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Decreto singolare: istruttoria, motivazione ed efficacia

Particolarità della disciplina e regolamentazione del procedimento amministrativo
decreto singolare
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Sommario

1. L’istruttoria (can. 50)

2. Forma del decreto e motivazione della decisio (can. 51)

3. Efficacia soggettiva (can. 52)

4. Antinomie tra decreti singolari e loro successione nel tempo (can. 53)

4.1 Decreti singolari che derogano a decreti generali (ibid.)

5. Efficacia e coercibilità (can. 54)

6. Forme alternative di comunicazione (cann. 55 e 56)

7. Cessazione (can. 58)

 

 

Can. 50 – Prima di dare un decreto singolare, l’autorità ricerchi le notizie e le prove necessarie, e, per quanto è possibile, ascolti coloro i cui diritti possono essere lesi.

Can. 51 – Il decreto si dia per iscritto esponendo, almeno sommariamente, le motivazioni, se si tratta di una decisione.

Can. 52 – Il decreto singolare ha forza obbligante soltanto circa le cose sulle quali dispone e per le persone cui è dato; queste però le obbliga dovunque, se non consta altro.

Can. 53 – Se i decreti sono tra di loro contrari, quello peculiare, nelle cose che vengono espresse in modo peculiare, prevale su quello generale; se sono ugualmente peculiari o generali, quello successivo nel tempo abroga il precedente, nella misura in cui gli è contrario.

Can. 54 – §1. Il decreto singolare, la cui applicazione viene affidata all’esecutore, ha effetto dal momento dell’esecuzione; in caso contrario dal momento in cui viene intimato alla persona per autorità di colui che emette il decreto.

§2. Il decreto singolare, per poterne urgere l’osservanza, deve essere intimato con un legittimo documento a norma del diritto.

Can. 55 – Fermo restando il disposto dei cann. 37 e 51, quando una gravissima ragione si frapponga alla consegna del testo scritto del decreto, il decreto si ritiene intimato se viene letto alla persona cui è destinato di fronte a un notaio o a due testimoni, con la redazione degli atti, da sottoscriversi da tutti i presenti.

Can. 56 – Il decreto si ritiene intimato, se colui al quale è destinato, chiamato nel dovuto modo a ricevere o ad udire il decreto, senza giusta causa non comparve o ricusò di sottoscrivere.

Can. 57 – §1. Tutte le volte che la legge impone di dare un decreto oppure da parte dell’interessato viene legittimamente proposta una petizione o un ricorso per ottenere il decreto, l’autorità competente provveda entro tre mesi dalla ricezione della petizione o del ricorso, a meno che la legge non disponga un termine diverso.

§2. Trascorso questo termine, se il decreto non fu ancora dato, la risposta si presume negativa, per ciò che si riferisce alla proposta di un ulteriore ricorso.

§3. La presunta risposta negativa non esime la competente autorità dall’obbligo di dare il decreto, e anzi di riparare il danno eventualmente causato, a norma del can. 128.

Can. 58 – §1. Il decreto singolare cessa di avere vigore con la revoca legittima da parte dell’autorità competente e altresì cessando la legge per la cui esecuzione fu dato.

§2. Il precetto singolare, non imposto con legittimo documento, cessa venuto meno il diritto di colui che lo ha dato.

 

 

Illustrata con una certa ampiezza la nozione di decreto singolare, possiamo passare alle particolarità della sua disciplina e, specialmente, all’embrione di regolamentazione del procedimento amministrativo che ci si potrebbe forse aspettar di trovare nelle norme comuni a tutti i provvedimenti, ma che in realtà contraddistingue i decreti perché – in linea di principio – il rescritto fa a meno dell’istruttoria, si affida alla buona fede del richiedente e all’esaustività della richiesta, salvo il controllo successivo in sede di esecuzione.[1] Del resto, il rescritto viene sempre emesso su domanda e – secondo la disciplina odierna – può soltanto avere un contenuto favorevole all’interessato, quindi le esigenze di tutela sono minori (e i terzi pregiudicati, qualora ce ne siano, hanno buone probabilità di veder invalidato il provvedimento perché la loro esistenza è stata sottaciuta, o la loro posizione non correttamente rappresentata). Ma rispetto al decreto il nuovo Codice ha ritenuto necessario introdurre almeno un minimo di disciplina formale, che per la dottrina unanime è necessario ma tuttora gravemente insufficiente. Tratteremo a parte in futuro, per la particolare complessità dei problemi che pone, il can. 57 sul silenzio amministrativo.

 

L’istruttoria (can. 50)

Il can. 50 detta due prescrizioni distinte, che esauriscono la disciplina dell’istruttoria propriamente detta (mentre il can. 127 riguarda l’acquisizione di consensi e pareri).

Innanzitutto, esso impone all’autorità procedente di ricercare “necessarias notitias et probationes”. Il requisito, quasi tautologico, non è peraltro affermato a pena di invalidità; ma è chiaro che, se in concreto venisse a mancare un elemento necessario dell’atto, l’invalidità seguirebbe secondo le regole generali dei cann. 124 sgg.; e siccome il concetto di “necessità” va inteso in senso piuttosto lato, cioè come “rilevanza” rispetto al provvedimento che si pensa di dover assumere, l’incompletezza dell’istruttoria rischia comunque di rivelarsi fatale in un gran numero di casi. Non vi è alcuna disciplina relativa agli atti preparatori o istruttori, né alla loro documentazione; tuttavia, in sede di ricorso gerarchico, la cui disciplina rientra nell’ambito delle norme sui processi, dovrebbero rendersi applicabili i canoni previsti per le cause contenziose relative al bene pubblico, magari con i temperamenti del processo contenzioso orale. Ne segue che in concreto, quanto maggiore la probabilità di contenzioso, tanto più forte l’esigenza di attenersi alla disciplina per il compimento dell’istruttoria giudiziale, in quanto compatibile,[2] e comunque di documentare in modo attento ed esaustivo l’attività svolta. Di sicuro le prove, per esser tali, non debbono semplicemente far maturare una convinzione soggettiva in mente decernentis, bensì una certezza passibile di verifiche anche da parte di terzi; in effetti, l’importanza del termine probationes è somma, in quanto esso indica che all’autorità decretante non si deve credere sulla fiducia, che essa sarà, almeno potenzialmente, tenuta a dimostrare di aver ragione... quindi, come minimo, si dovrà procedere ad una verbalizzazione sommaria di testimonianze ed informazioni, a tenere copia dei documenti, a formare fascicoli, etc. etc.; ma tutto questo si deve, purtroppo, ricavare in via interpretativa, perché nel testo di legge non se ne fa menzione esplicita.

