La disciplina degli atti giuridici (cann. 124-128)
La disciplina degli atti giuridici (cann. 124-128)
Can. 124 - “§1. Per la validità dell'atto giuridico, si richiede che sia posto da una persona abile, e che in esso ci sia ciò che costituisce essenzialmente l'atto stesso, come pure le formalità e i requisiti imposti dal diritto per la validità dell'atto.
§2. L'atto giuridico posto nel debito modo riguardo ai suoi elementi esterni si presume valido.”
Can. 125 - “§1. L'atto posto per violenza inferta dall'esterno alla persona, cui essa stessa in nessun modo poté resistere, è nullo.
§2. L'atto posto per timore grave, incusso ingiustamente, o per dolo, vale, a meno che non sia disposto altro dal diritto; ma può essere rescisso per sentenza del giudice, sia su istanza della parte lesa o dei suoi successori nel diritto, sia d'ufficio.”
Can. 126 - “L'atto posto per ignoranza o per errore, che verta intorno a ciò che ne costituisce la sostanza, o che ricada nella condizione sine qua non, è nullo; altrimenti vale, se dal diritto non è disposto altro, ma l'atto compiuto per ignoranza o per errore può dar luogo all'azione rescissoria a norma del diritto.”
Can. 127 - “§1. Quando dal diritto è stabilito che il Superiore per porre gli atti necessiti del consenso o del parere di un collegio o di un gruppo di persone, il collegio o il gruppo deve essere convocato a norma del can. 166, a meno che, quando si tratti di richiedere soltanto il consiglio, non sia stato disposto altrimenti dal diritto particolare o proprio; perché poi l'atto valga si richiede che sia ottenuto il consenso della maggioranza assoluta di quelli che sono presenti o richiesto il parere di tutti.
§2. Quando dal diritto è stabilito che il Superiore per porre gli atti necessiti del consenso o del consiglio di alcune persone, come singole:
1) se si esige il consenso, è invalido l'atto del Superiore che non richiede il consenso di quelle persone o che agisce contro il loro voto o contro il voto di una persona;
2) se si esige il parere, è invalido l'atto del Superiore che non ascolta le persone medesime; il Superiore, sebbene non sia tenuto da alcun obbligo ad accedere al loro voto, benché concorde, tuttavia, senza una ragione prevalente, da valutarsi a suo giudizio, non si discosti dal voto delle stesse, specialmente se concorde.
§3. Tutti quelli, il cui consenso o parere è richiesto, sono tenuti all'obbligo di esprimere sinceramente la propria opinione, e, se la gravità degli affari lo richiede, di osservare diligentemente il segreto; obbligo che può essere sollecitato dal Superiore.”
Can. 128 - “Chiunque illegittimamente con un atto giuridico, anzi con qualsiasi altro atto posto con dolo o con colpa, arreca danno ad un altro, è tenuto all'obbligo di riparare il danno arrecato.”
1. Premessa
Il Codice, esaurita la trattazione De personis e prima di intraprendere quelle riferite alla potestà di governo e agli uffici ecclesiastici, ha ritenuto opportuno dedicare i cinque canoni qui in commento (e riportati in epigrafe) alla disciplina generale degli atti giuridici, regolando nell'ordine:
- i requisiti di validità in genere e la loro prova (can. 124);
- il vizio della volontà per violenza irresistibile (can. 125);
- i vizi del timore grave, del dolo e dell'errore sulla sostanza dell'atto (can. 126);
- espressione ed effetti dei pareri e dei consensi (can. 127);
- la responsabilità da atto illecito (can. 128).
Il primo e l'ultimo sono nuovi, mentre gli altri corrispondono ai cann. 103-5 CIC17 e hanno alle spalle una tradizione canonica non disprezzabile.
2. Il concetto di atto giuridico sotteso al can. 124 §1
Manifestando anche in questo caso la ritrosia verso le definizioni che gli è abituale, il Codice sceglie piuttosto di scomporre la nozione di “atto giuridico” nei suoi elementi costitutivi, visti come condizioni di esistenza (can. 124 §1):
- habilitas del soggetto che pone in essere l'atto;
- presenza del contenuto essenziale del medesimo (che è quasi una tautologia);
- forma e requisiti (consensi, pareri...), da intendersi se e in quanto richiesti.
L'assenza di un qualunque riferimento alla volontà o alla causa impone di concludere che il can. 124 §1 sia tanto generale da riferirsi sia agli atti negoziali sia a quelli non negoziali; ciò, tuttavia, crea più di un problema, perché da un lato i vizi previsti nei cann. 125 e 126 i classici vizi della volontà,[1] dall'altro - e soprattutto – il can. 128 prevede che la responsabilità per danno ingiusto sorge dal compimento di un atto giuridico o di qualsiasi altro atto, con dolo o con colpa. Sembra quindi che:
- il can. 124 §1 non comprenda tutti gli atti giuridici, se per tali si intendono quelli produttivi di effetti giuridici, posto che la nascita dell'obbligo di risarcire il danno è senz'altro un effetto del genere;
- un atto non giuridico possa essere posto con dolo o colpa;
- non sia prevista una responsabilità per “fatto” giuridico (cfr. art. 2043 c.c.).
I lavori preparatori non forniscono particolari indicazioni al riguardo[2] e la dottrina non pare essersi soffermata molto sul problema, limitandosi ad affermare che “In quanto atto umano, l'atto giuridico deve essere libero (frutto dell'esercizio dell'intelligenza e della volontà)”[3] o addirittura dando per scontato che gli atti giuridici siano soltanto quelli negoziali, salvo poi inopinatamente restringere il concetto di “negozio giuridico” ai soli atti bilaterali.[4] Sembra quindi opportuno un minimo di chiarimenti: a monte di tutto sta la distinzione della teologia morale tra actus hominis e actus humanus, poiché il primo può essere riferito ad un soggetto ma non è moralmente imputabile perché estraneo a coscienza e volontà, p.es. le reazioni fisiche di puro riflesso, mentre il secondo è posto con coscienza e volontà di porlo. Non vi è dubbio che l'actus iuridicus debba essere una sottocategoria dell'actus humanus e, in questo senso, include un elemento di libera volizione. Tuttavia, a mio avviso questo non basta per identificarlo semplicemente con il negozio giuridico: anche alle dichiarazioni di scienza, infatti, è pur sempre sottesa la volontà di compierle, che però non richiede necessariamente che si vogliano gli effetti giuridici che l'ordinamento non di rado riconnette anche ad esse. Il che, a mio parere, spiega bene perché il can. 124 sia formulato in maniera tanto ampia, ma poi il 125 e il 126 si occupino dei vizi caratteristici degli atti negoziali; del resto, anche una dichiarazione di scienza può essere emessa sia per errore sia per violenza o timore grave, sebbene forse non per dolo, e ce lo conferma il can. 1538 prevedendo per tutte e tre queste ipotesi la nullità della confessione giudiziale. Di regola, però, conta che tali dichiarazioni siano vere e quindi può bastare, per esse, la sola previsione pertinente del can. 126 §1, ossia la nullità per errore sostanziale. Se tuttavia esse richiedono una habilitas, p.es. nel caso in cui debbano riferirsi a persone giuridiche, o qualora siano assoggettate ad una forma determinata, come può essere il caso del giuramento, e così via, allora appare chiaramente come anche ad esse si attagli il disposto del can. 124.
