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Lost in translation: la motivazione rinforzata e il senso perduto delle parole del giudice di legittimità

Nota a Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 37783/2021
Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Premessa

È propria dei giuristi, anche di quelli maggiormente propensi a uno sguardo critico, una tendenza conservativa.

Esaminano norme e interpretazioni e, facendolo, gli riconoscono senza eccezioni la prima e più importante legittimazione, quella di essere oggetti con i quali il confronto è possibile in quanto dotati di senso.

È una tendenza comprensibile e deriva, prima ancora che da principi ordinamentali, dall’equazione logica per cui, se qualcosa esiste, per ciò stesso ha ragione di esistere.

Un’equazione che diventa ancora più cogente per ciò che è prodotto dal potere costituito: se un atto proviene da un’istituzione legittimata a regolare la vita della comunità e dei singoli individui la sua ragione e il suo senso sono incorporati nell’autorità formale di chi lo ha emesso.

Ancora una volta nulla di male e di sbagliato: se questa identificazione venisse negata a priori verrebbe meno per ciò stesso il principio di effettività senza il quale nessun ordinamento potrebbe sopravvivere.

Sarebbe tuttavia un errore trascurare la bilateralità della relazione tra poteri pubblici e consociati. Se a questi ultimi spetta di conformare i loro gesti di vita alle coordinate tracciate dai regolatori pubblici, ai primi spetta di rendere prima comprensibili e poi condivisibili gli atti di regolazione.

Se questo dovere non viene assolto – è questa la tesi che si vuole sostenere – la conservazione non è più un valore e il giurista non deve più difenderla, spettandogli piuttosto un compito di denuncia.

L’occasione di verifica è data in questo caso dalla recente sentenza della sesta sezione penale della Corte di cassazione citata nel titolo.

 

1. L’oggetto dell’interpretazione: l’obbligo di motivazione rinforzata del giudice di appello che riformi la decisione di primo grado

La Corte di appello di Milano, riformando la pronuncia di condanna di primo grado, ha assolto per insussistenza del fatto vari imputati accusati di corruzione internazionale e una società per azioni dall’illecito amministrativo collegato a tale contestazione.

Il PG competente ha impugnato la decisione assumendo in via principale che sarebbe stata emessa in violazione dell’obbligo di motivazione rinforzata incombente sul giudice di appello che riformi la pronuncia di primo grado.

Il collegio di legittimità ha coerentemente ritenuto che il suo impegno interpretativo primario fosse di stabilire in cosa consista la motivazione rinforzata e quale sviluppo debba avere quando sia riformata una sentenza di condanna con la conseguente assoluzione dell’accusato.

 

2. Il risultato dell’interpretazione

Il collegio ha anzitutto riconosciuto l’esistenza dell’obbligo postulato dal ricorrente, valido sia per la riforma delle sentenze di condanna che per quella delle sentenze assolutorie, e lo ha classificato come diritto vivente, sul presupposto della sua affermazione ad opera di plurime pronunce delle Sezioni unite penali1.

È nondimeno necessario stabilire quale significato attribuire alla locuzione “motivazione rinforzata”.

I giudici di legittimità individuano un primo parametro nella “forza persuasiva superiore” della decisione riformatrice, tale da conferirle il massimo grado possibile di solidità.

L’obiettivo della superiore capacità persuasiva può essere raggiunto solo attraverso un apparato giustificativo «più vincolato nelle sue cadenze e nei suoi passaggi argomentativi».

Esistono dunque passaggi obbligati la cui necessità è esaltata da principi generali come quelli del ragionevole dubbio e del contraddittorio, da caratteristiche specifiche del giudizio d’appello come la tendenziale cartolarità delle impugnazioni e dall’impossibilità di argomentare che, nel caso di decisioni di merito contrastanti, quella del giudice d’appello sia necessariamente migliore di quella di primo grado2.

Allorché dunque il giudice d’appello intraveda la possibilità di una riforma, gli è indispensabile una sorta di percorso circolare quali-quantitativo3.

La motivazione rinforzata richiede pertanto un triplice step coerente a queste necessità, a loro volta definite dal complessivo insegnamento delle Sezioni unite4.

Il collegio di legittimità ha inteso infine completare il suo impegno interpretativo distinguendo con chiarezza il contenuto della motivazione rinforzata secondo che sia riformata una sentenza di assoluzione o una di condanna.

La distinzione riporta al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio e agli effetti che esso produce nei due differenti casi5.

Sulla base di queste complessive argomentazioni il collegio ha elaborato conclusivamente i parametri ai quali il giudice d’appello deve attenersi perché si possa dire adempiuto l’obbligo di motivazione rinforzata nel caso di riforma di una sentenza di condanna.