La seconda parte del canone, poi, prescrive (“per quanto possibile”, dunque neppure qui a pena di automatica invalidità)[3] l’ascolto di coloro i cui diritti potrebbero essere lesi. Si tratta di una delle norme in assoluto più invocate dinanzi alla Segnatura Apostolica – il che, del resto, non può sorprendere – quindi, una volta tanto, disponiamo di un discreto corpus di decisioni che può assolvere all’opportuna funzione integrativa ex can. 19; ma i risultati non sono dei più soddisfacenti.

Innanzitutto, vi è un’interpretazione piuttosto restrittiva riguardo ai beneficiari della norma: i “diritti” potenzialmente lesi sono specifiche posizioni soggettive individuali, tutelate dall’ordinamento; quindi dovrà essere sentito il destinatario del futuro decreto (salve eccezioni, come vedremo), però in genere non i portatori di interessi collettivi o diffusi. Per esempio, i parrocchiani non hanno un diritto di essere sentiti nella procedura per il trasferimento del parroco[4]transeat – ma neanche in quella per la soppressione della parrocchia, né i frequentatori abituali di una chiesa in quella volta alla sua riduzione ad usi profani, giacché il can. 214 riconosce al fedele un diritto soggettivo a rendere culto a Dio, non però a renderlo in un certo determinato luogo e/o ente parrocchiale;[5] essi tuttavia possono presentare ricorso, perché la legittimazione è riconosciuta in termini assai più ampi (cfr. can. 1737) a chiunque si senta gravato da un provvedimento. Quindi, vi è uno scollamento tra i soggetti la cui audizione è, almeno in linea di massima, necessaria e la più ampia platea dei legittimati ad impugnare (che, appunto per questo, se di fatto si fanno sentire è bene prendere comunque in considerazione).

Ancora, l’audizione è ritenuta superflua in caso di notorietà del fatto,[6] o della riorganizzazione della Curia locale da cui scaturisce la rimozione qua de agitur,[7] o se i soggetti potenzialmente lesi avevano già fatto conoscere la propria posizione nel momento in cui si erano opposti ad un decreto precedente.[8]

Ma anche quando viene riconosciuto, il diritto di essere sentiti non include quello di vedersi esibire ogni singolo elemento di prova,[9] salvo che sia espressamente prescritta da norme speciali l’offerta degli atti in visione.[10] Esso, inoltre, è stato ritenuto rispettato in cui caso in cui le due suore rimaste in un monastero di cui si prospettava la soppressione erano state informate del proposito per lettera e mediante una visita canonica, nel cui ambito era avvenuto l’ascolto;[11] e così pure in altra fattispecie in cui l’associazione di fedeli che si voleva sopprimere per seri problemi dottrinali era stata previamente ammonita per lettera.[12]

Infine, ma non da ultimo, si danno esclusioni soggettive di un certo peso, perfino rispetto ai destinatari diretti del decreto: passi che non debbano essere in qualche modo auditi gli organi consultivi destinati alla soppressione in forza di un atto normativo pontificio;[13] ma si è negato che abbia un verum ius anche il religioso accolto in Diocesi ad experimentum, cui il Vescovo intenda togliere l’ufficio conferitogli e negare l’incardinazione.[14]

Pur entro questi limiti, si deve dire che il can. 50 assicura una tutela vera; ma per molti versi essa sembra inadeguata alle esigenze. Sarebbe forse opportuno che norme speciali o di diritto particolare integrassero la norma con previsioni più mirate sui singoli procedimenti.

 

Forma del decreto e motivazione della decisio (can. 51)

Sebbene i decreti siano efficaci in foro esterno,[15] circa la loro forma il Codice ha scelto di non limitarsi ad un semplice rinvio alla norma generale del can. 37, che prevede la consegna del testo scritto; per il decreto singolare, il can. 51 impone, invece, un obbligo di forma scritta che la dottrina comune qualifica ad substantiam almeno quando la mancata intimazione per iscritto comporti l’inefficacia dell’atto (cfr. can. 193 §4), non però secondo la regola generale del can. 54 §1, compatibile con l’intimazione verbale.[16] Nello stesso tempo, il can. 55 consente di derogare alla necessaria consegna del documento, purché se ne dia lettura davanti al notaio o ad almeno due testimoni e la si documenti con apposito verbale. Quindi, l’atto viene sempre redatto per iscritto, ma non sempre il destinatario riceve il documento.

Altra importantissima previsione di questo caso è l’obbligo di motivare le decisioni, “saltem summarie”: l’obbligo non riguarda i decreti di provisio[17] e sta soprattutto in questa diversità di disciplina l’importanza della distinzione tra le due categorie.[18] Anche qui, la giurisprudenza ha avuto modo di esercitarsi, ma spesso in senso non favorevole ai ricorrenti: così, si è ritenuta rispettata la norma in un caso di dimissione di una religiosa dall’Istituto, anche se il Dicastero romano coinvolto non aveva risposto ad alcuni dei suoi argomenti, perché di fatto risultavano presi in considerazione da una separata lettera indirizzata non a lei ma alla Superiora dell’Istituto;[19] o rispetto ad un decreto di esclaustrazione che indicava come presupposto in fatto solo il “comportamento” del destinatario, perché l’addebito trovava specificazione in una lettera già in precedenza inviatagli dal competente Dicastero della Curia Romana (pur in assenza di una relatio formale);[20] o in un caso in cui il Dicastero si era limitato a rimandar alle cause addotte dai Superiori, genericamente, ma con un giudizio di convalida in globo ritenuto adeguato (anche perché poi di fatto il ricorrente era stato posto in condizione di conoscerle in dettaglio e contestarle).[21] Anzi, si è ammessa pure una sorta di “integrazione postuma” della motivazione per ordine del Dicastero competente, investito di ricorso gerarchico.[22] D’altronde, ai sensi del can. 1739 il Superiore adito potrebbe provvedevi direttamente, quando la causa risulti dagli atti.[23]