Da quanto precede si ricava altresì, per differenza, quale sia l'atto non giuridico che può comunque dar luogo a responsabilità, ex can. 128: il comportamento materiale, o comunque un actus humanus che di per sé non avrebbe effetti giuridici. L'esempio più facile è l'esecuzione pratica del dispositivo di una sentenza: quest'ultimo è l'atto giuridico, quel che vi fa seguito produce un effetto nella realtà concreta ma non in quella del diritto.[5] Si può aggiungere, però, tutta la vastissima sfera degli atti moralmente indifferenti e anche di quelli che, pur rilevando per la morale, di per sé non producono particolari effetti neppure per l'ordinamento canonico. Così inteso, il can. 128 torna ad assomigliare al nostro art. 2043 c.c., perché viene a ricomprendere tutti i comportamenti della vita quotidiana che acquistano rilievo solo se causano un danno e a patto che intervengano il dolo o la colpa.[6] Invece, il fatto giuridico, appunto perché considerato indipendente dalla volontà dell'uomo, che quindi non può versare né in dolo né in colpa, non dà luogo a responsabilità.[7]
Ci si può interrogare, infine, sullo status giuridico dell'omissione, che non è espressamente disciplinato in questa sede. Non vi è dubbio che la scelta consapevole volontaria di non agire – in qualsiasi contesto maturi o si inserisca – debba essere considerata un actus humanus; la relativa volontà, tuttavia, non è di regola volta a produrre determinati effetti giuridici, fatte salve magari le ipotesi eccezionali di silenzio-assenso, e quindi in genere non si può parlare dell'omissione come di un atto giuridico nel senso sopra visto. Tuttavia, è sicuro che essa rientri tra gli atti che sono fonte di responsabilità, pur con il necessario caveat che, per potersi definire “dolosa” o “colposa”, deve consistere nell'omissione di un comportamento che sia legalmente dovuto. Tanto ci conferma, oltre al can. 1328 sul concorso nel delitto, che prevede entrambe le eventualità del delitto omissivo e del concorso mediante omissione, il can. 57 §3, a proposito della mancata adozione entro il termine previsto di un provvedimento amministrativo che, invece, dovrebbe essere adottato: si tratta senz'altro dell'ipotesi di omissione più importante in assoluto nella vita della Chiesa e il canone è chiarissimo nel fare salvi sia il dovere di provvedere sia la responsabilità per il risarcimento dei danni cagionati. Quest'ultima, anzi, è ribadita anche in sede penale, precisamente dall'odierno can. 1378 §2, che contempla l'unico caso di delitto (anche) colposo previsto dal Codice, ossia l'omissione illegittima di un atto della potestà ecclesiastica, dell'ufficio o dell'incarico. E al riguardo non sembra inutile aggiungere che, se il più delle volte l'amministrazione ecclesiastica è investita di poteri discrezionali e quindi dispone di un ventaglio molto ampio di scelte su “come” provvedere”, non gode tuttavia di discrezionalità quanto al “se” provvedere: il can. 57, a tacer d'altro, rende obbligatorio emettere un decreto ogniqualvolta sia stata presentata una richiesta volta ad ottenerlo, ma non è affatto detto che l'esito possa solo essere un sì o un no rispetto al contenuto specifico della medesima. Ma, trattando delle impugnazioni e dei rimedi esperibili avverso gli atti amministrativi illegittimi, avremo modo di vedere che, nonostante il notevole rigore di queste formulazioni legislative – cui altre ancora si potrebbero aggiungere – in concreto risulta molto difficile far valere in foro canonico la responsabilità risarcitoria dell'amministrazione.
3. Atti invalidi, inesistenti e rescindibili
La distinzione tra nullità e annullabilità, cui tutti siamo avvezzi fin dai primi approcci al diritto privato, in realtà è un prodotto piuttosto recente – frutto della Pandettistica, come tante altre categorie – e non si può dire che abbia trovato il favore generale; così, essa non si trova recepita dal diritto canonico, che non conosce neppure la nostra distinzione tra validità ed efficacia: l'atto invalidus è sempre nullo, o magari addirittura inesistente, e anche inefficace, perché se può ben trovare applicazione de facto, ciò tuttavia non significa (almeno in linea di principio) che produca effetti de iure.[8]Invece, l'atto che noi chiameremmo annullabile è detto dal Codice “rescindibile”[9] e, sotto l'imperio del CIC17, i cann. 1684-9 disciplinavano l'apposita azione rescissoria, esperibile avverso la generalità degli atti e dei contratti, se viziati da dolo, errore o timore (l'azione dichiarativa della nullità era invece prevista ai cann. 1680-3).[10]
In linea di principio, la violazione della legge non comporta invalidità dell'atto: ce lo chiarisce il can. 10, che richiede la menzione espressa di quest'effetto, e lo ribadisce il can. 18 assoggettando le leggi cc.dd. “irritanti” e “inabilitanti” ad interpretazione stretta.[11] L'atto contra legem si considera illecito, come tale fonte di responsabilità morale, nonché risarcitoria ex can. 128, e se del caso anche penale, ma resta valido, tranne nei casi determinati dalla legge, e non è neanche detto che sia rescindibile.[12] Qui, sia detto per inciso, si coglie l'importanza del can. 124 come fattispecie di nullità di ordine generale, soprattutto per quanto riguarda la previsione della nullità per mancanza del contenuto essenziale, che starà all'interprete identificare, ma che grazie a questo canone sappiamo presente e necessario in ogni atto giuridico.