Occorrono dunque: un’analisi stringente, approfondita e piena del provvedimento impugnato; la spiegazione della mancata condivisione della decisione del giudice di primo grado; il chiarimento della ragioni logiche e probatorie della nuova decisione; la spiegazione delle ragioni che legittimano un ragionevole dubbio sulla plausibilità di una ricostruzione del fatto alternativa a quella privilegiata dal primo giudice.

 

3. Concetti apparenti e parole vuote

Non si useranno giri di parole: non servono e soprattutto rinnegherebbero lo scopo di questo scritto.

Si dirà quindi che la decisione commentata è incomprensibile e quindi inservibile.

Se il compito del giudice è dire il diritto e quello della Suprema Corte è di dirlo in modo chiaro, stabile e prevedibile6, questa decisione è disfunzionale a quel compito e per ciò stesso non serve a nulla.

Non un solo suo rigo chiarisce la differenza tra una motivazione ordinaria ed una rinforzata posto che i compiti spettanti al giudice d’appello intenzionato a riformare la sentenza impugnata non differiscono in nulla, fatta eccezione per l’enfasi descrittiva e per l’elencazione didascalica, da quelli che è lecito attendersi assolti dal giudice propenso alla conferma.

A meno che, ma sarebbe davvero impensabile, si ipotizzi che il collegio di legittimità abbia inteso affermare, tanto per fare un esempio, che il giudice della conferma possa indulgere in analisi meno stringenti, approfondite e piene di quelle spettanti al giudice della riforma.

Non una sola proposizione è formulata in modo da consentire al lettore, qualificato o ordinario che sia, di comprendere quale sia il suo esatto significato. Dire, ad esempio, che «il giudice di seconde cure che intenda mutare (integralmente o parzialmente) la decisione di primo grado deve partire dalla sua motivazione e ad essa fare ritorno mentre rivaluta l'intera vicenda» equivale a non dire nulla perché, al di là della piacevolezza dell’espressione e della sua capacità evocativa di un viaggio da compiere, al viaggiatore non è offerta alcuna guida che lo orienti e prevenga direzioni sbagliate.

E che capacità differenziante si potrà mai attribuire al «nesso di stretta relazione tra la quantità e la qualità delle ragioni espresse nella motivazione del giudice con la quantità e la qualità degli argomenti e delle ragioni espresse dall'impugnante»?

Si apprende poi che il giudice di primo grado e il giudice d’appello non sono «posizionati orizzontalmente rispetto allo stesso materiale di prova» e davvero non sembra una novità rivoluzionaria, tantomeno una linea interpretativa che valga la pena tramandare.

Un capitolo a parte meriterebbero la sovrabbondante aggettivazione (tra gli altri: il già citato stringente, penetrante, rigoroso) che, se da un lato palesa una certa tensione ideale verso mondi geometrici e razionali, dall’altro nulla aggiunge in termini di reale capacità descrittiva, e l’altrettanto intenso ricorso a misuratori di quantità o qualità di sfuggente consistenza (superiore, solido, ragionevole, rassicurante, convincente).

Che rimane allora? L’impressione, lo si è già detto, è che non rimanga nulla sicché sia il giudice della conferma che quello della riforma potranno continuare indisturbati a motivare come meglio crederanno la loro decisione. L’unica differenza è che, nell’immancabile parte della motivazione dedicata ai precedenti, entrambi citeranno la sentenza qui commentata e attesteranno così urbi et orbi la loro devozione all’autorità formale delle parole del giudice nomofilattico, riservandosi ovviamente di attribuirgli il significato che meglio legittima la decisione che avranno preso a prescindere. E così comportandosi, faranno anch’essi quello che si fa di fronte al nulla, ignorarlo.

 

1 Sono citate a questo proposito le decisioni nn. 14800/2018, 45276/2003 (in motivazione) e 33748/2005.

2 Così, testualmente, in motivazione su quest’ultimo punto: «Mentre infatti la cd. doppia decisione conforme porta in sé una valenza rassicurante sull'aspettativa che il processo si sia davvero avvicinato alla verità, l'esistenza di decisioni radicalmente difformi trasmette un messaggio asimmetrico perché lascia sullo sfondo un insoluto quesito decisivo, quello che attiene alla individuazione della decisione giuridicamente corretta tra le due difformi».

3 «il giudice di seconde cure che intenda mutare (integralmente o parzialmente) la decisione di primo grado deve partire dalla sua motivazione e ad essa fare ritorno mentre rivaluta l'intera vicenda». Ciò perché «Il ragionamento del giudice d'appello deve svilupparsi sulla sentenza impugnata perché esiste "un nesso di stretta relazione tra la quantità e la qualità delle ragioni espresse nella motivazione del giudice con la quantità e la qualità degli argomenti e delle ragioni espresse dall'impugnante, e, di conseguenza con il dovere di motivazione rafforzata del giudice di appello nel caso in cui decida di riformare la decisione impugnata"».