Nello stesso tempo, però, la Segnatura ha notato a più riprese che la sommarietà non esclude la necessaria congruenza dei motivi addotti rispetto al caso[24] e che l’insufficienza di motivazione è equiparata alla sua assenza;[25] tuttavia, è rimasta isolata la pur lucidissima c. Palazzini che ha affermato che la motivazione è un elemento essenziale della decisione amministrativa, in quanto atto impugnabile.[26] Bisogna, pertanto, concludere che “la sua omissione può provocare indirettamente la nullità dell’atto solo quando la considerazione di determinati elementi sia richiesta ad substantiam e dal testo del documento si possa dedurre che non siano stati adeguatamente valutati”.[27] Va detto, al riguardo, che il Supremo Tribunale preferisce, rispetto ad una declaratoria di illegittimità formale, il riscontro nei fatti delle cause motive addotte o risultanti dagli atti, controllandone così rispondenza e proporzionalità ai requisiti di legge; tuttavia, è stato dichiarato illegittimo un decreto che non esprimeva l’unico motivo del trasferimento ivi disposto, anche se già comunicato in precedenza più volte dal Vescovo all’interessato.[28]

In definitiva, insomma, il controllo sulla motivazione dei provvedimenti appare abbastanza penetrante; sconta forse un eccesso di attenzione allo svolgimento complessivo della procedura, ma va anche detto che a questo riguardo si predilige un approccio non formale, che eviti soluzioni inique nel caso concreto. Probabilmente, la Segnatura Apostolica, consapevole della ristrettezza dei limiti entro cui il suo intervento si dispiega – dato che il ricorso contenzioso-amministrativo è costruito come un rimedio solo rescindente, e solo per ragioni di legittimità – preferisce temperarne gli inconvenienti evitando di far reiterare provvedimenti di cui, in sostanza, sia stata comunque riscontrata la linearità logica; ma, dinanzi al poco conto in cui è spesso tenuto l’obbligo di motivazione, un atteggiamento più rigoroso sembrerebbe assai opportuno. E anche facile: basterebbe introdurre una presunzione relativa di non-valutazione di quanto non si trova, almeno, riferito nelle premesse del decreto.

 

Efficacia soggettiva (can. 52)

Il can. 52, affermando che il decreto singolare riguarda esclusivamente le persone dei destinatari (anzi, verrebbe da dire “consegnatari”, perché l’espressione “quibus datur” richiama l’esigenza della consegna come momento integrativo dell’efficacia, ex can. 54), in modo implicito conferma che il provvedimento fa salvi i diritti dei terzi: caratteristica notissima del diritto amministrativo italiano, ma anche del tradizionale strumento canonico del rescritto. Si tratta quindi di un principio comune ai due tipi di provvedimento, tuttavia non se ne trova traccia nelle norme generali, forse perché i rescritti possono essere concessi anche in favore di soggetti diversi dal richiedente.

Sotto altro aspetto, asserire che gli effetti giuridici del decreto riguardano soltanto le res su cui esso provvede significa ribadire che, nella materia degli atti singolari, non si dà luogo ad estensione analogica (cfr. can. 36 §2).[29] La formulazione in positivo, anziché in negativo, serve però forse a delineare un’efficacia oggettiva sulla res, distinta da quella soggettiva e capace di abbracciare, almeno in linea di principio, oltre agli aventi causa in senso tecnico, qualunque soggetto si venga a trovare in una posizione rispetto a cui i comandi o divieti di cui al tale o talaltro decreto rilevano, per qualunque motivo. Un esempio banalissimo: se il Veescovo in visita pastorale impartisce disposizioni per il decoro della chiesa parrocchiale, ad es. disponendo che sia pulita almeno una volta la settimana, il provvedimento non si rivolge alla sola persona del Parroco (infatti dura anche se altri gli subentra nell’ufficio) e neppure alla sola serie dei Parroci presenti e futuri, ma, pur se formalmente indirizzato a lui, coinvolge tutti i fedeli che si trovano o verranno a trovarsi coinvolti nella cura della chiesa, sebbene in linea di principio il compito di organizzarne e coordinarne l’azione spetti al Parroco.

Infine, l’obbligatorietà del decreto, salva disposizione contraria, non è circoscritta ad un ambito territoriale. Il principio di territorialità, infatti, salva indicazione diversa vale per le leggi particolari, in ragione del loro carattere di generalità (cfr. can. 13 §1), e l’eadem ratio porta ad estenderlo agli atti amministrativi (a loro volta) generali, come si desume dal can. 136; però quest’ultima norma prevede anche che la potestà esecutiva, di regola, si esercita soltanto sui sudditi. Il can. 53 completa la regola dicendoci che, una volta esercitata detta potestà mediante decreto singolare, il suddito resta obbligato anche se si trovi fuori del territorio.[30]Tuttavia è possibile che consti diversamente: sia ex natura rei, sia per le motivazioni che stanno alla base del decreto, sia per la volontà del superiore.”.[31]

 

Antinomie tra decreti singolari e loro successione nel tempo (can. 53)

Il can. 53 si occupa dei casi di contrarietà tra il contenuto di due decreti; e considerato che la revoca, invece, è disciplinata al can. 58 §1 (cfr. infra, §7), deve per prima cosa concludersi che là si tratti della sola revoca espressa e che il can. 53 entri in gioco quando manchi una manifestazione di volontà diretta a regolare il possibile contrasto.

La sedes materiae porterebbe a concludere che gli atti interessati possano essere soltanto decreti singolari; e tale è invero la posizione di parte della dottrina.[32] Tuttavia, le norme recate dal canone suscitano più di un dubbio, perché il criterio risolutore delle antinomie viene ravvisato, in prima battuta, nella maggior “peculiarità” di uno dei due decreti; prevale quello più recente soltanto se sono “egualmente particolari” o... “egualmente generali”.