Tuttavia, accanto all'atto valido troviamo il già accennato atto rescindibile.[13] E se le menzioni codicistiche della rescindibilità sono poche (a parte i cann. 125 e 126, se ne parla solo nel can. 149 §2, per i conferimenti di uffici ecclesiastici in favore di persone sprovviste di qualche requisito, nel 1451 §2, per gli atti compiuti dal giudice ricusato, e al can. 1739, tra i poteri di cui è investito il superiore gerarchico nel ricorso amministrativo), deve dirsi che, mentre per i contratti e gli atti non amministrativi aventi contenuto patrimoniale si intende recepito il diritto civile dello Stato che viene in considerazione, per gli atti amministrativi canonici la rescindibilità è rimedio generale atipico, utilizzabile anche per l'atto semplicemente inopportuno: lo chiarisce la sua menzione al can. 1739, testé citato, e lo capiremo meglio studiando la materia dei ricorsi; ma è chiaro che, se si può ricorrere per qualsiasi giusto motivo (can. 1737) e se, dinanzi a un ricorso, il superiore ha sempre il potere di rescinderlo (pur avendone anche altri, in particolare quello di sostituirlo), allora è evidente che qualunque profilo di lesività può fondare una pronuncia rescissoria.[14]
Per quanto riguarda, infine, il caso dell'inesistenza, il canonista deve cimentarsi “con incertezze analoghe a quelle che presenta lo stesso concetto nella dottrina civilistica. Ma vi è un tipo particolare di inesistenza, ben definito nella dottrina canonistica, in materia matrimoniale, e precisamente il caso del matrimonio che 'ne speciem quidem praebet veri matrimonii', che si ha quando i due contraenti sono palesemente dello stesso sesso e quando, essendo obbligatoria la forma canonica di celebrazione, il matrimonio è stato celebrato in altra forma.”.[15] Ma se sul primo esempio non possono sussistere dubbi, posto che parliamo di un ordinamento dove il matrimoniale foedus ha per requisito essenziale l'attitudine almeno astratta della coppa alla procreazione, che è data appunto dalla diversità di sesso biologico (cfr. can. 1055), mi sembra che il discorso debba essere assai diverso per il difetto di forma canonica, perché esso può essere sanato in radice, senza necessità di una nuova prestazione del consenso e con effetto retroattivo (cfr. cann. 1161 sgg.). Anche rispetto alla norma generale del can. 124, ritengo che di inesistenza non possa mai parlarsi per mancanza o difettosità dei sollemnia o dei requisiti, bensì solo del contenuto necessario o, ipoteticamente, per mancanza di un concorso anche minimo della volontà del soggetto.[16] Se poi abbia senso la categoria dell'inesistenza, è un dubbio che ricorre da sempre in tutte le trattazioni teoriche, a qualunque latitudine; nel caso dell'ordinamento canonico, basta il difetto di uno qualunque degli elementi esterni perché l'atto non possa beneficiare della presunzione di validità (cfr. can. 124 §2, a contrario), quindi l'utile impiego della categoria presuppone che si escludano, p.es., il favor iuris di cui gode il matrimonio, la sanabilità o altre disposizioni ritenute applicabili agli atti nulli, ma non agli inesistenti.
4. I requisiti di validità
4.1 La habilitas personae
Si tratta di un requisito ulteriore rispetto alla capacità naturale, anche se probabilmente in questo caso si può ritenere che la includa (la terminologia del Codice non è univoca): si sarebbe tentati di accostarla alla nostra capacità di agire,[17] ma il regime giuridico è differente, perché la inhabilitas in senso stretto si ha solo quando una legge vieta il compimento di uno specifico atto – in generale o a chi non soddisfi certi requisiti - e lo invalida, non però dichiarandolo nullo, ma rendendo il soggetto inabile a compierlo. L'esempio più importante in ambito canonico è senza dubbio la legge sulla forma canonica del matrimonio: la Chiesa, infatti, non ha il potere di invalidare il consenso sacramentale, quindi, per ovviare alla piaga dei matrimoni clandestini, è intervenuta “a monte”, sulla persona dei contraenti, rendendoli inabili a contrarre, dunque ad esprimere una valida manifestazione di volontà.[18] Nel can. 124, habilitas va intesa in senso lato, come diritto di porre l'atto in questione, ma - per una scelta esplicita documentata dai lavori preparatori - non include la competenza, che pure era stata inizialmente menzionata in modo espresso[19] e ora rientra tra i “requisiti”;[20] almeno quand'è un requisito di validità, perché in ambito giudiziale all'uopo si distingue tra incompetenza relativa ed assoluta. La habilitas dunque, se intesa in senso stretto, si deve intendere come assenza di una norma inabilitante anche non scritta (consuetudine, diritto divino); se in senso lato, deve includere altresì la sussistenza della capacità – giuridica, di agire e/o naturale, salvo che non si preferisca includere qualcuna delle tre, o anche tutte, alla voce “requisiti”, che però pare riferita ad elementi obiettivi ed estrinseci tanto all'atto quanto al soggetto - la titolarità dei poteri rappresentativi e, se si tratta di un atto pubblico, almeno quella dello stesso tipo di potestà (legislativa, amministrativa, giudiziale) richiesto per l'atto de quo. Per quanto appena detto, sembra preferibile la lettura in senso ampio, comprensivo di tutti i tipi di capacità.
4.2 Contenuto essenziale e causa
Chi, come me, ritiene che il can. 124 si applichi anche alle dichiarazioni di scienza e non ai soli atti negoziali trova perfettamente sensato che il disposto legale non contempli il requisito della causa, che, proprio per il suo carattere teleologico, ha senso solo per le manifestazioni di volontà; comunemente però la dottrina, soprattutto la più incline a recepire e conclusioni della Pandettistica, ritiene che anche questo requisito sia necessario e, a mio avviso, l'opinione è compatibile con il dettato del canone, almeno nella misura in cui risolve la causa in un problema di contenuto: dopotutto, dire che la causa della compravendita è lo scambio di un bene contro un prezzo significa dire che l'oggetto del contratto deve contenere un diritto su un bene, un prezzo e il relativo sinallagma.[21] Nei provvedimenti, il tema della causa rileva a due scopi distinti, la qualificazione e il riscontro di un possibile vizio di sviamento del potere, ma in entrambi i casi si tratta pur sempre di indagare sul contenuto obiettivo dell'atto, perché bisogna ricostruirne la c.d. causa in concreto. In verità, è dubbio che il concetto di causa giuridica abbia una propria utilità in ambito canonico, soprattutto in una sede generalissima come la teoria degli atti giuridici, e tanto più tenuto conto che la materia contrattuale è retta dalle legi civili dell'intero orbe; forse, una sua ipotetica utilità potrebbe consistere nel fungere in qualche modo da “controlimite” al loro recepimento indiscriminato, ma il tema non può essere approfondito in questa sede (e comunque non sembra che occorrano aggiunte al can. 22).[22]
Ci si può chiedere se sia uno degli elementi costitutivi essenziali ex can. 124 o un quid aggiuntivo che si ricava a contrario dal can. 125, ma non c'è dubbio per la validità dell'atto sia necessaria anche la volontà, riferita e diretta almeno ai dati oggettivi necessari del medesimo;[23] di fatto, però, essa si presume sempre, ai sensi del can. 124 §2, e finisce per rilevare solo nel momento in cui qualcuno fa valere un suo vizio, sicché la sua trattazione si risolve in quella di tali vizi.
