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Il precetto singolare

Ecco come funziona il decreto, secondo il Can. 49 e il Can. 58
precetto singolare
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Sommario

1. Premessa

2. Definizione e concetto

3. Da vocabolo generalissimo a genere di provvedimenti: il praeceptum secondo Suárez

4. Il can. 24 CIC 1917

5. Le novità apportate dal CIC 1983

6. Il problema del precetto orale (can. 58 §2): l’esempio del “caso Mc Carrick”

7. Il can. 54 §2 come norma di garanzia nel caso del precetto orale

 

 

Can. 49Il precetto singolare è un decreto mediante il quale s’impone direttamente e legittimamente a una persona o a persone determinate qualcosa da fare o da omettere, specialmente per urgere l’osservanza di una legge.

Can. 58§2. Il precetto singolare, non imposto con legittimo documento, cessa venuto meno il diritto di colui che lo ha dato.

 

 

Premessa

I canoni testé riportati esauriscono le particolarità della regolamentazione positiva che il Codice dedica alla figura del precetto singolare; questo potrebbe far pensare che sia eccessivo o addirittura superfluo dedicarvi un commento a parte, tanto più che non si tratta di un tertium genus tra decreto e rescritto, bensì di una sottospecie del decreto.

Tuttavia, il precetto riveste in pratica un’importanza assai maggiore di quanto il nudo dato normativo lascerebbe pensare: è uno degli strumenti principali per la gestione quotidiana della vita della Chiesa e, in una particolare forma di cui il Codice tratta più ampiamente nel Libro VI, costituisce perfino fonte di produzione del diritto penale. Già solo per questo, una trattazione a sé stante sarebbe più che giustificata; inoltre, come avremo modo di vedere, la pur scarna disciplina può essere compresa rettamente solo se proiettata, per così dire, sullo sfondo di una corposa elaborazione dottrinale.

 

Definizione e concetto

Il can. 49 compie una scelta insolita nell’ambito del CIC 1983: procede ad una definizione formale. Ciò non avviene né per l’atto amministrativo né per il decreto in genere, ma per il precetto sì. Sicuro indizio del fatto che, se non altro, non si tratta di una figura nuova e che i suoi contorni sono assai meglio delineati.

Invero, supposto che sia lecito un accostamento al diritto amministrativo secolare, il precetto è ciò che in quest’ultimo prenderebbe il nome di ordine:[1] l’ordine di fare o di non fare qualcosa, rivolto ad uno o più destinatari determinati, rispetto ad un caso concreto che ne giustifica l’emanazione. Il can. 49 enuncia appunto questo concetto ed aggiunge anche la causa finale tipica, sebbene non necessariamente esclusiva: “...specialmente per urgere l’osservanza di una legge”.[2]

Può forse essere il caso di rammentare che si danno anche precetti generali, rivolti cioè a tutta una comunità, nell’ambito dei decreti generali esecutivi;[3] però “urgere l’osservanza” della legge è altra cosa rispetto a dettare le disposizioni necessarie affinché sia ben eseguita, equivale a porre rimedio ad uno specifico rischio di sua trasgressione. E questo grado di specificità si riscontra assai pèpiù di frequente nei casi singoli.

Il precetto singolare, dunque, è l’atto amministrativo volto a proteggere il bene giuridico costituito dall’osservanza della legge; la dispensa o il privilegio vi derogano, il decreto la applica, il precetto invece la rafforza.

In particolare, può rafforzarla in un modo specifico: aggiungendo all’ordine la minaccia di una sanzione penale apposita. Non solo, cioè, di una pena precostituita per legge, rispetto ad una fattispecie astratta di delitto in cui l’autore del precetto assume che l’azione od omissione vietata verrebbe a ricadere; ma anche una sanzione creata ad hoc, proprio con quell’ordine e per quel solo caso, come misura giudicata adeguata ex ante a punir l’eventuale trasgressione futura. Questo è precisamente il precetto penale:[4] Precetto singolare mediante il quale si commina una sanzione per urgere il compimento di una legge, o si impone un obbligo rinforzandolo con una sanzione in caso di inottemperanza, a una persona o più persone determinate.[5] (cfr. can. 1319).

Si potrebbe dubitare della compatibilità di un simile provvedimento con la funzione “esecutiva” della legge;[6] ma il testo del can. 1319 è chiarissimo nello stabilire che, per porre validamente un precetto penale, basta la potestà di governo in foro esterno che consente di emanar precetti in genere, ossia appunto quella esecutiva. Ciò a rigore non deve sorprendere: intanto, il concetto di “potestà esecutiva” fatto proprio dal legislatore canonico è tanto ampio da comprendere l’aggiunta alla legge di nuove disposizioni generali (cfr. cann. 31-4) e perfino la deroga alla stessa, come nel caso della dispensa (can. 85), nonché tutta la materia degli atti di grazia, che come tali sono almeno praeter legem (cfr. can. 59). Quel che più conta, però, tutta l’istituzione ecclesiastica esiste ed opera, nel suo insieme, per “eseguire” il mandato divino di predicare il Vangelo, convertire e santificare: qualsiasi attività è funzionale a questo scopo generalissimo, da cui non si può mai prescindere; e ciò spiega sia perché il precetto possa anche non urgere l’osservanza di una legge, id est di una disposizione specifica, se in date circostanze la salus animarum richiede che si dia quel tale ordine;[7] sia perché lo stesso diritto penale canonico non prevede il principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici, consentendo al contrario l’incriminazione a posteriori di condotte non previste come delitto ex ante neppure mediante l’avvertimento del precetto, purché già vietate per legge divina o canonica (cfr. can. 1399); sia, infine, perché la potestà esecutiva, in ambito penale, oltre alla possibile emanazione del precetto in discorso include anche l’irrogazione o dichiarazione della pena mediante decreto (cfr. can. 1342),[8] attività fortemente discrezionali.

In effetti, il precetto in genere deve considerarsi come un provvedimento che fa sorgere, in capo ai destinatari, obblighi nuovi o almeno un nuovo titolo obbligante, quindi il ragionamento del can. 1319 non è poi così peregrino. Nello stesso tempo però, e sotto altro punto di vista, deve anche dirsi che “la particolarità dell’atto in parola non è stata evidenziata [dal can. 49] allo scopo di indicare in seguito una serie di norme speciali […] ma per regolare i precetti sottoponendoli alle medesime garanzie previste per gli altri decreti singolari.”.[9] Tutte quante le garanzie, compresa la forma scritta e motivata, perché il precetto va annoverato tra le decisioni[10] (anche se appare difficilmente configurabile, in astratto, l’applicazione del can. 57):[11] il punto è oggi indiscutibile, perché il nuovo testo del can. 1319 §1 afferma che il precetto penale deve emanarsi nel rispetto dei cann. 48-58, quindi della disciplina dei decreti nella sua totalità. Occorre dunque tener sempre presenti, nell’esame della materia, le considerazioni svolte tanto sulla nozione di decreto singolare quanto nella disamina della relativa disciplina.

Infine, la dottrina ammette senza difficoltà che il precetto possa essere sottoposto a termine o condizione e anche che abbia un oggetto alternativo, ponga cioè il destinatario di fronte ad una scelta, che per lui è libera; una volta che l’abbia compiuta, resterà vincolato a quella condotta in tutto e per tutto. L’ipotesi può forse avere qualche utilità nell’ambito disciplinare.