A scanso di equivoci, mi sembra anzitutto necessario precisare che il carattere “singolare” dei decreti ex cann. 48 sgg. non implica affatto che essi possano rivolgersi soltanto ad un destinatario per volta; al contrario, possono essere diretti a più destinatari individuati, a gruppi interi, a persone giuridiche e così via; il limite oltre il quale dovrebbero essere qualificati come generali è piuttosto evanescente, tanto più che sia i decreti esecutivi sia le istruzioni sono definiti sulla base della rispettiva funzione, più che dell’ambito soggettivo di efficacia.[33] Senz’altro, se per qualunque motivo un provvedimento venisse emanato in forma di decreto singolare, dettasse disposizioni per far applicare una data legge (poniamo, diocesana) ed elencasse uno per uno tutti i possibili destinatari (p.es. enumerando tutte le parrocchie esistenti rispetto ad una legge rivolta ai parroci), si dovrebbe qualificarlo decreto generale esecutivo;[34] ma l’omissione anche di un solo destinatario sarebbe un ostacolo serio, stante il divieto di estensione posto dal can. 52. Stando così le cose, si capisce perché possano darsi decreti “più singolari” di altri. Allo stesso modo, ve ne possono essere di “più generali” di altri, anche se tendenzialmente una simile diversità nell’ambito di applicazione dovrebbe discendere dalle rispettive leggi: può darsi, infatti, il caso di due leggi perfettamente compatibili in astratto – cosicché a livello di fonte primaria non si pongono problemi di abrogazione o deroga – ma le cui disposizioni applicative si trovino a confliggere.

Tuttavia, a mio avviso, il fatto che si possa parlare di maggiore o minor generalità anche rispetto ai decreti singolari non basta per concludere che il can. 53 si riferisca solo ad essi ed escluda, pertanto, i decreti generali propriamente detti. Ciò per diverse ragioni:

  1. in tale ipotesi, il problema di una possibile antinomia tra decreti generali e decreti singolari sarebbe privo di disciplina legislativa, esito o intento che difficilmente si potrebbero presumere in un legislatore storico che ha senz’altro voluto assoggettare ad un principio di legalità gli atti dell’amministrazione ecclesiastica;
  2. a tal proposito, il can. 38 prevede la soggezione dell’atto singolare alla legge, ma non anche al decreto generale esecutivo della medesima;
  3. la conseguente lettura a contrario è confermata, poi, dalla preferenza del can. 53 per il criterio della maggior peculiarità, che può evidentemente darsi, anzi si dà per definizione, anche tra decreto generale e decreto singolare;
  4. la tesi opposta renderebbe inutile la menzione dei “decreta aeque generalia, dato che sarebbe bastato parlare di “decreta aeque peculiaria” per esaurire tutte le situazioni in cui prevale il principio di posteriorità cronologica, e il legislatore del Codice è stato fin troppo attento ad evitare ogni pur minimo sospetto di superfluitas verborum;[35]
  5. stante anche l’assenza di discussioni nell’ambito dei lavori preparatori, è lecito supporre che si sia voluto semplicemente trasporre ai decreti l’antecedente can. 48 CIC17 sui rescritti, che riprende e riassume il diritto delle Decretali, elaborato quando esistevano anche rescritti che corrispondevano perfettamente agli odierni decreti generali;[36]
  6. la presenza di una regola analoga al can. 67 §1, in tema di rescritti, porta a concludere che il Codice esprima come principio generale dell’azione amministrativa una presunzione di miglior rispondenza alle esigenze del caso concreto in favore della disposizione ad esso più vicina. Il che a sua volta corrisponde meglio alla funzione assegnata alla potestà esecutiva in ambito canonico, che non si può certo ridurre alla semplice “applicazione” della norma generale, non foss’altro che per il fatto di includere la concessione di dispense.

Quindi, mentre si rimanda alla trattazione dedicata agli atti generali per il caso di contrasto tra decreti generali esecutivi emanati da autorità diverse,[37] occorre trattare in questa sede il distinto problema della deroga, da parte di un decreto singolare, ad un decreto da qualificarsi generale ai sensi dei cann. 31-33.

 

Decreti singolari che derogano a decreti generali (ibid.)

Come già si è accennato, il can. 53 risolve il problema delle antinomie privilegiando il principio Generi per speciem derogatur (Regulae Juris in VI, n. 34): nella misura in cui sussiste una vera antinomia, anche solo parziale, la disposizione (più) particolare prevale su quella (più) generale. Non conta l’ambito di applicazione astratto dei decreti coinvolti, ma il grado di peculiarità rispetto alla questione concreta: la regola enuncia, infatti, bensì la prevalenza del decreto peculiare, ma “nelle cose che sono espresse in modo peculiare”, da intendersi sia rispetto ai soggetti sia riguardo all’oggetto. La ratio può essere delineata in termini volontaristici o come presunzione di maggior adeguatezza alla fattispecie, che è principio generale nel sistema delle fonti.[38] Invece, se si riscontra che gli atti in contrasto sono egualmente peculiari od egualmente generali, si riscontra il fenomeno della successione nel tempo, “sulla base della considerazione che il superiore conosca il precedente [provvedimento] ed abbia voluto derogare ad esso con il secondo. Ciò si può opportunamente supporre nei decreti, non invece nei rescritti”, per i quali infatti vale la regola opposta (can. 67 §2).[39]

Il decreto singolare, in forza del can. 53, prevale anche sul decreto generale esecutivo, ma con alcuni limiti:

  1. in primo luogo, l’atto singolare deve essere emanato dall’autorità competente, requisito che in questo caso deve intendersi come “competente (anche in via non esclusiva) ad eseguire la stessa legge di cui tratta il decreto generale”;
  2. inoltre, nella misura in cui la divergenza tra i due atti si fondi su una diversa interpretazione della legge, entrambi sono potenzialmente illegittimi e viziati, sicché la sopravvivenza dell’uno piuttosto che dell’altro dipenderà dall’esito ultimo della disputa interpretativa;
  3. il problema dell’opportunità – non della “semplice” legittimità – della deroga apportata al decreto generale può essere sollevato da chi se ne senta leso come “giusto motivo” di ricorso avverso il decreto singolare, ex can. 1737, e rivalutato dal Superiore gerarchico.

 

Efficacia e coercibilità (can. 54)

Anche per il decreto singolare esiste la possibilità di un’applicazione demandata all’esecutore e dunque ad un’attività amministrativa ulteriore, come per i rescritti in forma commissoria. Ciò si poteva desumere già dalla presenza dell’istituto dell’esecuzione nelle norme comuni a tutti gli atti singolari; ma trova espressa conferma nel can. 54 §1. Occorre però osservare che, stante la natura del decreto singolare, che non è mai un atto interlocutorio, la sua esecuzione non può che avvenire “in forma commissoria necessaria”, cioè sul presupposto che il provvedimento sia già stato assunto[40] (diversamente si avrebbe la delega a provvedere); tuttavia, pur venendo ad esistenza nel momento in cui la volontà dell’autore viene manifestata all’esterno,[41] esso non è immediatamente efficace e lo diventa solo all’esito dell’attività di controllo demandata all’esecutore, se e in quanto sia positivo.