4.3 Forma e requisiti
“Le solennità riguardano direttamente l'atto stesso nel suo porsi”, sono dunque le forme prescritte ad substantiam; “I requisiti invece, sono elementi necessari previ o seguenti all'atto giuridico.”.[24] A parte gli effetti della canonizzazione delle leggi civili, il diritto canonico ricorre con larghezza alle forme scritte, ma raramente ad substantiam:[25] p.es. il can. 37 enuncia un obbligo di affidare allo scritto (“scripto est consignandus”) l'atto amministrativo che deve produrre effetti in foro esterno, ma la stessa espressione usata dal legislatore sottintende che esso sia già perfetto anche se esternato a voce; anzi, non solo non vi è una clausola invalidante, ma neppure una stretta necessità ad probationem, perché la giurisprudenza ha ritenuto che l'atto orale, oltre ad esser valido, possa anche provarsi con mezzi diversi dallo scritto. Ciò si spiega con un'altra particolarità dell'ordinamento canonico: il detto biblico “sulla bocca di due o tre testimoni si stabilisca ogni cosa” (Dt 19,15; Mt 18,16) è stato interpretato e applicato in senso giuridico-processuale, cosicché la presenza di due testimonianze concordi va quasi sempre reputata sufficiente per la prova piena e non di rado si considera equivalente alla scrittura (cfr. p.es. il can. 55 sulla notifica dei decreti, il 189 §1 in tema di rinuncia all'ufficio, i cann. 875-7 sulla prova del Battesimo, dove addirittura basta un testimone soltanto). Anzi, può essere il caso di rammentare che, pur quando viene canonizzato il diritto civile, la prova dei contratti per testimoni è sempre ammessa (cfr. cann. 1290 e 1547). Quindi, se esiste un indubbio favore per il principio Scripta manent – basti pensare all'importanza anche pratica dei libri parrocchiali di cui al can. 535 – è raro che la forma scritta sia necessaria alla validità stessa di un atto; diverso il discorso per quanto riguarda la prova, perché ad es. rispetto ai responsi della Sede Apostolica rilevano perfino certe particolarità materiali del documento – come l'impiego o meno della carta filigranata con le chiavi decussate in trasparenza – che fungono da signa authenticitatis e la cui mancanza induce quindi il sospetto, se non proprio la presunzione, che l'atto giuridico che ivi si vorrebbe documentare sia falso.
Nondimeno, vi sono casi in cui un documento è necessario, se non altro nel senso che la sua mancanza produce l'arresto di tutta una sequenza procedimentale: si pensi a quelli che occorrono per il matrimonio, senza i quali non si può dar corso alle pubblicazioni, o al caso meno noto ma analogo dei promovendi agli Ordini sacri, che hanno bisogno dei vari documenti elencati al can. 1050, difficilmente surrogabili da atti verbali atteso il loro contenuto (mentre quest'ipotesi è già più sensata per gli attestati di cui al can. 1051). In altri casi, l'assenza del documento scritto cambia la situazione giuridica, ma non negli stessi modi della nullità: un sacerdote che si presenta presso una chiesa non affidata a lui con l'intento di celebrarvi deve esibire il c.d. Celebret, una sorta di attestato di buona condotta rilasciato dal suo Ordinario, non più tardi di un anno prima; altrimenti sta al rettore di quella chiesa valutare se si possa prudentemente ritenere che egli non sia incorso in alcun impedimento canonico che osti alla celebrazione (can. 903). Ciò equivale a dire che il Celebret è un atto formale, che deve essere rilasciato per iscritto, altrimenti non spiegherà il proprio effetto tipico; ma se immaginiamo che l'Ordinario, raggiunto al telefono da un rettore molto zelante, gli confermi che va tutto bene con don Tizio, è evidente che il risultato sarà raggiunto in ogni caso. E abbiamo già esaminato il can. 54, con gli importanti effetti che derivano dalla scelta di non intimare un precetto per iscritto, ma solo a voce.
Per quanto concerne gli atti negoziali, il campo forse più caratteristico del diritto canonico, ossia le pie volontà inter vivos o mortis causa, vede trionfare la libertà delle forme, con una semplice raccomandazione di seguire quelle eventualmente previste dal diritto civile; diversamente, in ambito patrimoniale valgono le leggi dello Stato, con l'interessante precisazione che, quando si tratti di alienare beni ecclesiastici, il Codice non si preoccupa di prevedere la forma scritta, ma un sistema di autorizzazioni che potrebbero, in teoria, anche essere date oralmente (salvi i problemi di prova), ma richiede che sia redatta per iscritto, sia pure senza clausola invalidante, la perizia di stima (can. 1293 §1 n. 2°). La forma scritta domina invece, com'è ovvio prima ancora che giusto, nel campo del processo; ma la domanda giudiziale può essere presentata in forma orale e trasfusa in atto notarile, che tiene luogo dello scritto (can. 1503). La sentenza, invece, riveste necessariamente forma scritta a pena di nullità, se non proprio di inesistenza, perché non ha valore se non viene pubblicata e la pubblicazione si fa – sempre e solo – mediante consegna o notifica di una copia (cfr. cann. 1614 e 1615, nonché 1622 n. 3°, circa la sua nullità per mancanza delle firme previste dal diritto).
I requisiti (requisita iure ad valorem actus imposita) sono tutti gli altri elementi, non compresi nelle categorie viste fin qui, imposti dal diritto per la validità di un atto. Si tratta soprattutto di autorizzazioni previe, consensi, pareri o approvazioni successive: p.es. il già ricordato sistema di licenze necessarie per le alienazioni di beni ecclesiastici, che in Italia per giunta è necessario ad valorem anche per la legge statale. Il can. 127 disciplina, con norma sussidiaria, la procedura da seguirsi per l'espressione di consensi e pareri (v. infra, §6) e ciò esaurisce le possibilità stesse di regolamentazione generale per quella che già di suo è una categoria de residuo.
5. I vizi della volontà
La disciplina dettata dai cann. 125 e 126 ha subito solo qualche cambiamento redazionale rispetto al CIC17 e affonda le proprie radici nella ricca tradizione del diritto delle Decretali, specialmente del Titolo X.1.40, De hi quae vi metusve causa fiunt. La distinzione fondamentale corre tra la vera e propria coercizione, la violenza fisica cui è impossibile opporre resistenza e che elimina completamente la volontarietà dell'atto, e la violenza morale o il timore grave e ingiusto incusso dall'esterno, i quali esercitano una pressione indebita, ma non eliminano la volontarietà:[26] nel primo caso l'atto è nullo per lo stesso diritto naturale, appunto perché non può considerarsi volontario,[27] ma negli altri si deve affermare che in sé stesso è valido – a meno che non si sia scatenato un panico tale da togliere lo stesso uso di ragione - però il diritto canonico accorda la rescindibilità, anche d'ufficio, e prevede la nullità in alcuni casi particolarmente sensibili, tra cui il matrimonio, la professione religiosa, la rinuncia ad un ufficio o il voto nelle elezioni, la sentenza giudiziale (cfr. cann. 172, 188, 656 e 658, 1103, 1620 n. 3°).[28] Tuttavia, è possibile che l'atto inizialmente posto per violenza o timore sia poi ratificato e divenga così volontario, se nel frattempo è cessata la causa della violenza o del timore, nel qual caso non si farà luogo né a nullità né a rescissione.
