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La nozione di decreto singolare

Una disamina dei tratti caratteristici del decreto come atto amministrativo singolare
decreto amministrativo singolare
decreto amministrativo singolare

1. Premessa. Un po’ di storia del termine; 2. Il decreto come atto amministrativo singolare. Tratti caratteristici

«Per decreto singolare s’intende un atto amministrativo emesso dalla competente autorità esecutiva, mediante il quale secondo le norme del diritto è data per un caso particolare una decisio o viene fatta una provisio, le quali per loro natura non presuppongono una richiesta presentata da qualcuno.» (can. 48)

 

1. Premessa. Un po’ di storia del termine

Decretum, derivando da decernere come participio sostantivato, porta con sé l’idea della “scelta” e della “decisione” che tale verbo esprime; e questo riferimento immediato è, all’incirca, l’unica costante ravvisabile nella storia dell’impiego del termine in ambito giuridico. Data quindi l’estrema latitudine di tale denotazione di base, non può sorprendere che, dal diritto romano fino agli odierni impieghi in ambito canonico, decretum abbia sempre designato una grande varietà di “dati giuridici”, di cui sovente ci sfugge il grado di consistenza, elaborazione concettuale e distinzione da figure affini.

Così è, in particolare, per l’esperienza giuridica romana: “Il termine decretum appare per la prima volta nelle nostre fonti in diversi passi di Cicerone […] L’espressione assume rilevanza giuridica dove indica una decisione, un parere, un comando o un giudizio emessi volta a volta da organi collettivi, da singoli magistrati oppure dal principe.”.

Si parla quindi di Senatus decreta, oltre che di Senatus consulta; ma il rapporto tra i due termini non emerge in alcun modo dalle fonti, il che fa pensare ad una sostanziale omonimia; “per primo Elio Gallo volle vedere nei decreta le varie parti in cui poteva articolarsi il senatus consultum: teoria che già Verrio Flacco, nel riferirla, giudicava fallace”; e neppure di questo minimo supporto nelle fonti godono le teorie alternative, secondo cui il consultum sarebbe un parere del Senato, il decretum invece espressione del potere decisorio, oppure che i termini si equivalgano quanto all’oggetto, ma consultum dia risalto all’intervento dell’assemblea, decretum a quello del magistrato.[1]

Già in Cicerone, tuttavia, si coglie una contrapposizione tra decretum ed edictum,[2] da cui emerge che – in un altro ambito forse? L’esercizio delle magistrature era “sentito” come altra cosa rispetto alle funzioni senatorie? Non lo sappiamo - “l’edictum consisteva in una previsione astratta che, pur prendendo normalmente le mosse da un caso concreto sottoposto all’attenzione del magistrato, tendeva ad impostare una soluzione idonea a costituire valido orientamento per ogni caso dello stesso tipo che potesse prospettarsi durante l’anno di carica. Il decretum, invece, era un provvedimento preso caso per caso, sulla base di una valutazione equitativa, o in attuazione di quanto astrattamente previsto nell’editto, o ad integrazione di esso, o addirittura in contrasto con esso […] Assumevano dunque la forma del decretum i vari provvedimenti attraverso i quali il pretore da un lato assicurava la costituzione e lo svolgimento del processo ordinario, dall’altro applicava i cosiddetti mezzi complementari’ o ausiliari del processo formulare (che spesso consentivano la risoluzione di conflitti di interessi al di fuori delle normali vie giudiziarie) o attuava quella che i moderni chiamano volontaria giurisdizione.”.[3]

Si dicevano però decreta magistratuumgenericamente tutte le disposizioni date dai magistrati romani nell’esercizio delle loro funzioni, in base all’imperium di cui erano investiti: esse potevano avere carattere amministrativo e giurisdizionale”, ma sempre per casi particolari;[4] in età imperiale, poi, di decretum si parlò sempre più rispetto alla sentenza resa dal principe nella cognitio extra ordinem; e non va dimenticata l’attività delle assemblee provinciali e municipali, rispetto a cui si parlava di decreta concilii.