Quando, invece, l’autore del decreto ritiene conclusa l’attività amministrativa e provvede senza designare alcun esecutore, l’efficace decorre dal momento in cui il decreto viene “intimato”, ossia comunicato in forma ufficiale (non contano le notizie apprese per vie traverse, si richiede una comunicazione disposta dall’autorità provvedente). Non viene esplicitamente prescritta una forma particolare, ma dal combinato disposto tra i cann. 37, 54 §2 e 55 fa comprendere che – ordinariamente – la intimatio avviene mediante consegna al destinatario del testo scritto del decreto (legitimum documentum). “A tal fine è indifferente che venga eventualmente unita al testo una lettera o uno scritto di accompagnamento: ciò che conta è che sia consegnata una copia autentica del decreto al destinatario, per posta (mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, affinché consti la data della notifica), oppure a mano[42] (e anche in questo caso, ad es. mediante una firma per ricevuta, si dovrà dare certezza alla data).

Di fatto, però, l’intimazione può realizzarsi anche in forma atipica, cioè diversa sia da questa sia dalle due eccezionali previste ai cann. 55 e 56: abbiamo già visto che può essere il caso dell’esternazione a voce da parte dell’autore dell’atto. In tal caso, infatti, il provvedimento resta valido e anche efficace; il can. 54 §2 tutela il destinatario – che non potrebbe provare la tempestività del proprio eventuale ricorso gerarchico, per non parlare poi del contenuto o delle motivazioni – rendendo tale decreto non coercibile. Questo, però, può essere un problema soltanto per le decisioni: se la nomina di Tizio a Parroco avviene a voce, ma Tizio è d’accordo e la Parrocchia è vacante, tutti gli effetti giuridici della nomina si producono senz’altro.[43]D’altra parte, difficilmente l’autorità potrebbe eludere il dovere di ricorrere alla forma scritta o, perlomeno, a quella prevista al c. 55, qualora l’amministrato lo richiedesse ad ulteriore garanzia dei propri diritti.”.[44] Invero, gli basterebbe rifiutare di ottemperarvi spontaneamente per mettere l’autorità con le spalle al muto.

 

Forme alternative di comunicazione (cann. 55 e 56)

Il legislatore, pur tenendo ferma l’esigenza della redazione scritta del provvedimento, ha voluto prevederne anche una intimazione orale (can. 55) e una fittizia (can. 56).

Il can. 55 prevede in sostanza che l’interessato compaia per udire la lettura del testo del decreto, davanti ad un notaio o a due testimoni, e sottoscriva il relativo verbale. A questa procedura si pi-uò fare ricorso soltanto quando una gravissima ratio si oppone alla consegna del documento: si tratta, in buona sostanza, di pericoli – del tutto eccezionali per entità – che sia abbia concreta ragione di temere da una successiva divulgazione od ulteriore circolazione del testo. “Per esempio, a causa di una situazione di ostilità nei confronti della Chiesa in un determinato Paese, oppure a motivo di una o più circostanze congiunturali che facciano prevedere gravissimi danni qualora il testo finisse in altre mani (stampa, tribunali civili, persone incidentalmente menzionate nel decreto ecc.). deve essere in ogni caso salvaguardato il diritto di difesa, per modo che, qualora l’interessato decidesse di ricorrere, posto che non potrà unire al ricorso copia autentica del decreto, si dovrà spedirgli il certificato dell’atto di notifica. Il superiore che ammette il ricorso dovrà, da parte sua, richiedere la necessaria informazione riservata all’autore del decreto.”.[45]

Dal canto suo, il can. 56 completa il quadro prevedendo due possibili ostacoli al perfezionarsi della notifica: il rifiuto da parte del destinatario di sottoscrivere il verbale ex can. 55, che non inficia la validità di quest’ultimo come prova dell’avvenuta intimatio (perché la sottoscrizione del notaio, oppure quella dei due testi, bastano comunque a fare prova piena; si noti che non è previsto che nel verbale si faccia menzione del rifiuto, ma sarebbe opportuno a scanso di contestazioni posteriori); la mancata comparizione a ricevere la consegna del documento o udirne la lettura. In quest’ultimo caso, si può ben parlare di notifica fittizia, poiché la conoscenza dell’atto in realtà non avviene, o comunque non avviene mediante intimatio (si può ben supporre che l’interessato non si presenti perché sa per altre vie che l’atto gli è sfavorevole); tuttavia, il decreto si considera ad ogni effetto “intimato con legittimo documento”. Occorre, beninteso, che l’assenza non abbia una giusta causa, che potrebbe essere addotta anche in seguito, e che il destinatario fosse stato rite vocatus: anche qui, non si prescrive una forma specifica per la convocazione, ma l’esigenza di darne la prova rende necessario farla almeno constare per iscritto.[46]

Sebbene i cann. 55 e 56 siano imperniati sulla consegna del testo come ipotesi tipica, prassi e giurisprudenza hanno ampliato il novero delle possibilità consentite, accettando in primo luogo che la traditio avvenga mediante spedizione postale, d’altronde non solo ammessa ma addirittura prescritta dal can. 1509 per gli atti giudiziari; si è inoltre ritenuto che, almeno per analogia, inoltre, il can. 56 (insieme con il can. 1510 sul rifiuto di ricevere la citazione) consente di ritenere perfezionata l’intimazione anche nella raccomandata restituita al mittente per compiuta giacenza, essendosi riscontrata nella specie quantomeno la negligenza del Parroco destinatario.[47] Infine ma non da ultimo, si è ammessa anche la possibilità di un incontro pubblico, rispetto ad una contestata soppressione, in cui il decreto controverso era stato offerto a tutti in visione e lettura, ma la possibilità era stata rifiutata dalla ricorrente principale (e di fatto anche dagli altri).[48]

 

Cessazione (can. 58)

Tralasciate ipotesi di cessazione che non richiedono disciplina, come la morte del destinatario, il can. 58 §1 si limita a richiamarne due: la revoca, dunque la sopravvenienza di un atto amministrativo posteriore ed incompatibile, e il venir meno della legge che sta “a monte” del decreto. La revoca deve essere legitima, “a norma di legge”, quindi a rigore, se il nuovo provvedimento viene annullato, si accerta che l’anteriore non ha mai smesso di valere (salvo beninteso il caso di nuovo ed ulteriore esercizio del potere, anche da parte del superiore gerarchico investito del ricorso). Ma, anche quando sia legittima, la revoca di un decreto impugnato potrebbe non comportare in automatico la cessazione della materia del contendere nel processo contenzioso-amministrativo, se restasse da decidere la questione dei danni subiti, o uno scandalo da riparare, o se l’annullamento in autotutela non fosse prontamente eseguito.[49] Data la regola generale del can. 47, e comunque per il principio dell’actus contrarius, anche la revoca diviene efficace solo con l’intimazione.

