La potestà ordinaria

La potestà ordinaria
Can. 131 - §1. La potestà di governo ordinaria è quella che dallo stesso diritto è annessa a un ufficio; la potestà delegata, quella che è concessa alla persona stessa, non mediante l'ufficio.
§2. La potestà di governo ordinaria può essere sia propria sia vicaria.
[...]
Can. 134 - §1. Col nome di Ordinario nel diritto s'intendono, oltre il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani e gli altri che, anche se soltanto interinalmente, sono preposti a una Chiesa particolare o a una comunità ad essa equiparata a norma del can. 368; inoltre coloro che nelle medesime godono di potestà esecutiva ordinaria generale, vale a dire i Vicari generali ed episcopali; e parimenti, per i propri membri, i Superiori maggiori degli istituti religiosi di diritto pontificio clericali e delle società di vita apostolica di diritto pontificio clericali, che possiedono almeno potestà esecutiva ordinaria.
§2. Col nome di Ordinario del luogo s'intendono tutti quelli recensiti nel §1, eccetto i Superiori degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica.
§3. Quanto viene attribuito nominatamente al Vescovo diocesano nell'àmbito della potestà esecutiva, s'intende competere solamente al Vescovo diocesano e agli altri a lui stesso equiparati nel can. 381 §2, esclusi il Vicario generale ed episcopale, se non per mandato speciale.
Can. 135 - […] §4. Per ciò che concerne l'esercizio della potestà esecutiva, si osservino le disposizioni dei canoni che seguono.
Can. 136 - Pur stando fuori del territorio, la potestà esecutiva si può esercitare validamente verso i sudditi, benché assenti dal territorio, a meno che non consti altro dalla natura della cosa o dal disposto del diritto; la si può esercitare verso i forestieri che si trovano attualmente nel territorio, se si tratta di concedere favori o di mandare ad esecuzione sia le leggi universali sia le leggi particolari, alle quali gli stessi sono tenuti a norma del can. 13, §2, n. 2.
Can. 137 - §1. La potestà esecutiva ordinaria può essere delegata sia per un atto sia per un insieme di casi, a meno che non sia disposto espressamente altro dal diritto.
§2. La potestà esecutiva delegata dalla Sede Apostolica può essere suddelegata sia per un atto sia per un insieme di casi, a meno che non sia stata scelta l'abilità specifica della persona o non sia stata espressamente proibita la suddelega.
§3. La potestà esecutiva delegata da un'altra autorità che ha potestà ordinaria, se è stata delegata per un insieme di casi, può essere suddelegata soltanto in casi singoli; se invece è stata delegata per un atto o per atti determinati, non può essere suddelegata, se non per espressa concessione del delegante.
§4. Nessuna potestà suddelegata può essere nuovamente suddelegata, se ciò non fu concesso espressamente da parte del delegante.
Can. 138 - La potestà esecutiva ordinaria come pure la potestà delegata per un insieme di casi, è da interpretarsi in senso largo, qualsiasi altra invece in senso stretto; tuttavia a chi è stata delegata la potestà, s'intendono concesse anche quelle facoltà senza le quali la medesima potestà non può essere esercitata.
Can. 139 - §1. Se non è stabilito altro dal diritto, per il fatto che uno si rivolga a qualche autorità competente, anche superiore, non si sospende la potestà esecutiva dell'altra autorità competente, sia essa ordinaria oppure delegata.
§2. Tuttavia l'inferiore non s'intrometta nella questione deferita all'autorità superiore, se non per causa grave e urgente; nel qual caso avverta immediatamente il superiore della cosa.
Can. 143 - §1. La potestà ordinaria si estingue con la perdita dell'ufficio cui è annessa.
§2. Se non sia disposto altro dal diritto, la potestà ordinaria è sospesa, qualora si appelli legittimamente o s'interponga un ricorso contro la privazione o la rimozione dall'ufficio.
I tipi di potestà esecutiva
Esaurita la trattazione sulle caratteristiche generali della potestà esecutiva, resta da trattare della disciplina generale riferita al suo esercizio (contenuta, peraltro secondo un ordine sistematico non perfetto,[1] ai cann. 131-43, riportati in esergo), la quale, oltre ad un nucleo di disposizioni comuni, prevede una summa divisio della potestà in ordinaria e delegata; la prima categoria si suddivide poi in propria e vicaria; e sebbene molti la considerino un caso particolare della delegata, a mio avviso va trattata a parte la potestà supplita, che formerà oggetto del prossimo articolo.