 

Da vocabolo generalissimo a genere di provvedimenti: il praeceptum secondo Suárez

Per secoli, i canonisti non hanno assunto il termine praeceptum quale oggetto specifico di una teoria generale più ampia, giacché lo intendevano come riferito al contenuto, appunto, “precettivo” di un provvedimento purchessia, attribuendogli quindi una portata tale da comprendere, “non escludendo neppure quello legislativo, qualsiasi atto sostanzialmente e formalmente espressivo di un potere, attorno al quale [potere] comunque sui fondi e si consolidi una comunità”;[12] un esempio tipico e celebre di tale concezione è offerto da S. Raimondo da Peñafort, secondo cui “Sententia praecepti dicitur cum maior praecipit aliquid minori. Circa quod tria sunt consideranda: primum, in quibus attendatur maioritas; secundum, in quibus consista oboedientia; tertium, de virtute seu necessitate praecepti.”.[13] Da queste premesse, quindi, poteva scaturire una teoria dell’obbedienza, che infatti non mancava di certo, ma non un aspetto di una costruzione giuridica sistematica.

Le cose sono cambiate grazie all’opera di Suárez, non a caso il grande sistematizzatore delle fonti del diritto canonico.

Per un verso, infatti, egli mantiene l’impiego di praeceptum come genere capace di includere anche la legge, in opposizione al consilium, e infatti la sua definizione di lex è “commune praeceptum, iustum, ac stabile, sufficienter promulgatum”; ma, per altro, la specificazione commune serve proprio a distinguere la lex (sia dai privilegi sia) dai precetti particolari.[14] Quanto poi alle differenze specifiche, il Dottore Esimio nota che

  • sotto l’aspetto della causa formale, la lex deriva sempre dalla potestà politica o di giurisdizione, mentre il praeceptum compete anche ai titolari di mera potestas dominativa, cioè, verrebbe da dire, di qualunque altra forma di potere, da quello del paterfamilias fino al superiore di una comunità (non politica) unita dal voto religioso di obbedienza;[15]
  • riguardo alla perpetuità, il purum praeceptum, cioè l’ordine impartito solo come comando personale, salvo il caso di espressa disposizione contraria viene meno con la morte del suo autore, anche quando è generale ossia rivolto a tutta una comunità; non così invece la lex;[16]
  • circa l’efficacia, la lex è in genere territoriale, mentre il precetto, per la sua natura personale, non obbliga gli stranieri e, viceversa, può obbligare i sudditi anche quando si trovano fuori del territorio.[17]

Come sempre, l’impostazione di Suárez si è imposta e ha fatto scuola; in questo caso, però, essa lasciava aperte molte questioni e riusciva meno persuasiva del consueto.

Anzitutto, fermo che i precetti emanati in virtù della sola potestà dominativa non potevano considerarsi leggi, come distinguere da queste ultime i precetti generali emessi dal titolare di giurisdizione? Inoltre, gli Ordini religiosi molto spesso potevano sostenere di aver ricevuto la giurisdizione del Papa, il che ampliava ulteriormente l’ambito in cui occorreva porre tale distinzione.[18] Quanto poi all’ultrattività dei precetti personali, in che modo far constare della volontà del princeps di obbligare anche dopo la morte o la cessazione dalla carica?[19] Se ad esso era annessa una pena latae sententiae non ancora dichiarata, era sensato che questa svanisse nel nulla? E circa l’ambito di efficacia, se si ammetteva che restasse obbligato ubique terrarum il suddito di chi avesse giurisdizione personale, o se vi fosse stato patto espresso in tal senso (come per i Sacerdoti nell’ordinazione), i più contestavano che fosse conveniente che il precetto valesse fuori del territorio anche quando la potestà del suo autore era territorialmente limitata.[20] Quindi, se da un lato si era giunti ad una definizione di praeceptum residuale rispetto alla lex, ma tale da comprendere anche quello generale,[21] dall’altro restava dubbia la stessa possibilità di distinguere quest’ultimo dalla lex, se l’autore possedeva la necessaria giurisdizione, tanto più che molti contestavano la nota della perpetuità come caratteristica della lex.

 

Il can. 24 CIC 1917

I codificatori del 1917, trascurando le varie altre questioni controverse[22] e a maggior ragione, verrebbe da dire, presupponendo la communis opinio che comunque si era formata – in termini sostanzialmente suareziani – circa sussistenza ed ambito della potestà dominativa, hanno forgiato ex novo il can. 24, posto a chiusura del titolo sulle leggi ma dedicato ai soli precetti singolari, rispetto a cui risolveva due problemi soltanto, l’efficacia fuori del territorio e il modo in cui evitare che venissero meno con il diritto del loro autore.

Praecepta, singulis data, eos quibus dantur, ubique urgent, sed iudicialiter urgeri nequeunt et cessant resoluto iure praecipientis nisi per legitimum documentum aut coram duobus testibus imposita fuerint.”.

Sia la sedes materiae sia il fatto che il legislatore abbia sentito il bisogno di specificare che stava trattando di precetti rivoti ai singoli sono stati prontamente interpretati, a contrario, come conferme dell’esistenza dei precetti generali e della loro, almeno tendenziale, assimilabilità alle leggi. Più dubbio se dovessero intendersi inclusi, almeno nella prima delle due norme, i precetti di foro interno.[23] Restava però controverso soprattutto se il can. 24 dovesse applicarsi ai soli praecepta iurisdictionalia, emessi cioè in virtù della giurisdizione,[24] o anche a quelli dati per potestà dominativa, sebbene la sedes materiae deponesse in senso contrario.[25] Infine, rimaneva dubbio quali regole dovessero applicarsi ai precetti generali: per Wernz-Vidal, essi dovevano intendersi dati alla comunità in senso distributivo, cioè ad ogni singolo membro, e quindi ricadere sotto il can. 24,[26] ma sul punto non vi era accordo in dottrina.[27]

Nessun particolare dubbio applicativo, invece e per fortuna, destava il criterio prescelto per distinguere il precetto destinato a durare oltre la permanenza in carica dell’autore: molto opportunamente, si era optato non per un rimando alla volontà sostanziale, ma per una forma peculiare che consentisse la prova in foro esterno, ossia il legitimum documentum[28] (non necessariamente un atto pubblico in senso stretto)[29] oppure l’intimazione orale dinanzi a due testimoni. In carenza di siffatto requisito, il precetto, pur efficace di per sé anche in foro esterno, non poteva essere fatto valere iudicialiter ossia mediante sanzioni penali, pur se non sembravano esclusi altri mezzi;[30] il che, peraltro, implicitamente escludeva che un tal precetto potesse avere carattere penale e troncava alla radice il problema dell’eventuale ultrattività di quelle latae sententiae.