La cessazione della legge, infine, deve intendersi in senso stretto: “cessando la legge che costituisce il fondamento della legittimità di ciò che il decreto dispone in modo specifico”.[50] Semplici successioni di testi normativi con sostanziale continuità del contenuto, o modifiche legislative anche importanti, ma che comunque consentano al decreto preesistente di mantenere una qualche base legale, non ne comportano la cessazione ipso iure, sebbene possano consentire o perfino imporre all’autorità esecutiva competente un nuovo esercizio della potestà provvedimentale.

Infine, il can. 58 §2, che a rigore non ci riguarda in questo momento perché è la sola disposizione dettata esclusivamente per i precetti, a contrario ci informa che i decreti singolari non perdono né valore né efficacia quando viene meno il diritto del loro autore, neppure se questi abbia omesso di intimarli con legittimo documento; il che conferma, d’altronde, quanto detto supra, §6, sul fatto che tali atti sono, in sé e per sé, perfettamente validi ed efficaci.

 

 

[1]    La dispensa super rato è l’eccezione che conferma la regola, perché in tal caso l’accertamento dei fatti si compie tramite un vero e proprio processo giudiziale, dimodoché la richiesta si presenta completa di tutti gli elementi e non richiede istruttoria.

[2]    Nel senso dell’applicabilità, “almeno orientativamente”, dei cann. 1526 sgg., cfr.. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 237.

[3]    In tal senso, cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto definitivo 14 novembre 2007, Nominationis parochi, c. Martinez Sistach, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 38008/06 CA (di seguito, per brevità, si citano solo gli estremi delle pronunzie, sottintendendo il nome del Supremo Tribunale, che dopotutto è il solo giudice amministrativo oggi esistente nell’intero ordinamento canonico). La giurisprudenza nota, peraltro, non ha mai fornito indicazioni sulla clausola “per quanto è possibile”, mostrando anzi una marcata riluttanza ad affrontare il tema; non si può che dire, con V. de Paolis, Il Libro I del Codice: Norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 334, che essa “non significa affidarsi all’arbitrio o al prudente giudizio del superiore: essa è una norma oggettiva di equità ed ha un valore oggettivo. Alla obbedienza a tale regola è comunque connessa la legittimità degli atti amministrativi”.

[4]    Cfr. Sentenza definitiva 16 gennaio 2016, Translationis a paroecia, c. Iannone, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 50175/15 CA.

[5]    Giurisprudenza costante a partire da Decreto definitivo 21 novembre 1987, Demolitionis ecclesiae, c. Castillo Lara, Comitato per la preservazione della chiesa parrocchiale di S.E. / Congregazione per il Clero, prot. n. 17447/85 CA, in Communicationes 20 (1988), pagg. 88-94, e Decreto definitivo 21 maggio 1988, Demolitionis Ecclesiae Paroecialis X, c. Rossi, Comitato per la preservazione della chiesa parrocchiale X / Congregazione per il Clero, prot. 17914/86 CA, in Ius Ecclesiae 33 (2021) [sic!], pagg. 623-34. Il can. 1222 §2, per la riduzione ad uso profano di una chiesa, richiede il consenso di quanti possono vantare legittimamente “diritti” sulla stessa, ma si tratta anche qui di diritti in senso stretto, nascenti da giuspatronato, da contratto o da altro titolo specifico: cfr. di nuovo Decreto definitivo 21 novembre 1987, cit.

[6]    Cfr. Decreto del Segretario 24 aprile 2013, Praecepti, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 47389/12 CA.

[7]    Cfr. Decreto del Segretario 23 luglio 2013, Amotionis ab officio vice-cancellarii, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 48091/13 CA.

[8]    Cfr. Sentenza definitiva 16 novembre 2011, cit.

[9]    Cfr. Decreto definitivo 5 maggio 1990, Exclaustrationis, c. Silvestrini, Rev.da X / CIVCSVA, prot. n. 18061/86 CA

[10]  È ad es. il caso del parroco interessato da un procedimento di rimozione (cfr. can. 1745 §1 n. 1), nel qual caso il diniego del suo diritto non può dirsi sanato se egli comunque risponda alle ragioni addotte dal Vescovo per giustificare il provvedimento. Cfr. Sentenza definitiva 16 novembre 2011, Amotionis a paroecia, c. Burke, prot. n. 44136/10 CA. Tuttavia egli ha diritto di vedere gli atti, non di vedersene consegnare copia: cfr. Sentenza definitiva 7 novembre 2013, Amotionis parochi, c. Caffarra, Rev. X / Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, prot. n. 46071/11 CA. L’apparente singolarità si spiega con il fatto che neanche nel processo canonico giudiziale le parti ottengono in prima persona copia degli atti del processo, cui accedono solo in via mediata attraverso i patroni; e in ambito amministrativo il diritto a valersi della loro assistenza è riconosciuto solo nella successiva fase del ricorso (cfr. can. 1738), che d’altronde comporta o dovrebbe comportare un riesame pieno nel merito.

[11]  Cfr. Decreto definitivo 29 febbraio 2008, Suppressionis monasterii, c. Coccopalmerio, Suor X / CIVCSVA, prot. n. 37162/05 CA.

[12]  Cfr. Decreto definitivo 20 aprile 1991, Iurium, c. Gantin, “L’Armée de Marie” / Pontificio Consiglio per i Laici, prot. n. 20012/88 CA.

[13]  Cfr. Decreto definitivo 14 novembre 2007, Iurium, c. Mussinghoff, Sig. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 38415/06 CA.

[14]  Cfr. Decreto del Congresso 28 febbraio 2002, Amotionis et incardinationis; diffamationis; iurium oeconomicorum; damnorum, prot. n. 31547/00 CA.

[15]  Non si può escludere a priori la possibilità di decreti efficaci soltanto in foro interno, ma la loro adozione appare oltremodo improbabile per mancanza di utilità; l’ipotesi ha forse più senso per i precetti.