Di questa varietà e molteplicità di riferimenti, sembra che il diritto canonico della Chiesa latina abbia assimilato soprattutto quello imperiale, che d’altronde era il più importante nel momento in cui è stata ottenuta la libertas Ecclesiae: “in un’epoca più antica decreta erano detti gli atti del Pontefice, in contrapposto agli atti dei Concili, che erano detti statuta (Decr. ad c.2  D.3)”.[5]

La prassi delle assemblee sinodali e conciliari mostra a sua volta chiari influssi dei coevi omologhi politici, non ultimo proprio il Senato (da cui forse riprende proprio il verbo caratteristico delle deliberazioni: placuit),[6] però il termine decretum, fors’anche perché riferito per lo più a provvedimenti di carattere particolare,[7] non si applica a tali deliberati, che in genere hanno carattere di legge. Inoltre, la preziosa sintesi di teoria generale del diritto offerta dal Libro V delle Etymologiae di S. Isidoro di Siviglia – ubi consistam per tutta la speculazione medioevale, anche canonica – non ha tramandato nulla di specifico sull’origine o l’uso del vocabolo,[8] sicché alla canonistica è poi mancato un punto di partenza ancorato in modo esplicito all’esperienza del diritto romano; nello stesso tempo, però, l’esercizio di funzioni giurisdizionali da parte dei Vescovi, nella episcopalis audientia, ha trasmesso al Medioevo anche l’uso di decretum in ambito giudiziale. E non si può trascurare il fatto che a distanza di secoli, quando hanno cominciato a spuntare le collezioni canoniche, sono state spesso chiamate Decretum:[9] è il caso di Graziano, naturalmente, ma anche di Ivo e Burcardo.[10]

Considerato che, in larga misura, esse contengono decisioni concrete, si può concludere che il termine decretum era ritenuto adatto sia all’attività normativa quale oggi la intendiamo – i Concili generali del Medioevo, diversamente dagli antichi, hanno promulgato decreta - sia al provvedimento assunto in un caso particolare, sebbene quest’ultima attività andasse sotto il nome di dispensatio (che non era ancora circoscritto a ciò che oggi chiamiamo “dispensa”).[11]

Questo stato di cose non può dirsi mutato con lo sviluppo della Curia Romana: almeno in età post-tridentina, infatti, se per gli atti del Papa si parla indifferentemente di Constitutiones o Decreta,[12] il nome generico degli atti delle SS. Congregazioni è proprio “decreto”, anche se spesso in realtà si tratta di rescritti emessi in seguito a richieste particolari;[13] i decreti possono essere sia generali sia particolari e il problema principale – a parte la loro conoscenza e conoscibilità[14] - proprio nel capire quando ciò che si presenta come valore per un caso particolare abbia, in realtà, portata e peso maggiori.[15] 

L’antecedente immediato del decretum come atto amministrativo canonico è sicuramente l’impiego per designare le decisioni della Curia, sia particolari sia generali; e già sappiamo che anche nel Codice vigente possono esistere decreti generali. Tuttavia, la disciplina odierna si discosta per molti versi dall’anteriore; e perciò, se dalla storia del vocabolo e dei suoi impieghi volessimo ricavare un significato fondamentale capace di gettare un po’ di luce su talune questioni, dovremmo per forza di cose rifarci ancora all’etimologia, concludendo che, storicamente, decretum corrisponde sempre ad un giudizio che comporta, anche se non sempre esterna a chiare lettere, una scelta tra più alternative e mette capo ad una dichiarazione di volontà. Inoltre, per quanto riguarda il diritto canonico, a differenza del rescritto non presuppone necessariamente una richiesta e non indica una particolare forma di redazione dell’atto. Infine, non bisogna dimenticare che il termine trova tuttora impiego anche nell’ambito del processo giudiziale, dove indica ogni provvedimento diverso dalla sentenza.

Tanto premesso, ad rem.

 

2. Il decreto come atto amministrativo singolare. Tratti caratteristici

Già abbiamo avuto modo di vedere come l’emersione di un concetto – o meglio, di vari concetti – di atto amministrativo canonico sia posteriore al Codice del 1917; ancora alla sua vigilia, rispetto al termine decretum si distinguevano solo l’accezione legislativa e la giudiziale,[16] sull’assunto implicito che la decisione resa extra iudicium in caso particolare avesse natura legislativa, sia quando dispensava, sia quando confermava l’obbligo legale.

