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Statuti e regolamenti

diritto canonico
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Statuti e regolamenti

 

Can. 94 - §1. Gli statuti, in senso proprio, sono ordinamenti (ordinationes) che vengono composti a norma del diritto negli insiemi sia di persone sia di cose, e per mezzo dei quali sono definiti il fine dei medesimi, la loro costituzione, il governo e i modi di agire.

§2. Agli statuti di un insieme di persone sono obbligate le sole persone che ne sono legittimamente membri; agli statuti di un insieme di cose, quelli che ne curano la conduzione.

§3. Le disposizioni degli statuti, fatte e promulgate in forza della potestà legislativa, sono rette dalle disposizioni dei canoni sulle leggi.

Can. 95 - §1. I regolamenti sono regole o norme (Ordines sunt regulae seu normae) che devono essere osservate nei convegni di persone, sia indetti dall'autorità ecclesiastica sia liberamente convocati dai fedeli, come pure in altre celebrazioni, e per mezzo dei quali viene definito ciò che si riferisce alla costituzione, alla conduzione e ai modi di agire.

§2. Nei convegni o nelle celebrazioni, sono tenuti alle norme del regolamento quelli che vi partecipano.

 

Premessa

Prima di passare al tema De personis, il Libro I del Codice dedica un Titolo, il V, composto peraltro di due soli canoni, agli statuti (can. 94) e ai regolamenti (can. 95). La collocazione topografica ha senso, anche se forse non assurge a rilevanza sistematica, poiché si tratta in entrambi i casi di atti necessari per l'azione delle persone giuridiche o per quella collettiva delle persone fisiche (in particolare, gli statuti disciplinano l'azione stabile e continuativa, i regolamenti quella occasionale). Tuttavia, questi due ultimi tipi legali di atto sono anche quelli la cui esatta natura rimane più incerta: i canoni che li riguardano hanno carattere definitorio, come si rileva anche ad una semplice scorsa non dettano regole di disciplina; di conseguenza, il compito principale dell'interprete non può che consistere nel passare in rassegna i problemi da essi generati o lasciati aperti, nella speranza di offrire almeno qualche tentativo di soluzione.

 

1. Gli statuti: natura e problemi aperti

Nel caso degli statuti, il can. 94 §1 chiarisce quantomeno che essi si identificano in ragione del contenuto, considerato quindi tipico e necessario: abbiamo uno statuto se e solo se l'atto giuridico de quo contiene fini, costituzione, governo e modo di agire di un'universitas (che può essere rerum o personarum); ma, precisando che questo è il “senso proprio” del termine, il legislatore lascia intendere che se ne possa incontrare uno improprio, anche nelle pagine del Codice. E infatti, da un lato statutum può designare, in generale, qualunque disposizione; dall'altro, nel can. 788 §3 (per esempio) esso indica chiaramente una legge o un decreto generale, ma di sicuro non fa riferimento ad alcun'universitas. Quindi, non possiamo essere sicuri che ciò che viene chiamato statuto sia effettivamente tale; ma questo, di per sé, è un semplice corollario della qualificazione degli atti secondo la sostanza e il problema, semmai, è comprendere quali siano le incertezze conseguenti in punto di disciplina applicabile... tanto più che, come si è già detto in Premessa, ictu oculi non se ne trova una dedicata espressamente ai soli statuti.

Il can. 94 §3 apporta, se non altro, un po' di chiarezza in più, giacché da esso apprendiamo che gli statuti in senso proprio possono essere emanati in forza della potestà legislativa, nel qual caso sono retti dai canoni sulle leggi. In ciò è implicito che normalmente non sia questo il caso... però nulla ci vien detto sul tipo di potestà che dovrebbe venire in gioco quanto non interviene il legislatore, né come si dovrebbe comprendere quale potere sia stato esercitato in concreto, se gli statuti provengano da un'autorità a competenza generale, come il Vescovo diocesano. Su quest'ultimo aspetto, però, il §3 offre almeno un indizio: l'assimilazione alle leggi richiede che si sia seguita la forma di promulgazione in vigore per gli atti legislativi. Inoltre, non è possibile alcuna confusione con i decreti generali ex can. 31, perché, giusta il can. 94 §2, l'efficacia degli statuti è circoscritta ai membri di una universitas personarum o a coloro che dirigono una universitas rerum (non è questa la sede adatta per approfondire la distinzione tra le due categorie: ad un livello di prima approssimazione, possono paragonarsi rispettivamente alle associazioni e alle fondazioni).