Un primo difetto dell'ordine espositivo del Codice si rinviene proprio nel canone di esordio, il 131, che definisce le due categorie principali riferendosi al concetto di “ufficio ecclesiastico”, non ancora presentato dal legislatore visto che la sua definizione si trova al can. 145. Ai nostri fini, però, basta darne una nozione intuitiva, dicendo che si tratta grosso modo dell'ufficio quale ci è familiare dal diritto amministrativo, con l'importante precisazione, però, che nella Chiesa di regola non si intende un “plesso organizzativo”, come possono essere p.es. i Dicasteri della Curia Romana, ma “cariche stabili” generalmente di titolarità unipersonale,[2] quindi all'interno di un Dicastero si hanno più “uffici” ossia cariche (Prefetto o Presidente, Segretario, Membri, Consultori). Questo è sufficiente a metterci in grado di comprendere la distinzione del can. 131 §1, secondo cui la potestà ordinaria è quella annessa all'ufficio ipso iure,[3] mentre la delegata è concessa ad una persona come tale, “non mediante officio”[4] e, si potrebbe aggiungere, senza l'intento di creare attribuzioni stabili, che sarebbero nuovi uffici: per sua natura, la delega soddisfa esigenze di carattere transitorio, mentre la potestà ordinaria presuppone un assetto organizzativo destinato a durare nel tempo. Esistono però uffici ecclesiastici le cui funzioni si esercitano solo a larghi intervalli e durante le transizioni di potere – ad es. l'Amministratore diocesano viene designato solo quando una Diocesi resta priva di Vescovo – e, per contro, a volte lo strumento della delega finisce per dare vita ad assetti consolidati e prassi di routine, inoltre può essere disposta in via generale dalla legge, anche se è discusso se nel diritto vigente il caso ricorra. Concettualmente, ad ogni buon conto, resta chiaro che nella delega vi è un qualche intuitus personae, nella potestà ordinaria si ha riguardo all'ufficio (v. infra, §5, per il caso intermedio delle facoltà abituali).
Invece, il can. 131 §2 menziona la suddistinzione tra potestà (ordinaria) propria e vicaria, però senza fornire le relative definizioni; provvede allora la dottrina, secondo cui la potestà propria è esercitata in nome proprio ossia contraddistingue un ufficio a sé stante, mentre quella vicaria si esercita in nome altrui e quindi inerisce ad ufficio strutturalmente subordinato ad un altro in un modo caratteristico: “fino a costituire un'unità con lo stesso ufficio principale, al punto che il titolare dell'ufficio subordinato agisce in nome e per conto del titolare dell'ufficio principale” - come avverrebe nella delega – e tuttavia con esso forma, “dal punto di vista giuridico, come una unica realtà, al punto che non si dà propriamente ricorso dal vicario al titolare principale. Così l'ufficio di Vicaio generale, quello di Vicario giudiziale, quello di Vicario negli istituti di vita consacrata, ecc. il vicario 'idem facit consistorium' con il titolare dell'ufficio principale, il Vescovo, il Superiore generale, ecc.”.[5] La potestà vicaria si dirà poi generale o speciale, a seconda che il suo ambito di competenza coincida con il titolare dell'ufficio principale – p.es. il Vicario generale può, salve restrizioni espresse (cfr. cann. 134 §3, 479 §1), tutto quel che può il Vescovo diocesano – oppure abbia un ambito più circoscritto, come è il caso, sempre rispetto al Vescovo, del Vicario episcopale (cfr. can. 479 §2).[6]
Non bisogna confondere quest'accezione tecnico-canonica di vicaria potestas con le riflessioni carattere più propriamente teologico circa la vicarietà come caratteristica di ogni potere legittimo nella Chiesa.[7] “In un certo senso ogni potestà nella Chiesa è vicaria in quanto in quanto derivata, cioè ottenuta da Dio stesso, ed è esercitata in nome di Cristo, che vivente continua a governare personalmente la sua Chiesa. In rapporto al Papa o comunque alla gerarchia talvolta è detta vicaria qualsiasi potestà che da essa deriva ad altri nei gradi inferiori della gerarchia. Così si è detto che i Vescovi sono vicari del Papa. Ma dietro tale terminologia si nasconde tutta la problematica sulla origine della potestà. Per un lungo periodo di tempo la dottrina ha distinto la potestà ecclesiale in propria e vicaria, considerando quella di giurisdizione come appartenente alla Chiesa in forza della sua costituzione di società perfetta, e vicaria quella di ordine e quella di dispensare a nome di Dio in certe materie (dispensa da voti, dal vincolo matrimoniale, ecc.), in quanto esercitata in nome di Dio e appartenente alla Chiesa non in quanto società perfetta.”.[8]