Bisogna giustamente considerare che colui che agisce sotto violenza morale o timore grave, anche ingiusto, compie pur sempre una scelta tra l'atto che gli si vuole far compiere e la minaccia prospettata; la scelta implica di per sé una volontarietà e per questo il rimedio giuridico, che sia la rescindibilità o la più radicale irritazione dell'atto, è accordato solo in caso di violenza o timore incussi (dall'esterno e) ingiustamente, perché allora esso si configura anche come rimedio all'ingiustizia commessa dall'autore della minaccia, soprattutto laddove egli stesso sia la controparte dell'atto che ha voluto che si compisse. Non è comunque necessario che la violenza o il timore siano stati incussi proprio al fine di ottenere l'assenso e, in più, possono provenire anche da un terzo.[29]
Invece, per quanto concerne l'ignoranza e l'errore, la riflessione dei canonisti si è sviluppata soprattutto in ambito matrimoniale,[30] dove si pongono problemi specifici, ma ha altresì recepito il portato della tradizione romanistica, per quanto relativo soprattutto ai contratti. In effetti, riguardo all'errore che investe la sostanza dell'atto, per un verso non si fa che recepire l'elaborazione in tema di aliud pro alio, ma per altro si attribuisce in modo espresso la conseguente invalidità allo stesso diritto naturale; e lo stesso viene detto per l'errore su qualcosa che il singolo contraente ha soggettivamente posto come conditio sine qua non del proprio consenso.[31] Le due ipotesi esauriscono, a ben vedere, i possibili casi di errore determinante e da ciò segue, a contrario, l'irrilevanza di quello incidente, a meno che non soccorra l'azione rescissoria (e salva la disciplina del can. 1616 sulla correzione di errore materiale); dal canto suo, l'ignoranza ossia il “non aver idea”, pur essendo diversa dall'“avere un'idea sbagliata”, di fatto si risolve in errore sia perché è quasi impossibile non aver proprio nessuna idea riguardo a quel che si sta facendo, sia perché comunque la mancata percezione di un elemento falsa il quadro complessivo tanto quanto la sua rappresentazione falsata.
Va ancora considerato che l'errore irritante può cadere sia sul fatto sia sul diritto, ma con le significative precisazioni apportate dal can. 15: salva l'espressa disposizione contraria, le leggi irritanti e inabilitanti operano a prescindere dal fatto che qualcuno ne ignori l'esistenza o il carattere (§1); non così invece, può essere il caso di notarlo, le leggi penali, dove l'errore o l'ignoranza scusano dalla pena se incolpevoli, attenuano la responsabilità se colpevoli, con il solo limite dell'ignoranza crassa, supina o affettata (cfr. cann. 1323-5); non si presumono però mai l'ignoranza o l'errore circa la legge, o la pena, o su un fatto personale proprio, o notorio di altri; si presumono invece, iuris tantum, sul non notorio di altri (can. 15 §2). L'importanza di questa disposizione non ha davvero bisogno di essere rimarcata: opera anche nelle materie canonizzate, perché il can. 22 (come il 1290 in ambito contrattale) fa salva la disciplina canonica applicabile, e quindi l'autore di un atto, come pure ognuno dei contraenti, è sempre assistito da una presunzione legale di ignoranza del “fatto altrui”, espressione ampia che include un po' tutte le qualità personali oltreché le azioni, ma con l'avvertenza che si considera notorium iuris, anche se forse sconosciuto in concreto, il fatto accertato dall'autorità in una sentenza o in altro provvedimento formale;[32] e si deve probabilmente comprendervi anche tutto ciò che possa essere conosciuto tramite pubblici registri, perché sembra difficile considerarlo “proprio” di una persona e perché la presunzione di ignoranza è un'eccezione. Questo spiega perché, nelle richieste di provvedimenti di favore, il richiedente sia tenuto ad esplicitare tutti gli elementi reputati necessari dalla legge o dalla prassi della Curia Romana; ma, in sede precontrattuale, non dissimile deve essere la diligenza nel rendere e richiedere dichiarazioni su tutto ciò che potrebbe rilevare ad valorem actus.
Infine, il dolo è accomunato dal legislatore al metus, sia topograficamente sia nel senso che per entrambi è previsto il solo rimedio della rescindibilità, ma a rigor di logica si dovrebbe piuttosto dire che è un caso particolare di errore e precisare, di conseguenza, che si considerano sotto quest'angolo visuale i soli casi in cui non vi è nullità per essere stato indotto un errore determinante. Almeno in ambito contrattuale, poi, la rescindibilità appare da ammettersi anche per il dolo incidente, quante volte abbia influito p.es. sull'entità del prezzo.
6. Pareri e consensi
Il can. 127 regola in via generale la procedura da seguirsi per l'espressione di un consenso, oppure di un parere obbligatorio ma non vincolante (il parere facoltativo non è contemplato, ma ritengo che debba intendersi incluso per analogia, quando di fatto venga richiesto)[33] da parte di un collegium, o comunque di un gruppo di persone che agisca come tale (§1), o invece di uno o più singoli (§2).[34]
Tutti indistintamente gli interpellati sono tenuti ad esprimere la propria opinione o intenzione con sincerità, nonché ad osservare il segreto se la serietà dell'argomento lo richieda (§3), come ad es. nei procedimenti penali o disciplinari o in tutti i casi in cui potrebbe essere messa a repentaglio la buona fama di qualcuno, o comunque seguire altro notevole danno ingiusto. L'obbligo di richiedere il consenso o il parere è assistito da clausola irritante solo quando riguardi persone singole, ma la prescrizione, quanto ai pareri, di non discostarsi dal loro giudizio, soprattutto se concorde, senza una ragione prevalente è ritenuta estensibile per analogia anche al caso in cui l'attività consultiva provenga dal collegio o dal gruppo.[35]
Quanto poi alla procedura, è obbligatorio convocare tutti i membri del collegio o gruppo (salvo che il diritto particolare o proprio disponga altrimenti nel caso dei pareri, e in esso soltanto); per la validità dell'atto si richiede che il consenso sia espresso dalla maggioranza dei presenti[36] e che il parere sia stato richiesto a tutti, a prescindere da quanti poi si esprimano effettivamente (anche se pare ovvio che la richiesta debba pervenire a ciascuno entro un tempo utile, da stimarsi secondo la gravità e la complessità dell'affare). Una procedura specifica non è invece prescritta, né avrebbe molto senso, quando gli interpellandi sono alcuni singoli: è dunque possibile, in teoria, perfino il semplice ascolto verbale, anche se l'esigenza di dimostrare che l'atto è stato posto ritualmente quanto agli elementi esterni ed è, quindi, presuntivamente valido (can. 124 §2) suggerisce di redigere un contestuale processo verbale o comunque un atto scritto che incorpori la sostanza del parere o del consenso.