Per andare oltre queste considerazioni di esegesi testuale, però, è necessario tenere in considerazione la disciplina sulle persone giuridiche (cann. 113 sgg., spec. 113-7), che sono i casi più importanti di universitas rerum o personarum. Non tutta la disciplina, beninteso, ma il punto saliente, che ai nostri fini è: la personalità giuridica è sempre attribuita o per legge o con decreto dell'autorità competente, però a volte quest'ultima agisce di propria iniziativa, altre volte, altre volte interviene su un'opera avviata da privati; inoltre, se in genere le persone giuridiche sono private, ne esistono anche di pubbliche, che hanno cioè ricevuto il compito di agire in nomine Ecclesiae in vista del bene pubblico. Quest'insieme di fattori rende piuttosto difficile delineare la natura degli statuti e, in particolare, del potere esercitato per approvarli: Pinto menziona l'opinione che ne fa atti amministrativi generali, ma osserva che “sono piuttosto espressioni del diritto particolare e perciò sono dati, in genere, da organi legislativi”;[1] per de Paolis si tratta di “fonti che possono essere di natura privata, come per es. gli statuti delle persone giuridiche private”,[2] mentre Lombardía è più reciso e afferma che “Gli statuti sono norme che derivano dall'autonomia degli enti”;[3] non ultimo, Labandeira annovera sia essi sia i regolamenti nella categoria delle “norme amministrative indipendenti”,[4] categoria ammessa anche da Miras, Canosa e Baura, che però addirittura la circoscrivono a questi due tipi, considerandoli come gli unici atti amministrativi – generali – che “non hanno riferimento a una legge concreta”.[5]

Il problema, a mio avviso, si può utilmente semplificare con qualche distinzione: se riconosciamo che un dato statuto è stato approvato in forza della potestà legislativa, il can. 94 §3 ne fa una legge ad ogni effetto; se una persona giuridica è costituita ex officio dall'autorità competente, che provvede con decreto, si sta ovviamente esercitando la potestà esecutiva; il dubbio si riduce, allora, ai casi in cui l'approvazione – per decreto – sopravviene ad una preesistente iniziativa privata, perché nulla ci dice se questi statuti si debbano considerare atti della potestà esecutiva, oppure di autonomia privata e/o libera associazione sottoposti a controllo. E la risposta non è indifferente, si pensi ai mezzi di tutela. La mia opinione personale è che, quanto ai rimedi esperibili, si debba ricorrere contro il decreto, considerandolo atto amministrativo singolare (anche solo per il fatto che dà vita ad un nuovo soggetto giuridico); tuttavia, esso costituisce il contenente, per così dire, ma non elimina la concorrente natura privatistica del contenuto, che può avere valore di contratto, nel caso di un gruppo di fedeli già esistente in via informale, oppure essere un atto unilaterale, come tipicamente nei lasciti testamentari (disposizioni in favore dell'anima e simili). Conforta in tal senso, inter cetera, il can. 116 §1, a mente del quale la persona giuridica privata è la regola, quella pubblica un'eccezione ben circoscritta: in genere, l'autorità interviene sull'autonomia privata in senso “conformativo”, per assicurare il rispetto del diritto e di specifiche esigenze concrete del bene comune, ma non per questo si appropria degli atti giuridici preesistenti o sostituisce un interesse pubblico al perseguimento di un interesse privato: si limita ad assicurarsi che questo sia conforme a quello. Nel caso della persona giuridica pubblica, vi è un giudizio più importante, che ritiene che la tal iniziativa, dando vita ad un'universitas personarum o rerum, abbia un'utilità positiva e notevole per il bene pubblico, quindi meriti qualcosa in più di un nulla osta con eventuali prescrizioni; anche qui, però, l'interesse pubblico si affianca al privato, non lo soppianta.[6] In quest'ottica, appare poi del tutto naturale che la potestà chiamata ad intervenire sia, in genere, quella esecutiva: questa non è chiamata solo ad eseguire leggi specifiche, ma anche e soprattutto a vigilare in generale sull'operato dei membri della Chiesa e sul rispetto del diritto universale e particolare; non c'è alcun bisogno, inoltre, di pensare agli statuti come a “norme indipendenti”, neanche quando la persona giuridica è costituita dall'autorità di propria iniziativa, perché difettano comunque del requisito della generalità, dato che interessano un destinatario determinato, la universitas, anche se estendono i propri effetti ai membri e/o ai dirigenti futuri[7] (anticipo, tuttavia, che il discorso può essere diverso per i regolamenti). Tutto ciò offre anche un criterio distintivo quando si tratti di comprendere se uno statuto sia stato approvato in forza della potestà legislativa o dell'esecutiva: supposta la promulgazione, a mio avviso l'uso del nomen iuris di decreto inclinerebbe egualmente verso l'atto amministrativo, perché le parole si intendono sempre impiegate nel significato proprio (sia ex can. 17 sia ex can. 36 §1); se però alcune previsioni sono intese a vincolare soggetti che non siano membri o, comunque, ad incidere in via diretta sulla loro sfera giuridica,[8] allora il principio di conservazione degli atti porta a concludere che deve intendersi impiegata la potestà legislativa (anche per la presunzione Qui vult finem, vult etiam apta media).