 

Le novità apportate dal CIC 1983

I lavori preparatori della riforma hanno dedicato particolare cura e attenzione al tema dei precetti: il Coetus de Normis generalibus ha cominciato a trattarne nella propria Sessione V (29 settembre – 4 ottobre 1969), dove sono state via via proposte ben tre redazioni di un titolo De praeceptis, destinato a comprendere sia quelli generali sia i singolari. La discussione è stata articolata e ha visto, tra l’altro, un consenso quasi unanime nell’escludere dai redigendi canoni i precetti dati in forza della potestà dominativa, nonché sulla scelta di eliminare la possibilità di intimare il precetto anche davanti a due testimoni, lasciando solo il requisito del legitimum documentum (dinanzi a chi invocava il caso urgente, il Segretario Aggiunto ebbe a precisare che sarebbe rimasto possibile intimare anzitutto il precetto a voce e redigere il documento dopo); scelta che rimase confermata anche all’esito della Sessione XII del Coetus De personis (22-26 ottobre 1973), chiamato ad elaborare la disciplina generale dell’atto amministrativo e a rivedere le norme proposte per i vari tipi; così pure nello Schema del 1977 (can. 53), che peraltro prevedeva un titolo De decretis et praeceptis singularibus, separato dalle corrispondenti norme per i precetti generali. Inoltre, il precetto singolare era definito in termini assai ristretti, come ordine impartito a chi non voleva osservare la norma.[31]

Il processo di revisione dello Schema sulla scorta di osservazioni e proposte pervenute è giunto a trattare di questi canoni nella Sessione II (Series Altera) del Coetus De normis generalibus (23-27 ottobre 1979), dove la definizione testé riferita è subito sembrata troppo restrittiva al Segretario; si è svolto un articolato dibattito, perché qualche Consultore la difendeva come appropriata, e ne è uscita l’attuale redazione del can. 49, con la formula “...soprattutto per urgere l’osservanza di una legge”, che ha trovato il consenso di tutti. Sebbene nella stessa occasione siano stati approvati gli attuali cann. 55 e 56, che potenzialmente riaprivano uno spazio per la presenza di due testimoni, non si è avuta una nuova discussione circa la scelta di eliminarli da quello che è divenuto l’attuale can. 58 §2; e il seguito dell’iter di riforma non ha visto novità in subiecta materia.

Questo riepilogo dei lavori preparatori basta a far comprendere che la maggior parte delle innovazioni apportate – che risolvono, in verità, quasi tutti i dubbi anteriori – deriva, non da norme specifiche, bensì da scelte di portata generale.

In primo luogo, il problema della potestà dominativa è stato per così dire neutralizzato, perché il can. 596 specifica quali Istituti di Vita Consacrata godano di potestà di governo, per ciascuno degli altri rimanda alla potestà definita nel suo diritto particolare e specifica che a questa (in continuità con un’interpretazione autentica del 1952 al CIC 1917) si applicano alcune disposizioni, distintamente enumerate, dei canoni sulla potestas regiminis; di conseguenza, gli atti di esercizio della potestà dominativa – che non viene peraltro più chiamata con tale nome, ritenuto poco appropriato all’indole caratteristica della vita religiosa – non sono atti amministrativi né soggiacciono alla relativa disciplina. Il consenso della dottrina conferma, in particolare, che i canoni del Codice non riguardano un tal genere di precetti;[32] qualcuno lascia la porta aperta all’analogia,[33] ma ciò non sembra necessario, perché il rimando al diritto particolare assicura la presenza di una disciplina ben più completa degli scarni cann. 48-58 e perché, comunque, il Codice disciplina in dettaglio il procedimento di dimissione dei religiosi, così assicurando un rigoroso controllo “a valle” sulle conseguenze disciplinari delle trasgressioni ai precetti legittimi, almeno nei casi più gravi. Nulla vieta, comunque, che i cann. 48-58 possano costituire il punto di partenza per l’elaborazione delle norme peculiari del singolo Istituto.

Anche la questione relativa al foro interno è stata risolta aliunde, per effetto dei cann. 37 e 130: il primo conferma, a contrario, che possono esistere veri atti amministrativi di foro interno, inclusi quindi i precetti, ma il secondo li rende generalmente irrilevanti per l’esterno, quindi il dubbio sull’applicabilità ad essi delle prescrizioni del Codice finisce per essere inutile, perché non risultano norme speciali che rendano efficace in foro esterno un precetto di foro interno.

Infine, ma non da ultimo, ancora l’applicabilità della disciplina generale dell’atto amministrativo offre al destinatario del precetto, oltre alla forma scritta di cui al can. 37 testé menzionato, almeno altre due garanzie importanti: l’interpretazione stretta nei casi di cui al can. 36 §1, che mi sembrano la maggior parte di quelli possibili data la natura dell’atto, e l’esigenza di una clausola derogatoria ai sensi del can. 38 (qui l’eventualità è più rara, ma si pensi al Vescovo che, sospettando il Parroco di un delitto contro l’amministrazione dei beni, gli ordini di dimorare fuori della Parrocchia per il tempo necessario alle indagini e di presentarvisi solo per le funzioni liturgiche: un simile precetto, di per sé, è contra legem cioè contro l’obbligo della residenza, previsto dal can. 533, ed esige dunque, per esser valido, la clausola derogatoria).[34]

 

Il problema del precetto orale (can. 58 §2): l’esempio del “caso Mc Carrick”

Se il nuovo Codice ha senz’altro risolto diversi problemi, non ci si può nascondere che ne ha creato uno nuovo, o almeno gli ha fatto assumere una fisionomia diversa, rendendo assai più difficile risolverlo.

Vigente il can. 24 CIC17, si poteva pensare al termine “precetto” come comprensivo di qualsiasi ordine, da quello del Papa ad un Vescovo fino a quello del cerimoniere durante una funzione liturgica, oltre a quelli dei Superiori religiosi in convento (almeno se dotati di giurisdizione); e una simile ampiezza bastava da sola a giustificare l’ammissibilità della forma orale. Questa, a sua volta, doveva trovare un bilanciamento nel carattere temporaneo dell’atto, che tra l’altro lasciava piena libertà d’azione al successore del precipiente. Ma adesso, perché mai il precetto orale sopravvive?

Consideriamo che stiamo parlando, ai sensi dei cann. 35 e 49, di un vero atto amministrativo dato per il foro esterno;[35] e tuttavia si fa un’eccezione alla regola generale della forma scritta, anche se non vi è più un’esigenza ovvia di flessibilità, come nell’esempio del cerimoniere. Si può sostenere che resti quello del Superiore religioso munito di potestà esecutiva... ma perché mai gli ordini resi necessari dalla vita quotidiana del convento dovrebbero qualificarsi come atti amministrativi e non di potestà dominativa? Per il can. 596 §2, la potestas regiminis si aggiunge all’altra, non la elide; inoltre, la disobbedienza sarebbe comunque disobbedienza ad un ordine legittimo, anche se questo fosse impartito in virtù di un potere diverso. Sicuramente “Non si può […] affermare che il diritto incoraggi” l’emanazione di precetti orali;[36] ma a maggior ragione, allora, perché consentirla?