La prima codificazione ha mantenuto il nome di decretum per le leggi disciplinari dei Concili, anche particolari,[17] e lo ha impiegato “per indicare ogni provvedimento di natura amministrativa. Così nei casi previsti dai can. 345, 447 § 1, 2618 §2 n. 2 e 2344. più generalmente, in materia amministrativa, il termine stesso è adottato per tutti i provvedimenti delle congregazioni romane e degli uffici della Santa Sede, nonché per quelli dei vescovi.”.[18]

Una distinzione, si aveva, semmai, tra decreti generali ed istruzioni, ma per il resto l’impiego del vocabolo restava fin troppo promiscuo.[19] Inoltre, mentre ai rescritti era dedicata una disciplina ampia e coerente, i decreti singolari ne erano privi quasi del tutto, sia pur con l’importante eccezione del can. 1601, che sanciva l’impossibilità di contestare in sede giudiziale i decreta Ordinariorum, lasciando quale unico rimedio il ricorso alle Congregazioni competenti.

Le riforme postconciliari, eccettuata l’istituzione di un sistema di giustizia amministrativa a livello centrale, con la possibilità di adire il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica – e dunque la via giudiziale – contro “gli atti della potestà amministrativa ecclesiastica” posti o confermati da un Dicastero della Curia Romana, non hanno innovato in quest’ambito, limitandosi semmai ad attribuire o trasferire competenze. L’integrale riordino da parte del nuovo Codice, pur ponendosi per certi versi in continuità con lo status quo ante, presenta indubbi aspetti innovativi; per una prima illustrazione, è sufficiente commentare il can. 48, riportato in esordio.

Anzitutto, sebbene il nuovo CIC preveda un nucleo di norme comuni a tutti gli atti amministrativi (cann. 35-47), di fatto la materia è nettamente bipartita tra due tipi legali ben distinti: il decreto ed il rescritto.[20] Con la parziale eccezione del precetto, che forma un sottotipo del decreto dotato di una disciplina speciale, tutte le altre figure sono assimilate al primo o al secondo. Orbene:

  1. tutti gli atti amministrativi sono decreti, a meno che non risulti necessaria una richiesta per la loro emanazione;[21] la differenza non sta nell’esistenza in concreto della richiesta, bensì nell’astratta necessità di essa;[22] quindi, il decreto è il tipo legale da applicarsi in mancanza di indicazioni contrarie;[23]
  2. nello stesso tempo, però, la sua disciplina ha mutuato molto dal rescritto, il che non può davvero sorprendere, considerato che per secoli i rescritti sono stati assimilati ai decreti, almeno quando si parlava di Curia Romana, e che in ogni caso si trattava dell’unico tipo legale compiutamente regolato in precedenza;
  3. il decreto segue le norme del diritto, non è pensato per apportarvi deroghe (anche se non si può escludere del tutto che queste siano adottate d’ufficio: non a caso il can. 38, che prevede che l’atto amministrativo possa derogare alla legge, figura tra le norme generali ed è dunque applicabile anche ai decreti);[24]
  4. quanto all’oggetto, esso, se non reca un ordine (il che ne fa un precetto, sottotipo che indagheremo a parte), contiene una provisio o una decisio. Termini che è meglio lasciare in lingua originale, perché la loro interpretazione non è semplicissima: provisio, nel Codice, è utilizzato soltanto per le nomine ad uffici ecclesiastici, ma ha buone ragioni chi intende e traduce “provvedimento”;[25] quanto a decisio, che in senso stretto implicherebbe il riferimento alla soluzione di controversie e parrebbe, dunque, riferirsi soprattutto ai ricorsi, sembra preferibile supporre un recepimento del più ampio concetto di “decisione amministrativa” - la cui elaborazione, d’altronde, è dipesa moto dagli studi sul procedimento e sulla partecipazione degli interessati, temi assai importanti per i codificatori – e includere così nel termine tutti gli “atti amministrativi di accertamento, formati in modo contenzioso, che e cioè mediante un procedimento costruito in modo tale da dar rilievo […] ad un conflitto di interessi (giuridicizzati o no) o di opinioni tra gli amministrati, o fra l’autorità ed uno o più amministrati, che essi atti si volgono a risolvere, così accertando l’applicabilità della legge ad un caso concreto e determinando, talvolta, anche le modalità di applicazione della legge stessa.”.[26] 

In altri termini, perlomeno secondo il mio personale parere:

  1. nei provvedimenti che natura sua presuppongono una richiesta (non solo i rescritti o gli oracula vivae vocis, ma anche le licenze: cfr. can. 59 §2) l’autorità si trova di fronte ad un’alternativa “secca” tra accoglierla e respingerla, potendo al più temperare l’accoglimento con condizioni od oneri, ma non adottare un atto dal contenuto affatto diverso;
  2. quante volte si tratti di decreto, dinanzi all’autorità si pone una serie indeterminata di alternative (da intendersi “indeterminata in astratto”, perché l’istruttoria e la ponderazione servono appunto a determinare in concreto l’unica soluzione – ritenuta – giusta). Può trattarsi di scelte rispetto a cui non appare configurabile un conflitto di interessi giuridicamente rilevante, nel qual caso avremo la provisio (in passato, il contenzioso sulla provvista degli uffici ecclesiastici era frequentissimo, ma le riforme postconciliari hanno soppresso l’istituto del concorso rendendo irrilevanti le posizioni soggettive di altri che aspirassero al tale ufficio);[27] oppure, al contrario, la possibilità di contrasti va tenuta in conto, e allora si parlerà di decisio.[28] Insomma, la distinzione tra le due sottocategorie va ricavata dalla rispettiva funzione e questa dalle differenze di disciplina; i significati usuali, cioè provvista di uffici e decisione di ricorsi, vanno assunti come paradigmatici, ma non esclusivi.[29]

La qualificazione di un decreto come provisio o decisio, pertanto, in assenza di indicazioni legislative precise (cfr. ad es. cann 270, 699 e 1734),[30] va desunta dalla disciplina concretamente applicabile,[31] fermo che il caso di ritenuta irrilevanza degli interessi individuali costituisce l’eccezione, non la regola, e deve essere fondato su chiare affermazioni della libertà di agire.[32] Tuttavia, dovrebbe essere sempre considerato decisio il decreto che rigetta, anche solo in parte, una richiesta presentata per ottenerlo: questa stessa presa di posizione attesta che è emerso un conflitto tra autorità e soggetto, la cui rilevanza giuridica è in re ipsa tanto nel momento in cui si riconosca una legittimazione a richiedere, quanto laddove si controverta proprio su questa.

 

 

[1]    F. de Marini Avonzo, Decreto (diritto romano), in Noviss. Dig. It. vol. V, Torino 1960, pagg. 275-6, qui 275.  Un’eco della teoria di Elio Gallo – che trova tuttora eco tra i romanisti, almeno nel senso che molti scompongono un SC in decreta quando lo illustrano - si potrebbe forse ravvisare anche in S. Isidoro di Siviglia, Etymologiae V 12: “Senatusconsultum [est] quod tantum senatores consulendo populis decernunt”, dato che il verbo decernere non compare né nella definizione di lex (che ha “sanxerunt”, noto verbo tecnico) né in quelle di plebiscitum, constitutio ed edictum, che per la verità mirano soprattutto a mettere in luce la derivazione etimologica. La formula conclusiva dei senatoconsulti (“discessionis eventus”, nella terminologia del Mommsen) impiegava, comunque, il verbo censeo (“de ea re ita censuere”), mentre la parte deliberativa del testo ricorreva, di regola, a placeo.

[2]    Cfr. in particolare M. Tullio Cicerone, Paradoxa Stoicorum, VI 2.46, che, tra le gravissime perturbazioni del tempo di Silla, ricorda appunto come l’edictum avesse assunto carattere di decretum: “...qui illam Sullani temporis messem recordetur, qui tot testamenta subiecta, tot sublatos homines, qui denique omnia venalia, edictum decretum, alienam suam sententiam, forum domum, vocem silentium...”; ma v. anche, tra le accuse mosse a Verre, anche quella di decernere contra edictum (Id., In Verrem II, 1.46.119).

[3]    A. Metro, Decreta praetoris e funzione giudicante, in Ius Antiquum 6 (2000) e originariamente in Panorami (1998), pagg. 31-47.