4 Così lo sintetizza l’estensore: «a) dimostrare di avere compiuto un'analisi stringente, approfondita, piena del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decisum; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti - a livello logico e probatorio - la nuova decisione assunta». Segue un florilegio di puntualizzazioni estratte da varie decisioni delle Sezioni unite: «Nel riformare una sentenza è necessario dimostrare di aver esaminato tutti gli elementi acquisiti, di avere studiato la motivazione della sentenza di primo grado, di avere compiuto, sulla base del devoluto, un confronto argomentativo serrato con essa al fine di evidenziarne le criticità (cfr. Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679) per poi procedere a formare una nuova struttura motivazionale che non si limiti ad inserire in quella argomentativa del primo giudice mere notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, ma riesami il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr., Sez. U., n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci Rv. 191229). Il giudice d'appello deve "delineare le linee portanti del proprio, alternativo ragionamento probatorio e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento" (Sez. 2, n.57765 del 20/12/2018, non massimata; cfr., Sez. 6 n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005; Sez. 6, n. 46742 dell'08/10/2013, Hamdi Ridha, Rv. 257332; Sez. 4 n. 35922 dell'11/07/2012, Rv. 254617; Sez. 6, n. 2004 del 16/01/2019, non massimata in cui si parla di un "obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza del primo giudice, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da una completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati"). Il ribaltamento dello statuto decisorio in sede di gravame deve fondarsi non su una critica tra giudici posizionati "orizzontalmente" rispetto allo stesso materiale di prova, ma nella diversa prospettiva dell'accertamento di un "errore" di giudizio che il giudice dell'impugnazione ritiene che il giudice di primo grado abbia commesso alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema devoluto. Ad una plausibile ricostruzione del primo giudice, non può, come detto, sostituirsi semplicemente un altrettanto plausibile - ma diversa — "ricostruzione operata in sede di impugnazione; la sentenza di appello deve necessariamente misurarsi con le ragioni addotte a sostegno del decisum dal primo giudice e porre criticamente in evidenza gli elementi, in ipotesi, sottovalutati o trascurati, e quelli che, al contrario, risultino inconferenti o, peggio, in contraddizione, con la ricostruzione di fatti e della responsabilità poste a base della sentenza appellata" (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. n. 261327; si tratta di principi poi recepiti da Sez. U, n. 14800 del 12/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430; in senso conforme, Sez. 4, n. 16/06/2021, Frigerio, Rv. 281404; Sz. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M., Rv. 271110; Sez. 4, n.4222, del 20/12/2016, dep. 2017, Mangano, Rv. 268948)».

5 Così viene risolta la questione: «Mentre infatti per pronunciare nel giudizio di appello una sentenza di condanna a fronte di una pronuncia assolutoria in cui sia emerso un dubbio ragionevole, è necessario rimuovere il dubbio con un ragionamento che ne dimostri l'infondatezza ovvero l'inesistenza, nel caso, come quello di specie, di sentenza di assoluzione che riformi una precedente sentenza di condanna, nonostante l'obbligo di motivazione rafforzata, è in realtà sufficiente argomentare in positivo, nel senso che è necessario e sufficiente rappresentare l'esistenza del dubbio ragionevole. Se per emettere una sentenza di condanna è necessaria la certezza della colpevolezza, la motivazione della sentenza del giudice d'appello che riformi, come nel caso di specie, una sentenza di condanna deve essere rafforzata sulla plausibilità di un ragionamento volto non già a far venire meno ogni ragionevole dubbio bensì a sollevarne uno. Si è condivisibilmente notato come, mentre nel caso di riforma peggiorativa di una sentenza di assoluzione, il giudice di appello debba prima demolire il ragionamento probatorio culminato con la deliberazione del primo giudice e poi strutturare un proprio ragionamento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamento della tesi opposta, in caso invece, di integrale riforma migliorativa di una sentenza di condanna il giudice di appello, seppur con una motivazione rafforzata - nel senso indicato, deve solo destrutturare il ragionamento del primo giudice, nel senso di configurare l'esistenza di un ragionevole dubbio che di per sé è destinato a destituire di fondamento la prospettiva accusatoria recepita dal primo giudice (sul tema cfr., Sez. 2, n. 41571, del 20/06/2017, Marchetta, in motivazione)».

6 Si confronti G. Canzio, Dire il diritto nel XXI secolo, Giuffrè editore, 2021. Un estratto dell’opera è stato pubblicato su Discrimen, 3.4.2020, ed è consultabile a questo link.