[16]  Cfr. Sentenza definitiva 14 novembre 2007, Amotionis ab officio Vice-Rectoris Seminarii, c. Cacciavillan, Rev. X / Congregazione per l’Educazione Cattolica, prot. n. 37707/05 CA, che si appoggia alla communis opinio per ritenere valida la nomina originaria del ricorrente, avvenuta a voce, ma anche per escludere quella dell’altrettanto informale rimozione, precisando a quest’ultimo riguardo che l’ufficio non era tra quelli “a discrezione dell’autorità competente” e che la nomina verbale non aveva attribuito un diritto solo precario né poteva ritorcersi in danno del ricorrente.

[17]  Anzi, secondo V. de Paolis, op. cit., pag. 334, neanche i precetti; ma siccome il precetto è un decreto (cfr. can. 49) e non risulta contraddistinto come tertium genus tra provisio e decisio (cfr. can. 48), si tratta di comprendere a quale delle due categorie appartenga. Il tema sarà, naturalmente, trattato a suo tempo e luogo; ma basta leggere la definizione del Codice, insieme con il ragionamento svolto al fine di precisare i contorni della decisio, per comprendere che il precetto vi rientra in pieno.

[18]  Curiosamente, la restrizione dell’ambito applicativo alle sole decisioni è stata introdotta d’ufficio dalla Commissione di riforma, “quia tantum his in casibus requiritur absolute expositio motivorum”. Cfr. Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Relatio complectens synthesim animadversionum ab Em.mis atque Exc.mis Patribus Commissionis ad novissimum Schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a Secretaria et Consultoribus datis, Città del Vaticano 1981, pag. 28, ad can. 51.

[19]  Cfr. Decreto definitivo 26 aprile 1986, Dimissionis, c. Sabattani, Suor X / CRIS, prot. n.17083/85 CA. nello stesso senso e più radicalmente, nel senso che spetta al Dicastero il potere di apprezzare cosa sia rilevante o meno ai fini del decidere, Decreto definitivo 14 marzo 2009, Amotionis a paroecia, c. Erdö, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 39682/07 CA.

[20]  Cfr. Decreto definitivo 5 maggio 1990, cit.

[21]  Cfr. Decreto definitivo 20 settembre 2012, Exclaustrationis impositae, c. de Paolis, Rev. X / CIVCSVA, prot. n. 44605/10 CA. Ma analogamente già Sentenza definitiva 15 dicembre 1979, Dimissionis, c. Felici, Sor X / SCRIS, prot. n. 8984/77 CA.

[22]  Cfr. Decreto del Congresso 28 febbraio 2002, cit.

[23]  Cfr. Sentenza definitiva 24 giugno 2014, Exercitii ministerii sacerdotalis, c. Versaldi, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 47888/13 CA.

[24]  In particolare, non si può supplire mediante l’esame degli atti alla mancanza nel testo di una ragione purchessia per taluno dei provvedimenti adottati con il decreto: cfr. Sentenza definitiva 20 giugno 2013, Praecepti, c. Stankiewicz, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 45485/11 CA-

[25]  Cfr. Decreto definitivo 5 maggio 1990, cit.

[26]  Cfr. Sentenza definitiva 23 gennaio 1988, Dimissionis religiosi, c. Palazzini, Rev. X / CRIS, prot. n. 15721/83 CA, §9: “Haec, enim, necessitas motiva in iure et in facto exprimendi oritur ex ipsa natura decisionis administrativae: cum decisio administrativa impugnationi subiaceat, sive hierarchicae sive etiam iurisdictionali, si ipsa, in casu particulari, relativa motivatione careat, subiectum passivum illam congruis argumentationibus impugnare non valeret.”.

[27]  I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pag. 599, nt. 117.

[28]  Cfr. Sentenza definitiva 22 novembre 2008, Translationis, c. Burke, Ecc.mo Arcivescovo X / Congregazione per il Clero, prot. n. 38820/06 CA.

[29]  Inoltre, non esistendo norme speciali relative all’interpretazione dei decreti, si deve concludere che essa è retta in toto dal can. 36 §1. V. de Paolis, op. cit., pag. 335, considera però un caso speciale di interpretazione le regole sulle antinomie contenute al can. 53

[30]  Cfr. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pagg. 247-8.

[31]  V. de Paolis, op. cit., pag. 334.

[32]  Così in particolare J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pag. 248, secondo cui “Si tratta di maggior o minor generalità sempre nell’ambito del carattere singolare e concreto, proprio di questi decreti, per modo che, in ogni caso, deve trattarsi di una provvista o di una decisione per un caso singolare.”. Militano infatti per l’inclusione dei decreti generali – senza particolare approfondimento, segno che la cosa è apparsa ben chiara – V. de Paolis, op. loc. ult. cit., ed E. Labandeira, Trattato di Diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 400.

[33]  A mio personale avviso, e considerata anche l’iodierna impossibilità di esperire ricorso contro gli atti amministrativi generali, si dovrebbe optare per un’interpretazione restrittiva e qualificare “decreto generale” ai sensi dei cann. 31-33 solo quello il cui ambito di applicazione coincida con quello di efficacia soggettiva della legge cui si riferisce, almeno per quanto concerne la sfera di competenza dell’autorità esecutiva che lo emana: quindi, un decreto che attua una norma rivolta ai Parroci sarà generale se proverrà, poniamo, dall’Arcivescovo di Milano e avrà per destinatari tutti i Parroci dell’Arcidiocesi (anche se la legge è sopradiocesana; e anche nell’ipotesi particolare formulata subito di seguito nel testo).

[34]  Se invece la legge avesse come destinatari ultimi i fedeli, secondo i casi si potrebbe pensare ad un’istruzione rivolta ai parroci come autorità preposte ad applicarla (perlomeno se ciò implicasse l’esercizio di una potestà esecutiva che in genere il parroco non possiede).