Le ragioni di perplessità crescono ancora se si considera un’innovazione solo in apparenza marginale: il can. 58 §2, rispetto alla seconda parte del vecchio can. 24, ha eliminato l’avverbio iudicialiter. Si tratta di una modifica presente fin dalla primissima bozza presentata alla Sessione V del Coetus De normis generalibus, dove è stata giustificata dal Segretario Aggiunto proponente con l’intento di precludere la possibilità di far valere un tale precetto anche in via extragiudiziale; tutti si sono trovati d’accordo e la discussione sul punto non è mai più stata riaperta; il testo definitivo, quindi, impedisce sic et simpliciter di “urgere l’osservanza” del precetto orale, non importa come.[37] Ha senso un atto di foro esterno che non può essere fatto valere in alcun modo?[38]

Al riguardo, va anzitutto precisato che un’intimazione mediante legittimo documento si ha soltanto secondo una qualsiasi delle tre forme previste dai cann. 54, 55 e 56,[39] quindi – contrariamente a quel che sosteneva il Segretario durante la Sessione V: cfr. supra, §5 – non può considerarsi legittima quella di un precetto emesso oralmente;[40] se solo in un secondo momento esso venisse redatto per iscritto ed intimato, dovremmo ragionare come se si trattasse di un precetto nuovo, al più confermativo del precedente;[41] in altre parole, senza “una legittima notificazione deve concludersi che in nessun caso è possibile esigere giuridicamente il compimento di un precetto di foro esterno dato oralmente”, la cui effettività dipende perciò “dall’obbedienza da parte del destinatario o dall’intervento diretto del suo autore per urgerl[o] personalmente”,[42] facendo leva più sul proprio ascendente che sulla potestà. Ciò non toglie, comunque, che del fatto della disobbedienza ben si potrà tener conto in seguito, se ad es. sarà stato imposto il precetto scritto e intrapreso giudizio penale contro l’inottemperante.[43]

Invero, l’ambito di applicazione verosimilmente prefigurato dal Codice per il precetto orale appare abbastanza specifico: le vie alternative al processo penale, cioè la correzione fraterna, i rimedi penali (di cui il can. 1339 §3 dice che debbono risultare da qualche documento scritto, non che debbano intimasi per legittimo documento),[44] le penitenze (can. 1340), i moniti et similia (can. 1348), insomma tutti i casi in cui si tratta di questioni delicate, spesso manca o è insufficiente la prova del delitto, nel caso dei rimedi penali poi si può trattare anche solo di un semplice pericolo che esso venga commesso... e si preferisce agire in modo informale, che lascia anche maggior libertà d’azione per il futuro.

Ma se così è, il giudizio sul precetto orale non può che essere formulato in termini assai negativi: la sua applicazione in un ambito così delicato, benché comprensibile in particolari circostanze, comporta rischi ed inconvenienti assai maggiori dei benefici.

Un esempio recente ed eclatante riguarda il c.d. “caso McCarrick”: l’allora Cardinale Arcivescovo di Washington era accusato di abusi sessuali; in un primo momento le accuse non furono ritenute credibili, ma “Sulla base di nuovi particolari relativi alle accuse di Prete 1 [in sé già note prima della promozione di McCarrick a Washington], alla fine del 2005, la Santa Sede cambiò drasticamente il suo orientamento e cercò con urgenza un nuovo Arcivescovo per la sede di Washington, richiedendo a McCarrick di dimettersi ‘spontaneamente’ dall’ufficio dopo la Pasqua del 2006. [...] In definitiva, il percorso di un processo canonico per risolvere il dubbio sui fatti ed eventualmente prescrivere sanzioni canoniche non venne intrapreso. Invece, si decise di fare appello alla coscienza e allo spirito ecclesiale di McCarrick, indicandogli che, per il bene della Chiesa, avrebbe dovuto mantenere un basso profilo e ridurre al minimo i viaggi. Nel 2006, il Cardinale Re, Prefetto della
Congregazione per i Vescovi, incaricò il Nunzio Sambi di trasmettere verbalmente queste indicazioni a McCarrick. Nel 2008, il Prefetto Re trasmise le indicazioni a McCarrick per iscritto. Sebbene la linea del Cardinale Re fosse approvata da Papa Benedetto XVI, le indicazioni non portavano
l’esplicito
imprimatur del Papa, non erano basate su una constatazione di fatto che McCarrick avesse effettivamente adottato una cattiva condotta e non includevano un divieto di ministero pubblico.
”.[45] In altre parole: sebbene le accuse sembrassero verosimili, per vari motivi (tra cui la prescrizione) si è esclusa l’opportunità del processo[46] e si è optato per un precetto orale volto essenzialmente a ridurre lo scandalo qualora la stampa avesse cominciato ad occuparsi del caso. Ma il precetto, in sostanza, non venne osservato, anche perché la Nunziatura Apostolica non ha affatto insistito in tal senso e non ha informato il sogetto precipiente dell’inosservanza;[47] questi, dopo che le accuse sono state rilanciate pubblicamente, ha scritto a McCarrick, senza però impartire un ordine, ma, almeno formalmente, “chiedendogli” di ritirarsi a vita privata, scegliendo tra una serie di opzioni; siamo, insomma, nell’ambito degli interventi personali per ottenere l’adempimento ad un precetto orale.[48] Stavolta il successo fu maggiore, ma comunque solo parziale.[49]

A distanza di diversi anni, emersi ulteriori elementi che riguardavano anche il coinvolgimento di minori, è stato avviato un processo canonico; ma, proprio mentre si perveniva alla sospensione cautelare da ogni ministero pubblico, l’ex-Nunzio Apostolico negli Stati Uniti, Mons. Carlo Maria Viganò, fece esplodere il “caso”, sostenendo in buona sostanza che le “sanzioni” imposte a McCarrick, in quanto provenienti dal Papa (unico giudice dei Cardinali), fossero venute meno con la rinuncia di Benedetto XVI e soprattutto che il suo successore si fosse rifiutato di prendere qualunque iniziativa, andando di fatto a “coprire” l’accusato: condotta per cui l’Arcivescovo Viganò è arrivato ad esigere la rinuncia del Papa all’ufficio supremo.

Ho voluto soffermarmi con una certa ampiezza su questa vicenda, non certo al fine di emettere un giudizio nel merito delle accuse di Viganò, che richiederebbe come minimo l’esame diretto delle fonti d’archivio, ma perché mette in luce a meraviglia tutti i problemi del precetto orale:

  • anzitutto, scegliendo di avere riguardi per qualcuno, ci si priva in sostanza, e prima ancora psicologicamente, del potere coercitivo nei suoi confronti;[50]
  • affidarsi all’efficacia persuasiva dei rapporti personali significa, in definitiva, affidarsi alle persone e, soprattutto quando si debba agire tramite intermediari, apre la porta a molteplici incognite, non ultimo il fatto che persone diverse formulano spesso giudizi di opportunità diversi;
  • in pari tempo, se il destinatario dispone a sua volta di una fitta rete di rapporti e contatti personali, può contrastare comunque gli sforzi con successo, ad es. creandosi un gran numero di scuse plausibili (“Mi hanno invitato, come faccio a dire di no senza dare scandalo?”);
  • la verità dei fatti, da qualunque parte stia, non viene accertata e resta in sospeso anche quando presenta un’indubbia rilevanza ai fini della decisione;[51]
  • non è mai del tutto chiaro fino a che punto si tratti di un ordine o di una “semplice” richiesta pressante, però non obbligante;
  • infine ma non certo da ultimo, resta sempre possibile mettere in dubbio chi abbia detto cosa a chi, chi avrebbe dovuto fare e come e quando, chi abbia deciso o non deciso..., al punto che, sia pure a posteriori, si è potuta mettere in discussione la stessa paternità del precetto orale.[52]

A mio personale parere, è necessario superare sia l’uso del precetto orale per questioni che rilevano in foro esterno – anche solo potenzialmente, come l’eventuale futuro scandalo di cui si trattava nella specie – sia soprattutto l’atteggiamento mentale che porta alla scelta di farvi ricorso.

 

Il can. 54 §2 come norma di garanzia

Se il precetto orale ha senz’altro carattere problematico per quanto riguarda l’efficacia dell’azione amministrativa, occorre tuttavia riconoscere che il Codice riesce, se non altro, a tutelare il destinatario dai rischi che anche per esso presenta il suo impiego.