Ci si può ancora chiedere se il can. 94 riguardi qualsiasi universitas o solo quelle erette in persona giuridica. Sta risolutamente per la seconda opinione de Paolis: “Di fatto hanno statuti anche associazioni o gruppi di persone che non sono erett[i] in persona giuridica e che devono essere riconosciuti dalla competente autorità (can. 299 §3). Il Codice intende parlare soltanto degli statuti delle persone giuridiche.”.[9] A questo proposito, personalmente sarei più cauto: se è vero che l'art. 94 §3 ha senso solo rispetto a statuti approvati, e quindi a persone giuridiche, questo non mi sembra vero né per il §2 né tantomeno per la norma definitoria del §1; anzi, proprio il can. 299 §3, stabilendo che nessun gruppo di fedeli viene riconosciuto nella Chiesa come associazione se i suoi statuti non sono stati prima rivisti dall'autorità competente, implica nondimeno che questi statuti esistano anche prima, né potrebbe essere diversamente dato che essi sono frutto, in primo luogo, dell'esercizio del diritto di associazione. E un discorso del tutto analogo si può fare rispetto alla tipica universitas rerum, la pia fondazione, che può esistere anche senza un intervento previo dell'autorità, stante il diritto di ciascun fedele, ai sensi del can. 216, di dar vita a proprie iniziative di apostolato. Tuttavia, è chiaro che agli statuti non approvati non potrà applicarsi, neppure in parte, la disciplina degli atti amministrativi, ma semmai quella dei contratti o degli atti unilaterali in vigore nel luogo in cui vengono formati, la quale deve intendersi recepita nell'ordinamento canonico in forza del can. 22.