[4]    F. de Marini Avonzo, op. cit., pag. 276, che ricorda come il termine decretum si applicasse altresì all’esercizio del diritto di veto da parte dei tribuni della plebe. Ampie citazioni dalle fonti, per quanto riguarda i decreti del pretore, in A. Metro, op. cit., il quale difende altresì la communis opinio secondo cui tali provvedimenti non avevano carattere assimilabile alla moderna sentenza, contro l’opposta tesi del Mancuso, di cui contesta in particolare la lettura di Rhetorica ad Herennium II 13.19: “Iudicatum est id de quo sententia lata est aut decretum interpositum. Ea saepe diversa sunt, ut aliud alio iudici aut praetori aut consuli aut tribuno plebis placitum sit; et fit ut de eadem re saepe alius aliud decreverit aut iudicarit”. Anche in seguito, a suo avviso, “Nonostante la giа sottolineata tendenza, affermatasi nella cognitio extra ordinem, ad obliterare la differenza fra decretum e sententia, permangono nei testi alcune chiare tracce di una precisa demarcazione fra il ruolo del pretore e quello del giudice, che escludono poteri decisori del primo, al di lа della scelta fra dare e denegare actionem  e della redazione della formula.

[5]    E. Mazzacane, Decreto (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto vol. VI, Milano 1962, pagg. 829-30, qui 829; negli stessi termini Z. da San Mauro, Decreto, in Enciclopedia Cattolica, vol. IV, Roma 1950, pag.1284 , che aggiunge “per questo le costituzioni pontific[i]e contenenti decisioni e norme generali e particolari erano dette anticamente decretali ”. La contrapposizione non va comunque intesa in termini troppo netti: cfr. la più antica decretale a noi pervenuta, in un passo famoso, secondo cui “quamquam statuta Sedis Apostolicae vel canonum venerabilia definita nulli sacerdoti Domini ignorare sit liberum...”. S. Siricio, Directa ad venerabilem, 10 febbraio 385, in Denz. 182.

[6]    Non è raro riscontrare, soprattutto nei sinodi locali, il ricorso ad una procedura deliberativa per acclamazione, su semplice proposta di un oratore (in genere, chi ha convocato e presiede l’assemblea), che è identica a quella in uso presso il Senato tardoimperiale.

[7]    La già citata decretale di Papa Siricio ha cura di specificare, richiamando atti del predecessore Liberio, che si è trattato di decreta generalia.

[8]    Le Etymologiae conoscono la constitutio e l’edictum, ma tacciono affatto sul decretum, parlano di mandatum solo nell’accezione privatistica (cfr. V 24,20) e non menzionano nemmeno il rescriptum; manca, in altre parole, quasi ogni indice di consapevolezza del fatto che “costituzione imperiale” indica, o indicava in origine, tutto un genere contraddistinto da più specie di atti normativi, tra loro non equivalenti. Non stupirebbe che tale consapevolezza si fosse assai indebolita con il Dominato. Cfr., oltre ad una qualunque edizione delle Etymologiae, ed. trad. e comm. In E. Telaretti, I presupposti e le fonti del diritto in Isidoro di Siviglia (Etymologiarum liber V, 1-21), tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo, rel. Chiar.mo Prof. G. Nuzzo, pubbl. 22 marzo 2011.

[9]    Ma il plurale, “habetur in Decretis”, è la citazione standard in S. Tommaso d’Aquino.

[10]  Cfr. P. Fourneret, Décrets, in Dictionnaire de Théologie Catholique vol. IV, Parigi 1908, coll. 295-6.

[11]  Cfr. I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pagg. 114-28.

[12]  Cfr. F.M. Gasparro, Institutiones Juris Canonici, vol. I, Roma 1702, pag. 10, che distingue: propriamente il decretum sarebbe “Constitutio a Papa edita de Consilio Cardinalium, sed ad nullius petitionem”, così distinguendosi dalla decretale, mentre canon andrebbe riservato alle decisioni conciliari; “Usus tamen nunc temporis obtinuit, quod illa nomina Canones, Decreta, & Epistolae decretales s[a]epe promiscue, ac pro Synonimis usurpentur, & quod Principum saecularium Constitutiones Leges vocentur; illae vero, quae a Summis Pontificibus conditae sunt, simpliciter, et absolutae vocentur Decreta, seu Constitutiones.