Innanzitutto, mentre il can. 24 CIC17 affrontava il problema soprattutto nell’ottica della prova dell’atto, ammettendo quindi che essa potesse darsi sia per documenti sia per testi, secondo le regole generali, l’odierno can. 54 §2 si incentra sull’intimazione, ossia sul diritto del destinatario, previsto dai cann. 37 e 51 (nonché, indirettamente, dal can. 55), di venire a conoscenza di un provvedimento i cui esatti termini siano stabiliti una volta per tutte e i motivi compiutamente espressi. Il che, ovviamente, non avviene per gli atti orali. Siccome questi ultimi restano affidati alla conoscenza, alla memoria e anche ai possibili ripensamenti dell’autore, ha senz’altro senso che cessino quand’egli lascia l’ufficio; semmai, si pone un problema di informazione al successore.

Ma non è tutto.

La prova per testimoni deve ritenersi sempre ammessa, ai sensi del can. 1547, e il can. 1573 stabilisce che costituisca prova piena anche se il teste è uno solo, se questi depone su fatti conosciuti o atti compiuti in ragione del proprio ufficio, oppure in presenza di altri elementi che ne corroborino le dichiarazioni: sarebbe dunque non solo possibile, ma anche abbastanza agevole dimostrare in giudizio sia l’esistenza del precetto orale, sia il suo contenuto. Invece, in forza dei cann. 54 §2 e 58 §2 il Codice inibisce radicalmente tale possibilità, tanto rispetto ad un processo vero e proprio quanto (o forse più) rispetto all’adozione di un provvedimento amministrativo. La ragione, oltre alle esigenze di certezza giuridica e garanzia ex cann. 37 e 51, a mio avviso deve ravvisarsi nel principio di imparzialità: l’autore del precetto orale sarà, in genere, l’Ordinario, quindi non di rado la stessa persona fisica che ha il potere di giudicare il destinatario inottemperante o comunque di adottare provvedimenti amministrativi nei suoi confronti,[53] o comunque qualcuno – come il Vicario giudiziale – che ha rapporti molto stretti con il precipiente, che per lo più saranno di subordinazione a questi. Si vuole quindi evitare che uno stesso soggetto possa trovarsi a fungere, nello stesso tempo, da teste qualificato sull’esistenza e il tenore del proprio atto e da giudice o superiore chiamato a valutarne le conseguenze;[54] o anche che la sua testimonianza, congiunta con l’ancora attuale possesso della carica, possa condizionare chiunque altro sarebbe chiamato ad espletare sì delicate mansioni. Lo strumento prescelto è già noto: radicale impossibilità giuridica di urgere l’osservanza del precetto orale. Nel caso della forma scritta, invece, a garantire l’imparzialità vengono ritenute sufficienti l’oggettività del documento e un’altra novità del Codice, il carattere definitivo che il provvedimento assume in tempi molto brevi, se non impugnato.

Tutto ciò, sotto un altro punto di vista, tutela anche il destinatario contro i possibili effetti pregiudizievoli del vizio di dire e disdire, parlare a mezza bocca, formulare “inviti” che sono due volte più ordini degli ordini “veri”... Stante il chiaro divieto legale, infatti, “Sarebbe ammissibile […] un ricorso per violazione del can. 54 §2, che impedisce di esigere l’adempimento di un decreto non intimato per legittimo documento? A mio avviso basterebbe rivolgere richiesta formale all’autore di dare il precetto per iscritto o di cessare nel [sic] urgere il suo adempimento per aprire la via al ricorso, o contro la risposta scritta, o in seguito al silenzio amministrativo.”.[55] Insomma, il Codice, pur non avendo il coraggio di eliminare del tutto il precetto orale dalla giurisdizione di foro esterno, attribuisce al suo destinatario, perlomeno in caso di successive manovre per farlo valere contro di lui anche solo in sede amministrativa, il diritto di dire al suo autore “Scrivi, o sta’ zitto!”. Non è male e non è poco.

 

[1]    Così E. Labandeira, Trattato di Diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 314.

[2]    Si ammette comunque comunemente che con il precetto si possa anche urgere l’osservanza di un atto amministrativo o di una sentenza giudiziale. Cfr. Ibid., pag. 319.

[3]    In effetti i precetti comuni talvolta non si possono né si debbono distinguere dalle leggi, secondo quanto el resto è sancito per i decreti generali nel can. 29 c.i.c. Talaltra però se ne diversificano o in quanto sono diretti ad una comunità incapace di essere destinataria di una legge, o in quanto promanino da una autorità non investita del potere legislativo. In quest’ultimo ambito si muoverebbero i decreti, e quindi i precetti, generali esecutivi.”. P.A. Bonnet, s.v. Precetto (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXIV, Milano 1985, pagg. 874-93, qui 883. Sia però dato aggiungere, rispetto al fine pur non esclusivo di urgere l’osservanza di una legge, che molte disposizioni di carattere legislativo hanno protetto o proteggono in via generale un obbligo giuridico, p.es. la normativa sulle domestiche dei chierici tutelava l’osservanza della continenza perfetta per il Regno dei Cieli; il precetto generale esecutivo, a mio parere, se ne deve distinguere in quanto ordine emanato per far fronte ad una singola minaccia concreta, che però non riguardi singole persone ma un’intera comunità come tale, ad es. intima un precetto generale (e quindi non deve compiere notifiche individuali) il Vescovo che ordina a tutti i fedeli di una Parrocchia di non opporsi alla rimozione di un Parroco molto amato o di desistere dalle vie di fatto già intraprese.

[4]    Il precetto “non penale”, in dottrina, è detto “semplice”: per un elenco esemplificativo di luoghi in cui è previsto dal Codice, cfr. E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 316, nt. 123

[5]    J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 423.

[6]    E ne dubita infatti P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 888. Cfr. tuttavia J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 251: “L’autorità esecutiva. Nell’ambito della propria competenza, può anche imporre obblighi particolari, che non sono previamente stabiliti dalla legge. Ciò peraltro non significa che in questi casi il provvedimento possieda natura legislativa o leda il principio di legalità. […] Quando un’autorità esecutiva, mediante un precetto singolare, stabilisce legittimamente un obbligo praeter legem, in realtà sta agendo secundum legem, posto che il diritto le attribuisce questa possibilità di azione”.

[7]    Cfr. però P. Lombardía, ad cann. 48-9, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 102: “Tale ordine deve essere legittimo in un duplice senso: in primo luogo, chi lo impone deve essere competente sia in ordine alla persona che alla materia; in secondo luogo, quanto esigito attraverso il precetto deve rientrare tra i doveri che la legge canonica impone al destinatario. […] Vale in ogni caso, comunque, la regola secondo cui nessun soggetto titolare soltanto della potestà esecutiva può imporre doveri per mezzo di precetti che non rinnovino o precisino quei doveri cui il destinatario del precetto sia già tenuto per legge o per consuetudine, a meno che la legge o un atto di delega del legislatore (nel qual caso andrà applicato, mutatis mutandis, il c. 30) concedano simili facoltà.”. Il problema mi sembra più nominale che sostanziale, attesa la formulazione molto ampia dei canoni di diritto positivo che si riferiscono ai doveri di stato; se non altro, qualsiasi precetto legittimo può presentarsi come concretizzazione del dovere generalissimo di dedicarsi a condurre una vita santa, previsto dal can. 210.

