contractus iuxta leges id consequi possent; hi autem privatorum contractus circa spiritualia non admittuntur a ss. canonibus, nisi auctoritatis publicae interventu sicut in canone dicitur.”. A. Blat, Commentarium Textus Codicis Iuris Canonici, Liber II – De personis, Roma 1921, pag. 35.

[17]  Cfr. ad es. F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. II – De personis, Roma 1943, pag. 29: “Conceptus personae moralis seu iuridicae sponte nascitur ex eo quod in societate sunt certi fines, qui licet indirecte singularibus seu individuis personis physicis aliquod commodum seu utilitatem possint afferre, nihilominus excedunt singulorum hominum necessitatem et finem atque obtineri debent exercitio certorum iurium intra ambitum determinati complexys obligationum. Qui complexus iurium et obligationum considerari potest vel in adunatione plurium personarum ad illum finem, qui finem singulorum excedit, vel in complexum bonorum ad illum finem permanenter obtinendum destinatorum. In quo conceptu iam continetur idea alicuius personae (subiectum iurium), distinctae a singulis personis physicis, ad illum finem adunatis, vel etiam ab omni persona physica (persona [non?] collegialis, pia fundatio).”. Dal canto suo, il Conte da Coronata va ad impegolarsi in tutta la discussione sui vari prodotti teorici della dottrina tedesca, ripudiando espressamente la teoria della finzione.

[18]  “[L]a prevalente dottrina canonistica suole distinguere le personae morales in quattro categorie ratione auctoritatis constituentis, ossia, più esattamente, le personae morales iuris naturalis (lo Stato), iuris positivi divini (la Chiesa cattolica, e la Santa Sede), iuris positivi ecclesiastici e iuris positivi civilis, dimostrando chiaramente in tal modo di ritenere che il concetto di persona moralis sia fondato esclusivamente sul legame esistente tra ogni singola persona moralis e un determinato ordinamento giuridico e che, di conseguenza, le personae morales ecclesiasticae siano soltanto quelle regolate integralmente a iure positivo canonico.”. T. Mauro, op.loc.cit., che riprende al riguardo il Conte da Coronata, pur non sembrando del tutto concorde con la sua conclusione (coerente con le premesse) che le personae privatae, ossia i contratti associativi, non sono davvero persone giuridiche. Lo stesso nota peraltro, Ibid., pag. 983, che la necessità di questo nesso ha un fondamento dottrinale, poiché, “secondo l'insegnamento della dottrina giuspubblicistica ecclesiastica, la iuridica perfectio di una societas […] postula la subordinazione alla medesima societas di tutte le altre societates iuridice imperfectae che siano dirette a un fine analogo o comunque collegato a quello perseguito dalla prima.”.

[19]  Così A. Blat, op.vol.cit., pag. 36: al can. 100 §1, “ni fallor, intelligendus ipse primatus Petri eiusque successorum a Iesu Christo institutus. non iam singulae personae Romanorum Pontificum. Affirmatque canon: «Apostolica Sedes moralis personae rationem habet», imo «ex ipsa ordinatione divina». Diximus intelligendum de officio primatus Rom. Pontificis, unde cum non sit persona collegialis, colligimus eam personis Ecclesiae moralibus non colleuialibus accenseri; et consequenter alia officia rite constituta in Ecclesia et proprie dicta, velut personae morales habenda esse iuxta receptos apud societates etiam civiles hominum mores.”.

[20]  Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, op.vol.cit., pag. 39; A. Blat, op.vol.cit., pag. 38.

[21]  Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, op.vol.cit., pag. 38. Questa dicotomia concorreva però con l'altra secondo cui la persona giuridica è “pubblica, se eretta dalla pubblica autorità; privata se, sorta per fatto privato, non è riconosciuta dalla pubblica autorità. Si chiama più comunemente persona collettiva. I DD. Opinano che anche nel nostro diritto tali persone collettive abbiano una certa capacità giuridica.”. M. da Casola, Compendio di Diritto Canonico, Genova 1967, pag. 131.

[22]  Vale insomma la regola enunciata da D.3.4.7.1: “Si quid universitati debetur, singulis non debetur, nec quod debet universitas singuli debent.”.

[23]  Secondo F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, op.vol.cit., pag. 35, la differenza tra collegium e societas starebbe nel fatto che il primo persegue un fine che trascende quello dei singoli componenti, la seconda no.

[24]  Per riferimenti, cfr. Ibid., pag. 41, nt. 24.

[25]  Manca, invece, un quorum costitutivo; si ritiene che la delibera sia valida a prescindere dal numero degli intervenuti, purché si sia fatta una convocazione generale o, se richiesta dal diritto particolare, anche personale; in quest'ultimo caso, se qualcuno e non è intervenuto, ha azione per far rescindere l'atto. M. da Casola, op.cit., pag. 133.