[13]  Invero, alla vigilia della codificazione del 1917, S. de Santi, Istituzioni di Diritto Canonico, vol. I, Salerno 1902, pagg. 60-70, rompe con l’uso comune della dottrina coeva e annovera i decreti delle Congregazioni tra le costituzioni pontificie particolari ossia rescritti, distinti a loro volta in di grazia e di giustizia (ossia secundum legem), precisando che questi ultimi “hanno forza di legge generale per tutti, quando sono inseriti nel codice per autorità pontificia o interpretano una legge dubbia

[14]  Fino all’istituzione degli Acta Apostolicae Sedis, non è esistita una vera e propria “Gazzetta Ufficiale” della S. Sede; la conoscenza dei decreti è stata affidata a vari mezzi, dalle collezioni ufficiali (principalissima quella della S.C. Dei Riti, abrogativa di tutti i decreti generali in essa non compresi) a quelle private, fino alla sporadica divulgazione da parte di consultori o altri ben informati che citavano questo o quel decreto nelle proprie opere. V. diffusamente L. Ferraris, Declarationes et decreta Sacrarum Congregationum, in Prompta Bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. III, Parigi 1852, coll. 67-71.

[15]  V. Choupin, Valeur des décisions doctrinales et disciplinaires du Saint-Siège, Parigi 1912, pagg. 96-, passate in rassegna le diverse denominazioni in uso, distingue i decreti in: formalmente generali od universali, che si rivolgono a tutta la Chiesa in modo espresso e recano l’intitolazione Decretum generale o Urbi et orbi; decreti formalmente particolari; decreti formalmente particolari, ma universali per equivalenza, in quanto regolano in forma generale ed astratta un problema che interessa tutta la Chiesa, come ad es. l’interpretazione di una legge universale. I primi hanno forza di legge, i secondi obbligano solo le parti interessate, per l’ultima categoria occorre distinguere quelli di portata innovativa, che richiedono debita promulgazione, da quelli che ribadiscono una regola già chiara e perciò obbligano tutti fin dal momento dell’emissione, mentre per quelli che risolvono un obiettivo dubium iuris agitato in dottrina la questione è discussa e l’A. si mantiene aperto, ma mostra una certa preferenza per la tesi secondo cui non richiedono promulgazione autonoma, potendo appoggiarsi sulla forza obbligante della legge universale interpretata. In senso sostanzialmente conforme, per i decreti della S.R.C., A. Carinci, Decreta authentica Sacrae Rituum Congregationis, in Enciclopedia Cattolica, vol. IV, cit., coll. 1280-1, che aggiunge però qualche utile indicazione esegetica sulle clausole usuali: “I generali, con forza di legge in tutta la Chiesa, hanno per titolo: Decretum o Decretum generale, oppure Urbis et Orbis, mentre i particolari han forza di legge per luoghi, ceti di persone o casi singoli. È da notare tuttavia che se qualche decreto, emanato in risposta ad un quesito particolare, dichiara il senso di una legge generale, di una Rubrica, ecc., questa dichiarazione costituisce una interpretazione autentica della legge stessa, ed ha forza di legge. Questo si ricava non solo dall’oggetto del decreto, ma anche dalle clausole finali, le quali son varie. Il Respondit o Rescripsit è formola generale, e significa solo che la Congregazione risponde ad una domanda fattale. La clausola Indulsit o simile indica la concessione di un privilegio, la conferma di una consuetudine, ecc.; che, se per quest’indulto fosse occorsa la grazia sovrana, allora si userebbe Facto verbo cum Sanctissimo. La clausola Declaravit, dice che il decreto interpreta autenticamente la legge. Finalmente la clausola Servari mandavit rafforza l’antecedente risposta, imponendo il precetto di osservarla rigorosamente. ”. 

[16]  Cfr. in particolare P. Fourneret, Décret, in Dictionnaire de Théologie Catholique vol. IV, cit., col. 295: “En matière ecclésiastique, le mot décret a conservé un sens très général qu’il a perdu depuis plus d’un siècle dans le langage des juristes. Ces derniers remploient exclusivement pour dési- gner certains actes du pouvoir exécutif, par opposition aux actes législatifs et aux sentences judiciaires. Or, en droit canonique, le décret est, au contraire, soit un acte législatif, soit un acte judiciaire. Les niolu proprio, rescrits, induits, etc., constitueraient plutôt la catégorie des actes adminisUrdlifs auxquels on réserve en droit français le nom de décret. L’assimilation n’est d’ailleurs pas possible d’une manière absolument exacte, la séparation des pouvoirs n’existant pas dans lès curies eccJésiasliques”.