[8]    P.A. Bonnet, Precetto, cit., pagg. 887-91, in verità parla di precetto penale anche riguardo a tali decreti, ritenendo appunto che essi irroghino o dichiarino la pena “ad modum praecepti”, echeggiando il vecchio can. 1933 §4. Ma la nozione offerta dal Codice attuale è più ristretta e, comunque, non è certo un caso che il nuovo can. 1342 -come ogni altro che affronti l’argomento – parli, più genericamente, di “decreto”: al di là di ogni altra considerazione, invero, non è affatto detto che il provvedimento si rivolga al destinatario sotto forma di ordine di fare od omettere qualche cosa (ciò avrà senso, semmai, rispetto a pene come l’imposizione di dimorare in un luogo determinato, etc: cfr. E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 320) e comunque la recente novella del Libro VI ragiona piuttosto nel senso di equiparare questo particolare decreto ad una sentenza giudiziale, rafforzandone quindi l’elemento conoscitivo prima che volitivo, specialmente per aver enunciato in modo espresso che occorre la certezza morale. Cfr. anche V. de Paolis, Il Libro I del Codice. Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 333: “In ogni casi nel diritto penale il decreto si distingue chiaramente dal precetto, in quanto il precetto si riferisce alla fase costitutiva della pena (cf. can. 1319), mentre il decreto alla fase irrogatoria o dichiaratoria della pena. […] Quale che sia la soluzione della questione terminologica, che pure ha la sua importanza, di fatto le norme che regolano il decreto valgono anche per il precetto.”.

[9]    J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 249; nello stesso senso I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pag. 528, nt. 127.

[10]  Del resto, “il decreto con cui si decide una controversia può contenere, e di fatto non raramente contiene, anche dei precetti.”. V. de Paolis, op.loc.cit. Più in generale ancora, P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 881, interpreta il termine decisio, al can. 48, come comprensivo di tutto ciò che non sia provisio nel senso tecnico di ufficio ecclesiastico, quindi della generalità dei decreti.

[11]  E. Labandeira, Trattato..., cit., pagg. 318-9, ravvisa alcune ipotesi di doverosità dell’emissione del precetto, prima fra tutte il generale dovere del Vescovo di urgere l’osservanza della legge ecclesiastica, ex can. 392 §1; non sembra, però, che il precetto sia l’unico mezzo attraverso cui attuare tale dovere, anzi sarebbe perfettamente nel giusto, perlomeno nei casi più gravi, quel Vescovo che avviasse direttamente la rimozione dall’ufficio; inoltre, il trasgressore pu anche essere semplicemente ammonito, con un atto che non si configura quale precetto perché non è un ordine, anzi forse neppure un provvedimento amministrativo, se si limita a rammentargli le conseguenze previste per la trasgressione della legge, ed ha semmai lo scopo di facilitare la prova della volontarietà o dell’ostinazione nell’illecito; infine, un altro mezzo sempre utilizzabile sono i rimedi penali, di cui ai cann. 1339-40; perciò il ricorso al precetto sembra comunque frutto di una qual certa discrezionalità. Cfr. però P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 879: “Per quanto debba generalmente considerarsi come una spontanea iniziativa di chi ne ha il potere, non pensiamo tuttavia, anche per la vasta area di applicazione dell’istituto, che possano mancare fattispecie nelle quali il precetto viene reso normativamente obbligatorio [nt. 52: In rapporto soprattutto alla legislazione particolare ed alla normativa non legislativa], eventualmente dopo una richiesta della persona o delle persone interessate. In tali condizioni potrebbe trovare una qualche applicazione, talora anche in via analogica, il disposto del can. 57 c.i.c.”.

[12]  P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 874.

[13]  S. Raimondo da Peñafort, Summa de paenitentia, III.33.1, cit. in P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 893.

[14]  Cfr. F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, 1.12.2, ma anche 1.8.4: “...supponimus primo, praeceptum, ut tale est, necessario postulare aliquam superiorem potestatem in praecipiente respectu eius, cui praecipit. Nota enim est differentia inter hos tres actus, petere seu orare, promittere seu vovere, imperare seu praeceptum imponere; quod primum est indigentis, et ideo, ut sic, est inferioris ad superiorem; ultimus est superioris ad inferiorem; secundus vero potest esse ad omnes”. Peraltro, “Lex est commune praeceptum” è già in Papiniano, D.1.3.1.

[15]  Cfr. la seguente enumerazione di casi: “...potestas dominativa regulariter est circa privatas personas, seu inter partes imperfectae communitatis, et interdum est ex iure naturae per naturalem originem tantum, et ex vi illius, ut est patris potestas in filium; interdum est etiam natura, supposito tamen pacto humano, ut est potestas viri in uxorem in ordine ad gubernationem domus et personae; aliquando est ex iure gentium, vel civili, ut potestas domini in servo bello captum; interdum ex humano contractu, et ut dominium in servum, qui se vendidit, et huc spectat potestas, quae per votum obedientiae confertur ei, cui obedientia promittitur.”. Inoltre, in genere, anche se quest’ultimo esempio fa eccezione, si esercita più a vantaggio di chi la detiene che non dei sudditi. La giurisdizione, invece, va esercitata in vista del bene comune, riguarda innanzitutto una communitas perfecta e, appunto per tale motivo, ha una maggior capacità di coazione legittima. F. Suárez, Tractatus..., 1.8.5.

[16]  Cfr. amplius ibid., 1.10.5-10; inoltre, il praeceptum impartito per un tempo determinato di per sé si considera personale, ma può essere assimilato alla legge per dichiarazione espressa, se proviene dal legislatore supremo, nel qual caso non viene meno se l’autore cessa di vivere (o di ricoprire l’ufficio) prima che scada il termine (ivi, p.to 12).

[17]  Cfr. Ibid. 3.33.12.

[18]  Distinzione che per giunta rilevava anche in ambito morale, come spiega L. Simeone, Precetto, in Enciclopedia Cattolica vol. IX, Roma 1952, coll. 1900-2, qui 1900-1: “siccome il p. giurisdizionale è fonte di diritto e crea norme costitutive, l’osservanza di esso è dovuta in forza dell’obbligo inerente alla virtù che costituisce la materia del p., e quindi, per esemplificare: in virtù della giustizia, se la materia riguarda la giustizia; della carità se la carità, della castità se la castità, della mortificazione se il digiuno o l’astinenza; mentre il p. derivante da potere dominativo crea l’obbligo in forza del titolo per il quale il Superiore l’impone, prescindendo dall’oggetto della virtù cui l’atto imposto appartiene; quindi, ancora per esemplificare: per virtù di religione se si tratta di p. proveniente da autorità cui si promise obbedienza, per virtù della pietà se da autorità paterna o materna, anche se l’atto imposto appartenga alle virtù di giustizia, carità, castità, ecc. Conseguentemente chi avrà, p. es., mangiato di grasso contro il p. del suo Superiore investito di potere solo dominativo, o dei suoi genitori, avrà fatto peccato contro l’obbedienza e contro la pietà, ma avrà fatto un peccato contro la mortificazione se il p. proveniva da potere giurisdizionale;”.

[19]  Un modo su cui si era instaurato un certo consenso era la redazione scritta con la clausola “Ad beneplacitum Sedis Apostolicae”.

[20]  Cfr. a questo riguardo G. D’Annibale, Summula theologiae moralis, vol. I, Roma 1894, pag. 237.