La Pontificia Commissione interprete, con responso 14 maggio 1985, ha chiarito che, se il Superiore che richiede un atto di consenso è anche il preside del collegium o coetus chiamato ad esprimersi (ipotesi frequente nelle comunità religiose), non può dirimere la parità dei suffragi e nemmeno votare.[37] Questo ha creato problemi, tuttavia, per i non pochi istituti religiosi in cui il Superiore e il Consiglio formano un'unità, perché i consiglieri, ad onta di un nome un po' riduttivo, godono di vera potestà delegata e “partecipano agli atti del superiore in maniera più intensa, senza per questo minimamente compromettere la sua autorità personale”;[38] dopo qualche incertezza ha prevalso il rispetto del loro diritto proprio, ma con l'avvertenza che il Superiore che vota non dirime la parità.
7. Responsabilità e danno
Se il presupposto del can. 128 è già stato esaminato al §2, bisogna spendere qualche parola sul danno ritenuto risarcibile, perché il testo legale è muto al riguardo. Il motivo di un silenzio che sorprende senz'altro il civilista (che si aspetterebbe almeno qualche cenno al nesso causale, al danno emergente, al lucro cessante...) è che l'argomento è stato ben sviscerato dalla teologia morale nel trattato De restitutionibus, che per antonomasia si riferisce al dovere di restituire in natura il bene materiale sottratto, ma nella sua effettiva portata comprende l'obbligo di riparare i danni arrecati a tutti i diritti altrui, compresi quelli a beni immateriali come la reputazione, e ciò come condizione necessaria per la salvezza eterna.[39] Vi è, dunque, un corpus ben definito di regole e princìpi che, per la loro diretta attinenza alla salvezza dell'anima, prevarrebbero anche su eventuali disposizioni contrarie e, a maggior ragione, possono colmare una lacuna codicistica che è solo apparente, in quanto godono senz'altro della forza da riconoscersi, se non al diritto divino stesso, almeno alla communis opinio.
L'obbligo di riparazione può assumere forme anche molto diverse da quella pecuniaria, che in effetti si deve considerare recessiva rispetto alla reintegrazione del bene giuridico leso: p.es. il matrimonio riparatore era, e in taluni luoghi può essere ancora, il mezzo con cui l'uomo reintegrava la reputazione della donna, da lui ingiustamente lesa mediante il coito fornicatorio (o peggio, lo stupro), “rimettendola all'onor del mondo”. Al di là di questo caso particolare, il catalogo dei diritti di cui ai cann. 204-31 offre quantomeno un buon punto di partenza delle situazioni tipicamente canoniche da cui può derivare un obbligo del genere; in che modo poi si possa attuare, di volta in volta, il precetto di ristabilire chi è stato leso nello status quo ante, o comunque nella situazione che gli spetta, non può che dipendere dai diversi casi. In ambito economico-patrimoniale, a parte le vere e proprie restituzioni di refurtiva, beni oggetto di appropriazione indebita e simili, tiene banco per forza di cose il rimedio per equivalente, comprensivo dei frutti in caso di possesso di mala fede, nonché del lucro cessante; per la tutela della reputazione appare sufficiente che ci si adoperi per il ristabilimento della verità, con un'energia almeno pari a quella spesa per lederla; ma quid se si leda, p.es., il diritto del fedele di rendere culto a Dio (can. 214)? Non sembra che esso si possa ristabilire nello stesso modo della reputazione: non è una qualità personale che si perde e si recupera, è un diritto ciascuna lesione del quale fa storia a sé, quindi la cessazione della condotta antigiuridica, per benvenuta che sia, evita nuovi danni senza però rimediare ai vecchi. Possibili vie di uscita sembrano l'offerta di occasioni maggiori di culto divino in futuro, o di suppellettili, accessori, prestazioni di cantori..., per rendere più solenne qualche singolo atto; o una qualunque attività agevolativa che metta il danneggiato, pro futuro, in una condizione migliore di quella in cui si troverebbe altrimenti, rispetto all'esercizio di questo diritto. Resta però la difficoltà di stimare l'equivalenza, in special modo data la disomogeneità che corre, poniamo, tra una Messa impedita ed una abbellita, ma che si sarebbe celebrata comunque. Come minimo, la restituzione deve protrarsi per un numero di atti di culto equivalente a quelli impediti e migliorare la qualità di quelli futuri ad un punto tale che, secondo la percezione comune o, se difforme, secondo quella dell'interessato si possa dire che egli fruisce di un vero aliud pro alio, in senso positivo.
[1] Si pensi ad un Parroco che rilascia un certificato sul contenuto dei registri parrocchiali perché costretto da vis et metus: se il certificato attesta comunque il vero e non il falso, la volontà di rilasciarlo era viziata, però questo non inficia in alcun modo il valore giuridico della dichiarazione (cfr. anche infra nel testo).
[2] L'attuale can. 124 fa il proprio esordio, come can. 112, nello Schema canonum De normis generalibus del 1974, rist. in Communicationes 23 (1991), pagg. 72-107, ma non risulta discusso nelle sei sedute del Coetus corrispondente: lo Schema canonum De actibus iuridicis è stato discusso, infatti, dal Coetus De personis, in precedenza intitolato alle questioni speciali del Libro II, alla Sessio III del 5-9 novembre 1968 – in Communicationes 21 (1989), pagg. 137-64 - dove è interessante notare che non si vede ancora traccia del canone definitorio, ma si dice che “Uti patet in canonibus sermo est de negotiis iuridicis, idest de actibus qui ponuntur ut effectus iuridicus producatur. Actus ergo iuridicus hic intelligitur uti negotium iuridicum, non ut simplex factum iuridicum (quod, iuxta notam distinctionem quae in doctrina canonica fit, ponuntur absque voluntate effectus iuridicos producendi).” (pag. 152); al termine della Sessio è proposta la prima formulazione dell'attuale can. 128; la nostra disposizione fa invece capolino all'interno della successiva Sessio IV, del 25-28 marzo 1969 – in Communicationes 21 (1989), pagg. 165-204 - in un contesto dominato dalla preoccupazione di definire bene in via generale i casi di nullità.
[3] E. Molano, Commento al Lib. I Tit. VII – De actibus iuridicis, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pagg. 138-42, qui sub can. 124, pag. 139.
[4] Cfr. V. de Paolis, Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pagg. 235-497, qui 405, testo e nt. 1. molto diversamente, ma sotto il vecchio Codice, P. Ciprotti, s.v. Atto giuridico (dir. can.), inEnciclopedia del Diritto vol. IV, Milano 1959, pagg. 214-20, qui 214: “È peraltro da rilevare che nella dottrina canonistica non è molto netta la distinzione tra negozi giuridici e gli altri atti giuridici leciti; onde, soprattutto in un'esposizione della dottrina generale degli atti giuridici, è preferibile fare una trattazione unitaria, comprendendovi cioè anche quei punti che i civilisti usano trattare con riferimento ai soli negozi giuridici.”.
[5] Tranne forse l'estinzione dell'azione esecutiva.