[17]  Mette forse conto notare che, se il Concilio Vaticano I non ha avuto tempo di promulgare norme disciplinari, il Vaticano II lo ha fatto e la maggior parte di esse si intitola appunto Decretum (nove documenti in tutto), ma, probabilmente in segno di riconoscimento della maggior importanza della materia, la riforma liturgica è stata approvata con una Constitutio.

[18]  E. Mazzacane, op. cit., pag. 830.

[19]  Segni di specializzazione si notano però in Z. da San Mauro, op. loc. cit.: il decreto “È la forma particolare che in date occorrenze assumono gli ordini e i provvedimenti scritti del potere costituito. I d. sono di regola emanazioni della funzione amministrativa, benché si riscontrino pure tra gli atti del potere giudiziario e legislativo. […] Anche nel vigente diritto canonico i d. sono atti propri, in prevalenza, del potere esecutivo. Tali sono, p. es., le decisioni e risoluzioni delle SS. Congregazioni (can. 1389), nonché gli ordini c i provvedimenti dei vescovi e degli altri prelati, dati in via amministrativa (cann. 345, 513 § 2, 1601, 2i52§ 2, 21S7).”. Invece, F.X. Wernz – P. Vidal, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. I – Normae generales, Roma 1938, pagg. 282-92, continua a condurre un’analisi prettamente tradizionale – e ricca di distinzioni - sull’autorità dei decreta SS. Congregationum.

[20]  Per il modo in cui questa dicotomia è maturata nel corso dei lavori preparatori, cfr. I. Zuanazzi, op. cit., pagg. 518-9 e relativi riferimenti.

[21]  Vale ovviamente anche il contrario: se la legge qualifica un atto come decretum, ciò implica in automatico la possibilità di procedere d’ufficio, o comunque il carattere non essenziale della richiesta, salvo il diritto di presentarla e il dovere di rispondervi (cfr. can. 57).

[22]  Contra, ma erroneamente e senza approfondimento, V. de Paolis, Il Libro I del Codice: Norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pagg. 331-2: “Se l’atto amministrativo non è stato richiesto, allora abbiamo i precetti e i decreti; se invece c’è stata una richiesta, allora abbiamo un atto amministrativo che è una risposta (in genere per iscritto), e quindi rescritto.”. Tant’è vero che, poche righe dopo, l’A. si corregge e dice che “È ovvio [sic!] sottolineare che la petizione di cui si parla è quella intrinseca alla natura stessa dell’atto amministrativo, per cui (nel caso del rescritto) l’atto amministrativo da un punto di vista giuridico non è configurabile senza una petizione.” (pag. 332).

[23]  Cfr. P. Lombardía, ad cann. 48-9, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 101, secondo cui il decreto “risulta essere una figura alquanto generica, le cui relative norme sono, in linea di principio, applicabili a qualsiasi atto amministrativo non tipicizzato nell’ordinamento canonico”. Il Codice orientale ha invece preferito evitare, per i decreti, una disciplina diversa dalle norme generali comuni a tutti gli atti amministrativi, ma il risultato non cambia molto: se un atto non possiede le caratteristiche di quelli tipizzati, o è un decreto oppure sconta esattamente la stessa disciplina, quindi la differenza di nome è irrilevante.

[24]  La tesi secondo cui anche il decreto può concedere grazie, secondo I. Zuanazzi, op. cit., pag. 518, nt. 84, è emersa nel corso dei lavori preparatori ed è il motivo per cui la definizione di rescritto parla di concessione di grazie previa richiesta, senza escludere a priori che se ne possa prescindere.

[25]  Ad es. P.A. D’Avack – C. Cardia, Fonti del diritto. II) Diritto canonico, in Enciclopedia giuridica Treccani, Milano 1987, vol. XIV, §3.4.1. Forse per errata traduzione dallo spagnolo, P. Lombardía, op. loc. cit., ha “avanzare previsioni”. Per contro, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pagg. 229-30, traducono “fare una provvista”, tuttavia affermano che “le provviste possono riferirsi agli uffici ecclesiastici […], ma non necessariamente devono limitarsi a questi casi.” (pag. 232).