[21]  Cfr. F.X. Wernz – P. Vidal, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. I – Normae generales, Roma , pagg. 256-7, che riprende qui il manuale di Wernz edito prima della codificazione: “Praeceptum generatim definiri potest: Iussum ad tempus vel in perpetuum singularibus personis aut absque perpetuitate toti communitati publicato”, ma cita anche quella di Maroto, “iussum vel mandatum legitimi Superioris datum subdito in casu particulari”, commentando che il caso può riguardare sia il singolo sia tutta la comunità.

[22]  Scelta per cui sono stati vivamente criticati dalla dottrina, cfr. per tutti M. da Casola, Compendio di Diritto Canonico, Genova 1967, pag. 86: “Il Codice troppo brevemente esaurisce la materia dei precetti col solo c. 24; perciò lascia insolute quasi tutte le questioni agitate nel diritto precodiciale, specie quelle concernenti i precetti generali.”.

[23]  Non tutti però ammettono la possibilità del p. di fòro interno, né il CIC ne parla al can. 24 [...] i canonisti ritengono generalmente che esso parli solo del p. di fòro esterno.”. L. Simeone, Precetto, cit. coll. 1901-2.

[24]  In questo senso A. Blat, Commentarius Textus Codicis Iuris Canonici, vol. I – Normae generales, Roma 1921, pag. 108.

[25]  Così invece F.X. Wernz – P. Vidal, op.vol.cit., pag. 259, nt. 247, e pag. 265, dove si aggiunge che in molti casi il diritto proprio dei religiosi prevede in via generale l’ultrattività degli ordini dei Superiori. A pag. 272, però, si precisa che l’applicazione del can. 24 ai precetti non giurisdizionali deve considerarsi analogica.

[26]  Cfr. Ibid., pagg. 261-2; “quamvis vix fiet ut imponantur sine legitimo documento” (pag. 266).

[27]  Cfr. ad es. la diversa opinione di M. da Casola, Compendio..., cit., pag. 87, secondo cui essi “praticamente non si distingu[o]no dalle leggi” e “sembra che non cessino, cessando il diritto del precipiente, eccetto che simultaneamente non cessi pure adeguatamente il fine dello stesso precetto, oppure non sia stabilito atrimenti dal diritto particolare; purché tuttavia il precipiente possieda la giurisdizione”.

[28]  Chiosa A. Blat, op.loc.cit.: “ut nempe per se fidem faciat in foro externo”.

[29]  Così F.X. Wernz – P. Vidal, op.vol.cit., pag. 270: “...quale iam est scriptum authenticum nomen praecipientis ferens et sigillum appositum, nec necessarium est ut sit docuentum publicum”. Ma “not merely a paternal letter”, nota opportunamente Ch. Augustine, A Commentary on the new Code of Canon Law, vol. I, St. Louis-London 1918, pag. 105.

[30]  Cfr. infatti F.X. Wernz – P. Vidal, loc.ult.cit.: “Iudicialiter urgeri posse videtur significare impositionem obedientiae per constrictionem iudicialem. Ai quodlibet praeceptum fori externi, mediis extraiudicialibus urgeri potest; insuper consequentiae iuridicae inobedientiae praecepto iurisdictionali externi fori, etiam per sententiam iurisdictionalem agnosci et decerni poterunt, si et praeceptum datum et inobservantia legitimis probationibus in iudicio constabunt.”. L. Simeone, Precetto, cit., col. 1901, distingue tra “p. munito di sanzione penale e p. munito di sanzione disciplinare. La natura e l’origine della diversa sanzione non vanno prese esclusivamente dal potere del Superiore che dà il p., a seconda cioè che esso goda o meno di giurisdizione, ma anche a seconda di quanto egli avrà voluto effettivamente disporre se è capace dell’uno e dell’altro p. Tuttavia, per diritto positivo e per norma tassativa del can. 24 CIC, perché l’osservanza possa esserne pretesa in giudizio e munita cli pena ecclesiastica propriamente detta la sua violazione, il p. deve essere dato in forma solenne, ossia, o con legittimo documento anche privato (a maggior ragione se pubblico), o davanti a due testimoni che siano abilitati a far da testi nei tribunali ecclesiastici a norma dei cann. 1756-58. I Superiori sprovvisti di giurisdizione non possono imporre p. muniti di pene in senso stretto, ma solo di penitenze (anche gravi ed esterne) o di provvedimenti disciplinari o di correzione o di ammonimenti extra-giudiziari. Queste norme hanno un’importanza capitale in determinati fatti previsti dal CIC e pertanto vanno attentamente vagliate.”. Nello stesso senso, P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 882, testo e nt. 75.

[31]  Cfr. ivi, can. 47: “Praeceptum singulare intelligitur decretum quo directe alicuius normae canonicae aut decreti observantia urgetur contra invitos.”.

[32]  Cfr. P. Lombardía, op.loc.cit.; P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 878; E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 315, sembra rigettare il concetto stesso di potestà dominativa (“in realtà, personale e temporale”); V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pagg. 332-3; I. Zuanazzi, Praesis ut prosis..., cit., pag. 527, che nota altresì che “Nello schema del 1971 era stato anche inserito un articolo dedicato ai precetti dati da potestà diversa da quella di regime”, ma non è sopravvissuto (pag. 526 nt. ); P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 230; J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 249.

[33]  P.A. Bonnet, Precetto, cit., pagg. 876-7.

[34]  Il canone in parola già ammette eccezioni; ma siccome potrebbe sorgere controversia sulla loro applicabilità al caso, in particolare se poi il Parroco fosse trovato innocente, la clausola derogatoria sarà sempre apposta utilmente, se non altro ad cautelam.

[35]  E. Labandeira, Trattato..., cit., pag. 315, sembra ritenere che il precetto orale sia di foro interno; ma nulla di per sé impedisce a priori che sia noto e perfino notorio, visto che la presenza di due testimoni non consente più di renderlo coercibile. Anzi, se vogliamo essere precisi, si può anche considerare l’ipotesi in cui una documentazione scritta esiste, ma non si può parlare di intimazione per legittimo documento: pensiamo ad un Vescovo che, intervistato, dichiari al periodico della Diocesi di aver ordinato a voce a Tizio di desistere dalla tal condotta; qui si avrebbe la prova scritta, ma non l’intimazione nelle forme dei cann. 54-6, quindi il precetto resterebbe non coercibile e destinato a spirare resoluto iure praecipientis.

[36]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 251. Anzi, per J. Miras, L’oggetto del ricorso contenzioso-amministrativo canonico, in E. Baura – J. Canosa (curr.), La giustizia nell’attività amministrativa della Chiesa: il contenzioso amministrativo, Milano 2006, pagg. 275-304, qui 291 nt. 18, “Si tratta, comunque, di un’attuazione irregolare [della potestà] nel contesto degli atti amministrativi”, anche se, con “irregolare”, l’Autore intende certo una deroga ai canoni di normalità e non un vizio, posto che contestualmente riconosce che “il can. 58 § 2 sembra riconoscere una certa forza vincolante” al precetto orale.

[37]  Così, infatti, sia pure con una sfumatura di dubbio, P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 882: “Poiché l’estrinsecazione scritta del precetto non incide, come si è detto, sulla validità dell’atto, dovrebbe presumersi che si sia voluto sancore legalmente, in mancanza di una forma scritta, l’esclusione di ogni potere da parte dell’autorità precipiente di realizzare unilateralmente, o addirittura coattivamente, il precetto sia direttamente [in via amministrativa] sia anche indirettamente, e cioè, in quest’ultimo caso, attraverso l’impulso di un’attività come quella giudiziaria, rimanendo però intatto, anche per la coscienza, l’obbligo derivante dall’atto medesimo con tutta la sua carica intrinseca di coattività”; e prosegue notando, a ragione, che restrizioni analoghe non possono predicarsi degli altri precetti, in mancanza di una norma ad hoc. Questo, per inciso, è un altro motivo per ritenere che i precetti orali dei Superiori religiosi debbano intendersi dati in forza della potestà dominativa (o comunque del loro diritto particolare) e perciò restino coercibili anche secondo il CIC.