[35]  La dicotomia peculiaria / generalia può intendersi in due modi: o si riferisce peculiaris all’oggetto, quindi al grado di specificità del contenuto, e generalis all’ambito soggettivo di applicazione; oppure, come mi sembra più corretto, si intendono per decreta aeque generalia tutti quelli dettati per classi di oggetti e/o soggetti che, nella sostanza se non anche nella forma, vengono a coincidere perfettamente. L’importanza di precisare che debbono essere “aeque generalia” consiste, allora, nel marcare implicitamente la distinzione rispetto al caso in cui si susseguono due decreti generali esecutivi, il secondo dei quali revochi implicitamente il primo, ai sensi del can. 33: il decreto singolare, ancorché formulato in termini generali, non determina una revoca del decreto generale propriamente detto (perché i loro ambiti di applicazione non coincidono mai del tutto, per definizione), bensì una sua inefficacia limitatamente a quanto disposto nell’atto che riguarda più da presso la situazione concreta.

[36]  E ciò sebbene gli autori del diritto antecodiciale solessero distinguere tra Decretalis, ossia la decisione del Papa “ad consultationem alicuius”, e Decretum, che si assumeva reso senza tale consultatio (cfr. ad es. un’opera di scuola come Anonimo, Synopsis Pirhingiana seu SS. Canonum doctrina ex fusioribus quinque libris Henrici Pirhing..., Roma 1849, pag. 10). Tra le fonti richiamate in apparato al can. 48 CIC 1917, si possono segnalare X.1.3.14 (Innocenzo III, Pastoralis officii), dove concorrevano una delega generale di giurisdizione ad alcuni giudici ed una speciale con espressa menzione della singola causa; X.1.17.9 (Alessandro III, Ex tua nobis), caso di conflitto tra una facoltà di dispensa ed alcuni rescritti di giustizia che urgevano il rispetto della norma generale, rispetto alle quali si fanno salve le dispense effettivamente concesse; VI.3.4.14 (Bonifacio VIII, Dudum venerabili), dove contrastavano una facoltà generale al legato pontificio di accettare rinunce a benefici e conferirli ed un provvedimento pontificio di conferimento di un beneficio nel momento in cui si fosse reso vacante. Cfr. inoltre le considerazioni dell’anzidetta Synopsis Pirhingiana, pagg. 36-7: “Si rescriptum generale nihil aliud concedat, quam quod iuri communi concessum est, tum rescriptum speciale, continens aliquid, contra vel praeter ius commune, derogat rescripto generali, tametsi de eo non fiat mentio [...] etiamsi per rescriptum generale concederetur aliquid, ultra ius commune, ut saepius v. g. appellari possit, quam de iure concessum est etc. adhuc tamen per speciale mandatum sive rescriptum derogaretur generali, quamvis in posteriore speciali nulla illius mentio facta fuisset […] Cum princeps alicui privilegium concedendus [concedens?], semper sibi potestatem reservasse censeatur, exigente necessitate, vel utilitate, generali illi concessioni, per speciale rescriptum derogandi, vel limitandi illud, si scilicet per generale rescriptum, non sit alicui, quoad omnem speciem contentam, iam acquisitum ius in re.”.

[37]  Il principio Lex posterior derogat priori presuppone, infatti, l’eguale forza degli atti confliggenti, che, nell’ambito della potestà esecutiva, si traduce in una eguale competenza a disciplinare la materia; nella misura in cui entra in gioco il principio gerarchico, oppure opera una riserva di competenza da parte del legislatore, non può aver luogo una successione ex can. 53 tra decreti generali di autorità diverse. Se però, ad es., il decreto della S. Sede contenesse disposizioni transitorie destinate ad applicarsi fino all’adozione di atti amministrativi generali da parte del Vescovo, questi avrebbe senz’altro competenza e il can. 53 tornerebbe in gioco.

[38]  Cfr. J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pagg. 248-9: “La ragione di questa norma risiede nel fatto che la più accentuata peculiarità di un decreto indica una maggior intenzione da parte della competente autorità di riferirsi in modo puntuale a una determinata situazione, per cui non si presume un mutamento se dalla stessa non viene manifestata una diversa volontà in un modo ugualmente diretto e specifico. Un decreto che impone un obbligo a carico di alcuni sacerdoti in riferimento alle domeniche di un determinato tempo liturgico verrà pertanto meno per uno di essi a fronte di un altro decreto contrario che lo riguardi direttamente o che si riferisca soltanto a uuna di queste domeniche. Se invece il provvedimento più generale è posteriore e non fa menzione di quekllo anteriore, quest’ultimo resta in vigore nei confronti del sacerdote interessato o in riferimento alla domenica in esso indicata.”.

[39]  V. de Paolis, op. cit., pag. 335. Cfr. anche J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pag. 272: “Di fatto, mentre la concessione di un rescritto suppone l’inizio di una situazione favorevole per il destinatario, la cui cessazione non si presume, a meno che l’autorità manifesti espressamente questa sua intenzione, i decreti rappresentano invece altrettante decisioni dell’autorità che, di propria iniziativa, può modifiicare un decreto anteriore a seguito di una nuova valutazione delle circostanze.”.

[40]  Così, pur nella diversità della terminologia, V. de Paolis, op. cit., pag. 335.

[41]  Il che può avvenire anche in forma orale, dato che di per sé la forma scritta è necessaria solo per la prova (can. 37) e per la motivazione in caso di decisio (can. 51).

[42]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pag. 244. La possibilità che la traditio avvenga mediante spedizione postale, tuttavia, non è prevista dal Codice ma dalla giurisprudenza (v. infra, §6).

[43]  Tanto più che il dies a quo davvero importante, nel caso degli uffici, è quello dell’effettiva presa di possesso. Che viene comunque documentato a parte e – in questo caso – può sanare anche la lacuna documentale.

[44]  P. Lombardía, ad can. 51, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi Complementari commentato, Roma 2020, pag. 103.

[45]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pag. 245.

[46]  Cfr. V. de Paolis, op. cit., pag. 336: “La chiamata deve constare attraverso un documento. Si suppone che non sia comparso entro il tempo utile a norma del can. 201.”.

[47]  Decreto definitivo 3 dicembre 2005, c. Mussinghoff, Amotionis Parochi, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 35758/04 CA. Nello stesso senso, ma sembra in un caso di rifiuto della raccomandata attestato dalla ricevuta di ritorno, Decreto del Segretario 5 marzo 2013, Revocationis facultatum, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 47312/12 CA.

[48]  Decreto del Segretario 31 maggio 2012, Reductionis ecclesiae in usum profanum, Sig.ra X e altri / Congregazione per il Clero, prot. n. 46612/12 CA.

[49]  Cfr., a contrario, Sentenza definitiva 27 novembre 2012, c. Lajolo, Suspensionis, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 45695/11 CA.

[50]  J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pag. 247.