[26]  Manca una previsione espressa sul computo degli astenuti, ma almeno dal terzo scrutinio in poi è evidente che essi non influiscono e comunque, considerato che essi esprimono una non-scelta tra le alternative, non dovrebbero mai essere computati ai fini del quorum funzionale. F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, op.vol.cit., pag. 41, ritengono che il presidente non possa astenersi, dato il tenore precettivo del testo di legge, quando il suo voto è necessario per dirimere la parità dei suffragi e non si versa in materia di elezioni.

[27]  Cfr. A. Blat, op.vol.cit., pag. 39.

[28]  Cfr. A. Gauthier, op.cit., pag. 109 (con rimando in nota a Onclin): “I membri del coetus studiorum che preparavano questa parte del Codice erano influenzati dalla dottrina secondo la quale si dovrebbe distinguere tra persona «giuridica» e «morale», essendo la prima creata dal diritto, mentre la seconda (per esempio l'associazione esi-stente di fatto) potrebbe esistere nell'ordine morale, prima dell'intervento del diritto positivo. Questo fenomeno, riconosciuto dall'analisi della società, costituisce una realtà che il diritto positivo dovrebbe pure riconoscere.”. Interessante anche il seguito (pag. 110): “Infatti, nel 1968, il gruppo di studio aveva deciso di non menzionare la Chiesa come una «persona morale». Ma l'espressione  è stata reintrodotta nella revisione finale del testo, dopo che fu presentato al papa. Ciò facendo, il legislatore ha ovviamente inteso sottolineare il fatto che la presenza della Chiesa nel-
l'ordine giuridico non è dovuta al diritto umano; al contrario, esiste «ex divina ordinatione», dacché il Cristo ha voluto una Chiesa dotata di struttura giuridica.
”.

[29]  L'orientamento iniziale, espresso nello Schema del 1968, era in realtà diametralmente opposto, senonché “°Durante le discussioni nel 1971 e nel 1973, è stato osservato che se la nozione di collegium gruppo di uguali era ritenuta, allora il Collegio dei vescovi, il collegio 'per eccellenza' nel diritto canonico postconciliare non sarebbe un vero collegio.” (Ibid., pag. 116). Il che non manca di far sorridere o di far riflettere, ove si consideri con quanta cura, nella redazione di LG 22 e poi nella Nota Explicativa Praevia, si è voluto precisare che il Collegio dei Vescovi è detto tale in senso metaforico e non giuridico, proprio perché si dava per scontato che questo fosse l'ulpianeo. Se però questa è la ratio della nuova disciplina, allora perché si dia un collegium occorre che tutti i membri siano chiamati a prendere parte attiva almeno ad alcune decisioni; e dunque, sebbene definite “porzioni del Popolo di Dio”, de iure condito non sono tali né la Diocesi né la parrocchia (contra, ma senza motivazione, ivi, pag. 117).

[30]  Una traccia del passato resta non di rado nelle visure catastali, dove, appunto perché le mappe risalgono agli anni Trenta, spesso si trova tuttora l'indicazione che l'edificio sacro è intestato... a sé stesso.

[31]  Il riferimento alla carità, che è virtù teologale, esclude comunque lo scopo meramente filantropico, che sarebbe privo della necessaria relazione con la salvezza delle anime, che è il fine della Chiesa.

[32]  Avremo modo di tornare in argomento quando discuteremo delle associazioni da una parte, delle pie fondazioni dall'altra.

[33]  M. del Pozzo, L'inadeguatezza della nozione di persona giuridica, in Ius Ecclesiae 25 (2013), pagg. 317-38, qui 327. L'A. svolge una critica improntata al realismo giuridico di Javier Hervada, che non è possibile approfondire in maniera adeguata in questa sede. Mi chiedo, tuttavia, fino a che punto abbia senso voler ancorare il concetto giuridico di persona a quello metafisico secondo la definizione boeziana. Nessun dubbio che anche l'ordinamento canonico non sia immune da rischi di derive autoritarie; esse, però, nascono da fattori diversi dal concetto di persona giuridica o anche dalla definizione di ens reale o di ens ideale nella metafisica suareziana. Se il problema è il rischio di uno svilimento del fenomeno associativo – e concordo che il rischio esista – va notato che il progetto definitivo di Codice avrebbe applicato senz'ombra di dubbio la disciplina delle associazioni private anche a quelle non riconosciute e che l'attuale dubbio in proposito dipende solo da una modifica dell'ultimo minuto.