[26]  M. Nigro, Decisione amministrativa, in Enciclopedia del Diritto, vol. VI, Milano 1962, pagg. 810-23, qui 812. L’A., con rimarchevole schiettezza, non manca di riconoscere che “Si tratta però di nozione gravemente controversa” (ibid.), ma difende la specificità di una categoria contraddistinta da “un diverso specifico interesse dell’amministrazione” oltre a quello sotteso al contenuto del provvedimento, “l’interesse alla giusta soluzione del conflitto, al quale l’atto-decisione dà – o dà anche – in tutto o in parte, soddisfazione.” (pag. 813). E proprio quest’aspetto primeggiava tra le preoccupazioni manifestate sui difetti dello status quo ante in ambito canonico. Non si deve poi pensare che la nozione offerta dal Nigro metta in ombra l’esigenza di un atto di volontà: “Nelle decisioni l’atto di volontà interviene per porre, sulla base di tale acclaramento, una determinata situazione giuridica perché si sostituisca a quella che era prima e che appariva incerta, sia quanto all’esistenza, sia quanto al suo modo di essere.” (pag. 814); “si tratta di provvedimenti, perché atti preordinati alla realizzazione di interessi specifici della p.a. e consistenti in statuizioni autoritative destinate a produrre modificazioni di situazioni giuridiche.” (pag. 816).

[27]  Questo non vieta loro di proporre ricorso gerarchico, ma rende irrilevante la loro aspirazione nella fase “a monte”, procedimentale e di adozione dell’atto, perché non hanno un ius che possa essere leso (cfr. can. 50).

[28]  Mi pare che vadano sostanzialmente nella stessa direzione J. Miras – J. Canosa – E. Baura, op. cit., pag. 235: “il concetto di decisione deve essere determinato considerando il tipo di incidenza del decreto in questione e la possibilità – qualora sia prevedibile – che vi possa essere taluno interessato ad impugnarlo. […] Il decreto pertanto dovrà sempre essere motivato quando mediante questo tipo di atto l’autorità dà una decisione, scelta tra possibilità contrarie (Labandeira), che potrebbe entrare in conflitto con diritti, aspettative o altri tipi di legittime attese”, la cui assenza, a contrario, contraddistingue la provisio.

[29]  Scarse le indicazioni fornite dalla giurisprudenza: cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto definitivo 28 aprile 2007, Iurium, c. Mercieca, D.na X / Congregazione per l’Educazione Cattolica, prot. n. 36911/05 CA, mass. di G.P. Montini (“La lettera perciò dell’Ordinario con la quale ha spiegato ai docenti i modi con i quali potrebbero difendere i propri diritti, e ha annunciato che la diocesi non stipulerà alcun contratto di lavoro collettivo con alcuna associazione di impiegati, non contiene alcuna decisione per un caso particolare.”); Id., Sentenza definitiva 16 novembre 2011, Nominationis prioris administratoris; iuris eligendi, c. de Paolis, Rev. X et al. / CIVCSVA, prot. n. 43472/10 CA, mass. di G.P. Montini (“L’atto con il quale il competente Dicastero della Curia Romana nomina per tre anni un priore amministratore in una comunità monastica è un atto amministrativo singolare, con il quale si fa una provvisione (cf. can. 48); non è propriamente un atto di dispensa […] Un tale decreto di provvisione quindi non si deve interpretare come un rescritto: [...] l’atto del Dicastero non è la risposta ad una domanda, ma il Dicastero prende una propria decisione in occasione di notizie ricevute.”).

[30]  Ulteriori rilievi di carattere terminologico in E. Labandeira, Trattato di Diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pag. 313.

[31]  Ad es. è chiaro che, se la legge prescrive espressamente l’ascolto previo del destinatario, sta attribuendo rilevanza giuridica al suo interesse e quindi l’atto finale sarà una decisione.

[32]  Sembra, invece, orientato verso una concezione più ampia di provisio V. de Paolis, op. loc. ult. cit: “Si ha una decisione quando si pone fine ad una controversia, si irroga una pena in via amministrativa o la si dichiara, ecc. La provvisione non è da intendersi soltanto nel senso del can. 146, in riferimento ad un ufficio ecclesiastico, ma per qualsiasi provvedimento che non sia una decisione.”. Dovrebbe però esser chiaro che si ha decisio anche quando la controversia si trova solo allo stadio potenziale, altrimenti sarebbero tali solo le decisioni su ricorsi o sanzionatorie. Più correttamente, perciò, P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 230, nota che il decreto è, “in genere, una decisione dell’autorità esecutiva, che risolve una questione o controversia”; la concezione piuttosto ampia di provisio che si trova a pagg. 242-3 pare riferita ad altro schema classificatorio.