[6] Si noti che la punteggiatura chiarisce che il requisito del dolo o della colpa è previsto per i soli atti non giuridici, il che a contrario parrebbe configurare una sorta di responsabilità oggettiva per quelli giuridici. Cfr. tuttavia in senso contrario V. de Paolis, op.cit., pag. 421, secondo cui tale specificazione vale anche per essi, in quanto “è già contenuta nell'avverbio 'illegitime' ed è pertanto presunta nella stessa violazione della legge (cfr. can. 15 §2).”. A mio parere, però, dovendosi qui fare riferimento almeno analogico ai concetti di dolo e colpa propri del diritto penale canonico, non è corretto invocare un elemento negativo come il can. 15 §2 secondo cui l'ignoranza o l'errore circa la legge non si presumono, o perlomeno bisogna integrarlo con un criterio positivo, la presunzione che l'elemento soggettivo sussista se è posta la condotta vietata (can. 1321 §4). Contra, invece, nel senso della non necessità di dolo o colpa, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pagg. 223-4.
[7] Cfr. V. de Paolis, op.cit., pag. 407.
[8] Neppure può darsi l'ipotesi inversa, cioè dell'atto valido ma non ancora efficace: un atto dove qualcuno dei requisiti sia in pendenza non sarebbe ancora “perfetto” e dunque non soddisferebbe ancora i criteri del can. 124. cfr. P. Ciprotti, s.v. Invalidità (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto vol. XXII, Milano 1972, pagg. 622-5, qui 622-3, analisi condotta sotto il precedente Codice ma tuttora attuale.
[9] Di conseguenza, V. de Paolis, op.cit., pag. 406. può riassumere: “L'ordinamento canonico distingue atti giuridici validi ed invalidi o nulli,efficaci ed inefficaci. Non esiste in pratica una distinzione tra valido ed efficace ed invalido ed inefficace. […] Un atto invalido o inefficace può essere esistente, se vi sono gli elementi costitutivi essenziali; ma non produce l'effetto per l'esistenza di una legge irritante o inabilitante, o per la mancanza di un requisito richiesto per la validità o efficacia dell'atto stesso.”.
[10] La lesione, purché ultra dimidium e grave (quindi non per pretese di lieve entità), fondava il rimedio della restitutio in integrum, a volte concorrente e altre sussidiario rispetto all'azione rescissoria, ma mai del tutto autonomo nei presupposti, perché il can. 1684 esigeva che il soggetto leso “[avesse] ignorato, al momento dell'atto, la lesione” (P. Ciprotti, s.v. Invalidità, cit., pag. 625). Oggi, di restitutio in integrum si parla solo come rimedio straordinario avverso le sentenze (cfr. can. 1645) e non è più prevista una disciplina specifica codicistica dell'azione rescissoria come tale; è stato invece regolato in modo assai più ampio il suo caso più importante, ossia il ricorso avverso gli atti amministrativi.
[11] Questo anche se la Regula Juris in VI n. 64 recitava “Quae contra ius fiunt, debent utique pro infectis haberi” e nello stesso senso si esprimeva S. Gregorio Magno in C.25 q.2 c. 13: il can. 11 del CIC17, antesignano dell'attuale can. 10, non ha precedenti nell'apparato dei Fontes perché risolve il contrasto manifestatosi nel diritto anteriore tra questi princìpi e X.3.31.16, Ad Apostolicam Sedem, dove Innocenzo III ha enunciato il principio opposto, che ha infine prevalso: “multa fieri prohibentur, quae, si facta fuerint, obtinent roboris firmitatem.”.
[12] Cfr. V. de Paolis, op.cit., pag. 407.
[13] Soprattutto sotto il vigore del vecchio Codice, la dottrina ha talora parlato di “nullità latae sententiae” e di nullità ferendae sententiae”, includendo in quest'ultima categoria, oltre agli atti rescindibili, anche quelli che, essendo assistiti da favor iuris, debbono essere considerati validi fino alla sentenza definitiva di segno opposto, p.es. il matrimonio. Ma la nullità esiste sempre ab origine e la pronuncia ha solo carattere dichiarativo, mentre la rescindiilità è – almeno per gli atti amministrativi – rimedio generale atipico, quindi non rispondente al can. 10.
[14] La situazione è diversa, tuttavia, quando dal ricorso gerarchico si passa a quello giudiziale, che presuppone un vizio specifico, la violazione di legge in procedendo vel in decernendo: la giurisprudenza della Segnatura Apostolica tende a circoscriverlo alla sole ipotesi di vera e propria invalidità, sebbene a rigore la normativa non preveda affatto una simile restrizione (ma va detto che il concetto di illegitimitas, nell'ambito del processo in Segnatura, non uò comprendere il c.d. merito amministrativo e quindi molte leggi dotate di clausole vaghe o elastiche, comportando un giudizio discrezionale, quasi mai possono dirsi violate nel senso rilevante per il Supremo Tribunale).
[15] P. Ciprotti, s.v. Invalidità, cit., pag. 624. Curiosamente, Ibid., al paragrafo successivo, l'A. stesso indica la sanabilità tra i fattori che portano a considerare un atto non inesistente e neppure nullo, ma solo annullabile, e fa proprio l'esempio del matrimonio annullabile o sanabile, per parlando anche di “nullità relativa”.
[16] Nello stesso senso E. Molano, op.loc.cit.: “Tra i diversi requisiti, si distinguono quelli che attengono all'essenza o natura dell'atto e che sono suoi elementi costitutivi, da quegli altri che sono richiesti dal diritto positivo per la sua validità. Se mancano gli elementi costitutivi o essenziali, l'atto è invalido perché è privo di esistenza (atto inesistente). Così, in quanto atto umano, l'atto giuridico deve essere libero […] e deve avere un oggetto adeguato (che la dottrina giuridica chiama causa e che è il risultato sociale perseguito); mancando la volontà o l'oggetto essenziale, l'atto sarebbe inesistente.”.
[17] Come si può dire che abbia fatto P. Ciprotti, s.v. Atto giuridico (dir. can.), cit., pag. 215, per il quale tuttavia il termine habilitas assomma in sé tanto la capacità giuridica quanto la capacità di agire; inoltre, Ibid., pag. 216, egli rileva che il linguaggio del vecchio Codice impiega spesso questo termine per indicare la legittimazione, che nella sua ottica include la titolarità di giurisdizione anche supplita.
[18] Contra V. de Paolis, op.cit., pag. 280, che ritiene che, secondo l'attuale can. 1108, l'obbligo di forma canonica sia una legge irritante; ma l'interpretazione deve tener conto dell'antecedente normativo, il decreto Tametsi. Invece, Ibid., pag. 407, semba dell'avviso che vada considerato esempio di norma inabilitante di diritto divino l'impedimento matrimoniale di impotentia coeundi perpetua; propenderei semmai per la legge irritante.
[19] Perché, nel pensiero del Consultore proponente, la habilitas riguardava l'atto privato e la competentia l'atto pubblico, cfr. Pontificia Commissione per la Riforma del Codice di Diritto Canonico, Coetus De personis, Sessio V, cit., pag. 171: “si actus positus est publicus, persona quae eum ponit debet esse competens, si privatus, habilis. Ideo textus esset: « Validus est actus iuridicus a persona habili vel competenti positus, nisi in eo deficiant... », ubi — uti dictum est — verbis «persona habili» indicantur actus privati dum verbum «competenti» publicos actus indicai.”.