[38]  Mentre il decreto orale deve considerarsi del tutto inefficace, ai sensi del can. 54 §2, il can. 58 §2 presuppone che il precetto orale produca effetti giuridici, ancorché limitati, e si tratta allora di interrogarsi su quest’efficacia (v. subito infra nel testo).

[39]  Cfr. V. de Paolis, Il Libro I..., cit., pag. 337.

[40]  Cfr. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 252.

[41]  Non perché il precetto orale sia invalido, ma perché il can. 55, consentendo in via eccezionale l’intimazione a voce, presuppone che si stia dando lettura di un testo che esiste già ed è completo di motivazione. Quindi, occorrerebbe in concreto che il documento posteriore fosse formulato come una nuova manifestazione di volontà, del tipo: “Rilevato che in data... abbiamo ordinato a voce a Tizio di...; rilevato che a tutt’oggi egli non ha provveduto; visto che ai sensi del can. 58 §2 non si può urgere l’osservanza dei precetti verbali e ritenuto d’altronde opportuno richiamare la sua attenzione sulla gravità...; con le presenti ordiniamo...”.

[42]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio…, cit., pag. 252.

[43]  P.A. Bonnet, Precetto, cit., pag. 888, negando che il precetto penale sia atto amministrativo per il suo carattere innovativo dell’ordinamento, nega anche che ad esso si applichino i cann. 37 e 51, quindi ritiene possibile la sua intimazione orale. Ma la tesi, a mio avviso già infondata perché un precetto che richiederebbe, ex hypothesi, garanzie di certezza anche superiori all’atto amministrativo resterebbe, invece, nel pernicioso limbo di un’informalità totale, non è più sostenibile dopo la riforma del 2021, che ha espressamente assoggettato il precetto penale ai cann. 48-58.

[44]  Il can. 1342 §1 prevede che rimedi penali e penitenze possano sempre essere applicati per decreto; ma questo non sembra precludere l’ulteriore possibilità del precetto orale, come non preclude il loro impiego da parte del giudice.

[45]  Segreteria di Stato della S. Sede (cur.), Rapporto sulla conoscenza istituzionale e il processo decisionale della Santa Sede riguardante l’ex Cardinale Theodore Edgar McCarrick (dal 1930 al 2017), Città del Vaticano 2020, pagg. 10-1.

[46]  Cfr. Ibid., pag. 11: “Una serie di fattori sembra aver influito sul fatto che Papa Benedetto XVI non ha avviato un procedimento canonico formale: non c’erano accuse credibili di abusi sui minori; McCarrick dichiarò nuovamente, sul suo ‘giuramento di vescovo’, che le accuse erano false; gli addebiti di cattiva condotta con adulti si riferivano a fatti accaduti negli anni ‘80; e non vi erano indicazioni di alcuna cattiva condotta recente.”. Non trattandosi di accuse che riguardassero minori, la prescrizione triennale (can. 1362) doveva considerarsi maturata da tempo.

[47]  Cfr. Ibid., pagg. 269-76. Il precetto, anche se per il suo contenuto di ordine deve avere un oggetto prestabilito, può comunque avere un esecutore, come tutti gli atti amministrativi canonici, e ciò soprattutto quando abbia carattere alternativo o lasci un certo margini di discrezionalità, p.es. “Si eviti un’esposizione pubblica eccessiva od inopportuna”.

[48]  Il Card. Re, in un’intervista, ha affermato che la sua lettera del 14 giugno 2008 a McCarrick ‘non era di natura giuridica’ e dipendeva dalla previsione che il Card. McCarrick, in quanto Vescovo, avrebbe ottemperato alla richiesta della Santa Sede “. Ibid., pag. 296.

[49]  Dall’autunno del 2008 all’autunno del 2011, McCarrick proseguì la sua attività, anche se generalmente con un profilo più basso. “. Ibid., pag. 343.

[50]  Anche tenendo conto del fatto che in quegli anni si partiva dalla presunzione o perfino dalla convinzione che McCarrick fosse innocente, si resta impressionati, quando si leggono i documenti pubblicati all’interno del Rapporto, per l’evidente contraddizione tra la ritenuta esigenza di evitare lo scandalo e la riluttanza ad impedire con fermezza le sue attività pubbliche, perché si riteneva che i viaggi costanti e l’esser sempre circondato di gente fossero esigenze caratteristiche della sua personalità.

[51]  In teoria se ne poteva prescindere, è vero, ma di fatto una valutazione diversa sulla colpevolezza non poteva non riverberarsi anche sull’apprezzamento della gravità dello scandalo e, più ancora, delle trasgressioni al precetto orale.

[52]  La ricostruzione di Mons. Viganò sembra partire dal presupposto di un giudizio sostanziale di consapevolezza, come tale spettante al Papa e a nessun altro in forza del can. 1405 §1 n. 2°, e quindi di un carattere sanzionatorio (almeno de facto) del precetto orale. Quest’ultimo aspetto appare, ovviamente, contestabile già in astratto; ma si può pensare ad un rimedio penale o ad una penitenza, che, come indicato supra nel testo, si possono verosimilmente irrogare anche in questa forma. Il Rapporto, invece, asserisce che un tale giudizio non vi fu e che l’atto, in quanto misura precauzionale volta a mitigare un eventuale scandalo futuro, rientrava nella competenza della Congregazione per i Vescovi (come dire che era un atto amministrativo senza implicazioni penali). Se i documenti ivi citati sono genuini, completi e non inficiati neppure dall’omissione di altri, non vi è dubbio che abbia ragione il Rapporto, ma questo sottolinea la difficoltà di distinguere, in concreto, un precetto motivato da semplici ragioni di opportunità da una misura più grave, soprattutto in assenza di una compiuta motivazione e ancor più di un’istruttoria sui fatti. Ulteriore problema è poi la paternità dell’atto: secondo il Rapporto, Benedetto XVI lo ha approvato (a voce), ma in linea generale questo non lo rende un atto del Papa.

[53]  Ai sensi del can. 134 §1, il termine “Ordinario” designa sia il Vescovo sia il Vicario generale, quindi è possibile che il precetto sia impartito dall’uno e la disobbedienza valutata dall’altro; il vincolo istituzionale resta però molto stretto, in entrambe le direzioni, a fortiori se si suppone che l’autore del precetto orale sia ancora in carica (e lo deve essere affinché questo conservi efficacia).

[54]  A rigore, non si tratterebbe di un caso di utilizzo della scienza privata del giudice: il relativo divieto è natio in ambito canonico al fine di precludere l’impiego di conoscenze acquisite in veste di confessore; tuttavia qui si tratta di scienza pubblica, perché relativa all’ufficio ricoperto e al suo esercizio in foro esterno. Vero che non si tratta dell’esercizio della funzione di giudice, bensì di quella amministrativa, però (almeno nel caso del Vescovo) l’ufficio è unitario, non si tratta di più uffici distinti cumulati nella stessa persona.

[55]  J. Miras, L’oggetto..., cit., pag. 291, nt. 18.