A questo punto si può comprendere il senso del can. 134 §§1-2: “Non è 'ordinario' qualunque soggetto che vi officii ostenti una potestà ordinaria […], ma solo quanti, titolari di una potestà ordinaria propria o di una potestà vicaria generale, svolgono funzioni esecutive di vertice esercitando determinati uffici”.[9] Essi sono: il Papa per l'intera Chiesa; i singoli Vescovi o soggetti equiparati, per la rispettiva Chiesa particolare; all'interno della medesima, i Vicari generali ed episcopali; in una posizione extraterritoriale, i Superiori maggiori delle realtà religiose di diritto pontificio. A parte questi ultimi, tutti gli altri sono detti “Ordinari dei luoghi”, appunto perché la loro potestà conosce un limite territoriale o, nel caso del Romano Pontefice, si esercita ubique terrarum. Si tratta insomma di un canone che, per quanto abbia una collocazione un po' eccentrica, consente di identificare gli uffici ecclesiastici più importanti e di ricollegare ad essi un buon numero di attribuzioni: ad es., tutti gli Ordinari possono dispensare nei casi previsti dai cann. 14 e 87 §2 (tra molte altre ipotesi), mentre solo gli Ordinari del luogo dispensano ai sensi dei cann. 88 e 1196.
Disposizioni comuni sulla potestà esecutiva ed il suo esercizio
Sono comuni a tutti i tipi di potestà esecutiva la possibilità di delega, sebbene con diversa ampiezza (cfr. can. 137), l'obbligo di interpretarne l'estensione in maniera da assicurar sempre che possa essere legittimamente esercitata per il fine conferito (can. 138, che enuncia il principio rispetto alla potestà delegata, ma non ne esclude il carattere generale) e soprattutto la disciplina dei limiti soggettivi e territoriali di applicazione, di cui al can. 136.
“Il concetto di suddito qui impiegato mostra come la relazione di gerarchia che corre tra chi ha la potestà esecutiva ed i suoi propri fedeli è fondamentalmente una relazione personale e stabile, che trascende la dimensione territoriale”:[10] infatti (a parte l'esistenza di circoscrizioni ecclesiastiche su base personale), il potere può esercitarsi sia quando il titolare è assente dal territorio sia, soprattutto, verso i sudditi che ne sono assenti (benché ai sensi del can. 13 §2 n. 1 essi in linea di principio non siano soggetti, per il tempo dell'assenza, alle leggi particolari del loro territorio), mentre verso i forestieri presenti si esercita allo scopo di applicare le leggi universali, o quelle particolari del luogo alle quali essi siano tenuti ex can. 13 §2 n. 2, o per concedere grazie.
Infine ma non da ultimo, visto che è fisiologica la coesistenza più soggetti con potestà concorrenti su un determinato affare (per uno stesso stesso territorio, giusta quanto sopra, almeno il Vescovo, il Vicario generale, il competente Dicastero della Curia Romana e il Papa personalmente, oltre ad eventuali delegati), il can. 139 è volto a prevenire i possibili conflitti nell'esercizio concreto di tali potestà. Il criterio prescelto non è quello gerarchico e, a rigore, neppure quello della prevenzione: ogniqualvolta ci si rivolga ad un'autorità, anche superiore, questo “non sospende la competenza” delle altre, anche solo delegate (§1); però in caso di deferimento al superiore – che in questo caso, secondo una vecchia ma espressiva terminologia, ha “apposto la mano” alla causa - l'autorità subalterna non deve intrometter nella questione, se non per causa grave e urgente, nel qual caso è tenuta a darne pronto avviso al superiore stesso (§2). La norma ha un'importanza notevole nel campo dei ricorsi, perché consente, ad es., di provvedere sia pure in ritardo, quando sia stato impugnato il silenzio amministrativo (cfr. can. 57), e di annullare o revocare un provvedimento che si riconosca illegittimo, ma anche di intervenire nuovamente sul caso in presenza di sviluppi che non si avrebbe il tempo di portare a conoscenza del superiore già adito. Nel sistema così delineato, è implicito che il primo provvedimento che acquisti efficacia non cede dinanzi al secondo, a meno che esso non costituisca una sua revoca espressa, che dimostra quindi consapevolezza della sua esistenza; il conflitto tra rescritti, tuttavia, è normato in altro modo dal can. 67.