 

2. I regolamenti

Il termine ordo vanta un'antica tradizione come sinonimo di “rito”, nella liturgia romana; tuttavia, malgrado il riferimento alle celebrazioni possa far pensare il contrario, i riti che oggi sono denominati Ordo non rientrano nell'ambito del can. 95.[10] L'oggetto specifico del regolamento nel senso del CIC, invece, è sempre una riunione di persone, che però, nei casi di maggiore importanza come un Concilio o un Sinodo, viene chiamata anche “celebrazione”, sia perché il suo scopo ultimo è la gloria di Dio, sia perché ne fa parte integrante un momento liturgico, o comunque di preghiera, che può richiedere una disciplina ad hoc.[11]

Rispetto al regolamento, è previsto espressamente che possano essere adottati dai fedeli (nell'esercizio della loro libertà di riunione: can. 215), senza procedimenti amministrativi di controllo, oppure dall'autorità ecclesiastica, che sarà in genere quella esecutiva. Occorre tuttavia precisare che anche le persone giuridiche possono avere un regolamento, chiamato ad affiancarsi agli statuti per disciplinare più in dettaglio i loro momenti assembleari,[12] e che comunque i regolamenti si possono adottare in pianta stabile, per una serie indeterminata di future riunioni. Soprattutto in questi ultimi casi, non è affatto da escludersi l'intervento del potere legislativo: si pensi all'Ordo per la celebrazione del Sinodo dei Vescovi, di diretta emanazione papale. Anzi, nei due ultimi Concili Ecumenici, il regolamento è stato adottato direttamente dal Papa, in forma di motu proprio, dunque con un atto che si può considerare legislativo, ancorché destinato ad esaurire i propri effetti con la chiusura di quel singolo Concilio.

Statuti e regolamenti disciplinano entrambi costituzione, conduzione e modi di agire, ma i secondo non regolano il fine delle riunioni, che deve essere attinto aliunde, e anche per questo si confermano norma subalterna; inoltre, “mentre i modi di agire di cui negli statuti riguardavano non tanto la procedura, ma la statuizione a livello costitutivo dei legittimi rappresentanti, qui invece si parla di semplice procedura, come quella delle votazioni, delle maggioranze, ecc.”.[13] Inoltre, a livello di prassi, si registra la tendenza a dare il nome di “Statuto” ad una legge particolare relativa ad una serie aperta di associazioni, p.es. le Confraternite, chiamando invece “Regolamento” quello che, a rigor di termini, sarebbe il vero e proprio statuto della singola Confraternita.[14] Si tratta di una deviazione, che muove però da un principio retto, cioè che – quando concorrono a regolar l'attività del medesimo gruppo o ente - “i regolamenti sono un genere di norma inferiore agli Statuti.”.[15]

 

3. La Curia Romana e la disciplina della sua attività

La Curia Romana, ai sensi del can. 360, è un insieme di organismi chiamati ad agire in nome e con l'autorità del Pontefice; “la loro costituzione e competenza vengono definite da una legge peculiare”, com'è sempre stato almeno a partire dalla Immensa aeterni Dei di Sisto V (1588), che sembra il primo inquadramento complessivo di tali organismi. È discusso in dottrina se questa legge possa considerarsi lo “statuto” della Curia stessa, adottato ai sensi del can. 94 §3; come pure è dibattuta, in parallelo, l'esatta natura del Regolamento Generale della Curia Romana. La recente promulgazione di una nuova legge peculiare, la “Praedicate Evangelium”,  ha cambiato poco nei termini del problema, che possono quindi tuttora essere illustrati secondo la dottrina precedente.

Per la tesi affermativa si è schierato, pur con qualche esitazione, de Paolis: “Al rango di statuto sembra si possa e si debba per es. ricondurre la legge che regola le Congregazioni della Curia Romana; in tale legge sono determinati il fine, la costituzione, il governo e i modi di agire degli organismi della Curia Romana.”.[16] Ma questa ricostruzione è problematica: quanto a costituzione e modo di agire, la legge detta, in realtà, norme comuni a tutti i Dicasteri, che peraltro debbono essere integrate, specialmente in punto di procedura, sia dal Regolamento Generale della Curia Romana sia da un Ordo servandus (“Regolamento proprio”) specifico per ciascun ufficio (cfr. adesso gli artt. 43 e 250 della “Praedicate Evangelium”); inoltre, da nessuna parte vi si legge che i Dicasteri abbiano personalità giuridica, o che ve n'è una sola per tutto il complesso della Curia;[17] infine, ma non da ultimo, appare piuttosto difficoltoso descrivere i singoli Dicasteri, e tanto più la Curia nel suo complesso, come universitas o anche come comunità, perché il grosso dell'attività è volto a produrre effetti giuridici su soggetti estranei. Quest'ultimo, a mio avviso, è il più forte argomento in contrario: concesso che la Curia possa avere uno “statuto” nel senso in cui il diritto italiano parla di “statuto dell'imprenditore”, l'assimilazione della sua disciplina al can. 94, oltre ad essere priva di utilità pratica, sembra incompatibile con il can. 94 §2, stante l'importanza delle norme dirette a vincolare proprio i terzi.[18] Si può anche aggiungere che, sebbene le associazioni possano darsi norme interne subordinate agli statuti (cfr. can. 309), la tripartizione delle regole di funzionamento tra legge, Regolamento Generale e Regolamento proprio non appare riconducibile al fenomeno statutario.