[20] Cfr. Pontificia Commissione per la Riforma del Codice di Diritto Canonico, Relatio complectens synthesim Animadversionum ab Em.mis atque Exc.mis Patribus Commissionis ad novissimum Schema Codicia Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a Secretaria et Consultoribus datis, Roma 1981, pag. 36, ad can. 121: “Habilitas in canone intellegitur sensu lato, scil, habere ius ad actum de quo agitur. [...]. Tamen ne confusio detur inter ea quae ad validitatem actus requiruntur et habilitatem personae, supprimuntur verba «et competenti».”
[21] Per il suo tenore generalissimo, il can. 124 è compatibile solo con la causa in senso astratto; ma d'altronde, la causa in concreto difficilmente potrebbe dar luogo a mancanza del contenuto essenziale.
[22] P. Ciprotti, s.v. Atto giuridico (dir. can.), cit., pag. 216, nota che in ambito canonico il tema della causa è poco studiato e aggiunge: “Un caso evidente di nullità per mancanza di causa si ha nella assoluzione sacramentale che venisse impartita a chi non avesse confessato, neanche implicitamente, alcun peccato”, ipotesi che in teologia si chiamerebbe piuttosto “mancanza di materia del Sacramento”, appunto i peccati confessati: ha poco senso includere gli atti sacramentali tra quelli de quibus, a mio avviso, e sebbene sia vero che, se nulla è stato confessato, l'assoluzione non può raggiungere il proprio scopo, più che di difetto di causa parlerei semmai di mancanza di oggetto, con una terminologia che, oltretutto, sarebbe anche più vicina a quella dei teologi.
[23] Quanto all'aspetto psicologico, l'intenzione può non essere attuale, ma deve essere almeno virtuale e non soltanto interpretativa (“Avrebbe voluto se avesse saputo”): cfr. V. de Paolis, op.cit., pag. 408, nt. 4.
[24] V. de Paolis, op.cit., pag. 408. Non mi sembra, invece, compatibile con il tenore letterale del can. 124 §1 l'ulteriore affermazione – Ibid., pag. 409 – secondo cui il requisito può anche aggiungersi dall'esterno come causa di invalidità, p.es. la simonia concomitante all'atto: perlomeno nel caso della provvista di uffici (can. 149 §3), si deve piuttosto pensare ad un'inidoneità colpevole del nominato. Se invece pensiamo alla nullità della rinuncia che avviwne per simonia (can. 188), a mio avviso è viziata la causa concreta dell'atto.
[25] Anzi, talvolta supera i requisiti di forma previsti dal diritto civile: cfr. can. 1299.
[26] Se però la violenza, ancorché psicologica, fosse tale da indurre un vero e proprio panico ed eliminare del tutto la volontarietà dell'atto, sarebbe equiparata alla fisica. Cfr. Pontificia Commissione per la Riforma del Codice di Diritto Canonico, Coetus De normis generalibus, Sessio III, cit., pag. 153.
[27] Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. II – De personis, Roma 1943, pag. 45: “Nimis evidens est acts quoslibet et negotia per vim sive coactionem absolutam gesta ex ipso iure naturae esse nulla et irrita. Nam huiusmodi vis absoluta in eo, qui illam patitur, ipsam substantiam proprii et liberi consensus, sine quo actus vere humanus et legitimus exsistere nequit, omnino tollit, ideoque eam patiens etiam ab omni culpa et poena excusatur.” (In X.1.40.5, Sicut, Innocenzo III applicava appunto la distinzione alla scomunica).
[28] Va peraltro notato che i fontes del CIC17 richiamano i cc. 2-5 di X.1.40, non però il c. 1 di Alessandro III, Perlatum est, che dichiarava nulla la professione religiosa emessa dalla donna che il marito voleva far uccidere, ma che i soldati incaricati dall'esecuzione, mossi a pietà, hanno scortata al monastero: ciò potrebbe indicare che il concetto di coazione deve adesso ricevere una lettura ancor più restrittiva di un tempo.
[29] Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal – P. Aguirre, op.vol.cit., pag. 47, nt. 6.
[30] Cfr. già C.29 q.1, che è tutta un lungo dictum Gratiani dove il Maestro chiarisce che l'errore invalidante è quello che cade sull'identità personale del coniuge (error personae) o la sua condizione di libero anziché schiavo come è in realtà (error conditionis), non così invece l'error qualitatis o fortunae (negli stessi termini si è poi espresso ancora il can. 1083 CIC17), e ivi la glossa Quod autem ha cura di precisare che nulla di tutto ciò deriva dal diritto naturale, cosicché il Papa potrebbe stabilire che il matrimonio è nullo in tutti e quattro i casi, come pure che è sempre valido.
[31] Si noti, però, che esiste una disciplina speciale per l'errore – e per gli altri vizi - nell'ambito del matrimonio, che segue una logica parzialmente diversa (cfr. cann. 1096-1103).
[32] Sul concetto, cfr. R. Bertolino, Il notorio nell'ordinamento giuridico della Chiesa, Torino 1965, pagg. 267-321, invero piuttosto critico nei confronti del medesimo, perché ritiene indispensabile, affinché un fatto possa correttamente dirsi notorio, la sua conoscenza effettiva da parte di tutta una cerchia sociale.
[33] Vi è anche il caso del parere obbligatorio, ma solo in certe circostanze soggette ad apprezzamento discrezionale: V. de Paolis, op,cit., pag. 419, ritiene che in tal caso non operi la clausola invalidante se il parere non è richiesto. Concordo, purché però l'apprezzamento della sua necessità non sia stato pretermesso.
[34] Il testo parla della richiesta da parte di un “superiore”, che è il caso di gran lunga più frequente, ma deve intendersi riferito anche ai casi in cui tra interpellante e interpellati (tutti o alcuni) non sussista un rapporto gerarchico, o si sia interpellata la Sede Apostolica; l'estensione non opera, però, per le clausole irritanti.
[35] Cfr. E. Molano, op.cit., ad can. 127, pag. 141. V. de Paolis, op.cit., pag. 419, ritiene che non si tratti di analoia e che solo un'imperfetta redazione renda più difficile cogliere che collegi e gruppi devono intendersi inclusi.
[36] Sembra però estensibile per analogia anche al coetus non collegiale il quorum costitutivo del can. 119 n. 2°.
[37] Cfr. Pontificia Commissione per l'Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico, Responsum 14 maggio 1985, in AAS 77 (1985) 771, ad dubium II.
[38] V. de Paolis, op.cit., pag. 418; cfr. amplius ibid., pagg. 417-9.
[39] L'impossibilità di sostituire la restituzione, quando è possibile farla, con un'elemosina era già affermata da S. Agostino, Ep. 153 ad Macedonium, n. 20, accolta in C.14 q.6 c.1.