A sua volta, il Regolamento Generale della Curia Romana, peraltro emanato dal Romano Pontefice sia pure con rescriptum ex audientia SS.mi, appare difficilmente inquadrabile nello schema del can. 95: “A motivo dell'importanza dell'attività di detta istituzione e delle materie che esso disciplina, il suo contenuto è piuttosto legislativo e, in molti punti, esecutivo della Cost. Ap.” che regge la Curia stessa.[19] Adesso, l'art. 250 della “Praedicate Evangelium” lo distingue dalle norme di carattere esecutorio;  tuttavia, in ambito canonico ciò che più si avvicina ai nostri regolamenti di esecuzione e integrazione è il decreto generale esecutivo e, a meno di non farne un atto sui generis, irriducibile ai tipi codiciali, questa sembra tuttora la sua miglior qualificazione.

Il discorso, invece, può essere diverso per i Regolamenti propri, che possono rientrare nell'ambito del can. 95 se, omesse materie come la costituzione del rapporto di lavoro o il riparto delle mansioni tra le varie figure in pianta organica, si limitano a disciplinare con regole di dettaglio lo svolgimento delle riunioni. In proposito, però, è difficile disporre di dati certi, poiché questi atti non vengono promulgati; il solo a me noto è quello della Camera Apostolica, che costituisce piuttosto una sorta di testo unico delle attribuzioni dei vari uffici operanti all'interno della Camera stessa.

 

Note:

 

[1]    P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 226; cfr. ivi anche la nt. 582, per interessanti considerazioni terminologiche e una rassegna di tutti gli enti o istituti cui il termine statutum si riferisce nel Codice.

[2]    V. de Paolis, Il Libro I del Codice: le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 361.

[3]    P. Lombardía, ad can. 94, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi Complementari commentato, Roma 2020, pag. 119.

[4]    Cfr. E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pagg. 252-4, che elenca numerosi altri esempi di tali norme.

[5]    J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 113; cfr. amplius ibid., pagg. 112-7.

[6]    Naturalmente, queste tesi saranno illustrate in maggior dettaglio quando verrà il momento di illustrare i cann. 113 sgg.; per il momento, basti l'enunciazione degli aspetti rilevanti.

[7]    Contra, tuttavia, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op.cit., pagg. 113-4: “Gli statuti in senso proprio sono dunque le norme fondazionali di un ente e si riferiscono esclusivamente a tale istituzione, per modo che non riguardano, in modo diretto, terzi estranei ad esso. Esse, ciononostante, debbono essere denominate 'norme' generali e astratte: di fatto, sono astrattamente dirette a tutti coloro che appartengono o apparterranno all'ente di cui si tratta. Il grado di generalità e di astrattezza è naturalmente molto minore rispetto a quello di una legge data, per esempio, allo scopo di stabilire le modalità per l'elaborazione degli statuti delle associazioni o delle fondazioni.”. Concedo la nota dell'astrattezza, così intesa; nego, tuttavia, che essa sia sinonimo di generalità.

[8]    Dico “in via diretta”, perché è chiaro che in via indiretta tutti gli statuti “possono anche arrivare ad interessare determinati terzi, nella misura in cui tali statuti definiscano i diritti e i doveri dei membri, o i poteri degli organi o dei rappresentanti nelle loro relazioni ad extra”. E. Labandeira, op. cit., pag. 253.

[9]    V. de Paolis, op.loc.cit.

[10]  Contra, tuttavia, E. Labandeira, op. cit., pag. 254: “Vi sono, quindi, due diversi tipi di regolamenti: quelli di riunioni di persone (concili, sinodi, elezioni, ecc.) e quelli di celebrazioni (ordines o riti di sacramenti e sacramentali).”. Ma il Codice, ai sensi del can. 2, per lo più non si occupa della materia strettamente liturgica e, comunque, i riti approvati hanno forza di legge, mentre i regolamenti previsti dal can. 95 no.

[11]  Quindi, per non fare un esempio l'Ordo che regola le esequie del Sommo Pontefice non è un ordo ai sensi del can. 95, perché concerne solo una serie di celebrazioni liturgiche; lo è, invece, l'Ordo rituum Conclavis, che, sebbene ripeta in massima parte prescrizioni di legge, disciplina con il massimo grado di dettaglio tutto lo svolgimento del Conclave, incluse le procedure di voto. E questo sebbene di entrambi i documenti sia autore l'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie.

[12]  “Così, troviamo alcuni organismi, come, per esempio, il consiglio presbiterale, che devono avere degli statuti che determinano la [loro] costituzione (chi ne fa parte di diritto, quanti sono i membri che devono essere eletti, quante volte deve riunirsi ecc.) e un regolamento che disciplina le relative riunioni (chi le presiede, come si svolgono le votazioni, le modalità per gli interventi ecc.).”. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op.cit., pag. 116.

[13]  V. de Paolis, op.cit., pag. 363.

[14]  Posso attestare questa prassi almeno per l'ambito delle Confraternite e per la Regione Ecclesiastica Ligure, dove gli Statuti delle Confraternite hanno, per giunta, chiaro carattere legislativo, perché istituiscono anche organi di coordinamento intra-confraternale – i Priorati Diocesani – e procedure speciali per i ricorsi amministrativi.

[15]  P.V. Pinto, op.cit., pag. 227, nt. 582.

[16]  V. de Paolis, op.cit., pag. 362.

[17]  Va qui notato che sembra che de Paolis identifichi la communitas capax saltem recipiendi legem con la persona giuridica pubblica, argomentando proprio ex can. 94 §3: cfr. ibid., pagg. 271-2, testo e nt. 5. Inoltre, egli riconosce che la personalità morale che il can. 113 §1 ascrive alla Chiesa e alla Sede Apostolica è qualcosa di diverso dalla personalità giuridica intesa come istituto di diritto umano, perché nasce ex ipsa ordinatione divina, e che perciò “Sede Apostolica”, in quel caso, indica “lo stesso ufficio primaziale del Papa, come successore di Pietro […] soggetto di diritti e di doveri, come organo di rappresentanza della stessa Chiesa […] In questo senso, il significato di Sede Apostolica si discosta un po' da quanto dice il can. 361 […]. La Curia infatti è solo organismo di diritto positivo di aiuto e di collaborazione all'ufficio primaziale.”. Ibid., pag. 390.   

[18]  Non si nega che statuti approvati ai sensi dell'art. 94 §3 possano contenere anche norme che vincolino terzi, cioè che il §3 deroghi al §2; nel caso della Curia Romana, però, le deroghe sembrano così vistose da portare ad escludere una comunanza di base. Si pensi al riparto di competenze, che è vincolante per i fedeli nel momento in cui presentano i ricorsi; alla regolamentazione delle visite ad Limina, vincolante per tutti i Vescovi e soggetti equiparati; ma soprattutto al fatto che l'adozione di provvedimenti con effetto giuridico esterno costituisce attività tipica e principale, sebbene non esclusiva, di ciascun Dicastero.

[19]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op.cit., pag. 117.