La potestà ordinaria in specie
Anche le disposizioni relative alla sola potestà ordinaria si trovano un poco sparpagliate: si tratta della generale facoltà di delega, salvo divieto espresso dal diritto, sia per un caso singolo sia per un insieme di casi (can. 137 §1),[11] dell'obbligo di interpretare in senso ampio l'estensione della potestà (can. 138) e della disciplina della sua cessazione (can. 143). Quest'ultima richiede un breve commento: il §1 prevede una regola in sé tautologica, cioè che codesta potestà annessa all'ufficio si perda insieme con esso; siccome però, contro il provvedimento da cui deriva la perdita dell'ufficio, è ammesso il ricorso amministrativo, il §2 prevede che la potestà (si conservi ma) sia sospesa quando si impugnano la privatio e la amotio. La prima ha carattere penale, quindi il ricorso priverebbe di ogni effetto la sanzione fino alla sopravvenienza di un decreto definitivo: in questo caso si reputa opportuno inibire comunque ipso iure l'esercizio dell'ufficio, fermo che se ne resta titolari fino alla decisione ultima. Il ragionamento è simile nel caso della amotio, che è una rimozione dipendente da cause gravi, non necessariamente colpevoli, ma che sottendono almeno un giudizio di inefficacia dell'esercizio di quell'ufficio (cfr. cann. 193, 1740 e 1741): in questo caso la presunzione di legittimità dell'atto amministrativo, benché impugnato, si traduce nella sospensione di una potestà che, data tale premessa, certamente non sarebbe bene che il soggetto esercitasse.
[1] Cfr. P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006, pag. 99, che peraltro si astiene da rilievi critici: “Per la divisione o articolazione della potestas regiminis o iurisdictionis, il CIC, per la importanza della materia, sembra seguire nei cann. 130-144 il metodo sistematico, cosa in genere aliena al metodo codiciale.” (v. amplius ibid., pagg. 99-103, testo e note, per ulteriori interessanti classificazioni della potestas in genere).
[2] Sul carattere generalmente unipersonale, e prima ancora di normale affidamento a perone fisiche, dell'ufficio ecclesiastico cfr. E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994, pagg. 82-4.
[3] Per J.I. Arrieta, ad can. 131, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 144, l'espressione va coordinata con il can. 145 §2, dove si precisa che le attribuzioni di un ufficio possono essere precisate sia nel ius secondo cui è costituito, sia nel decretum che lo costituisce e conferisce insieme; si può trattare di “diritto sia comune sia particolare, scritto o consuetudinario” (P.V. Pinto, op.cit., pag. 105; nello stesso senso E. Labandeira, op.cit., pag. 106), tanto che il can. 199, secondo una piana lettura a contrario, limita, ma non esclude la possibilità che le attribuzioni si acquistino o perdano per praescriptio. Cfr. E. Molano, ad can. 199, in Pontificia Università della Santa Croce (cur.), op.cit., pagg. 182-3.
[4] “Pur se questo canone può essere oggetto di una vasta esegesi e di commenti anche divergenti, secondo noi va interpretato nel senso che la persona fisica può ricevere un potere di governo per mezzo di un ufficio (mediante officio), e ciò significa che, quando un soggetto riceve un ufficio, ottiene anche (adnectitur) il potere; oppure può ricevere direttamente il potere per concessione personale. Nella prima ipotesi, si tratta di una potestà ordinaria; nella seconda ci troviamo di fronte ad una delega di potere.”. E. Labandeira, op.cit., pag. 84.
[5] V. de Paolis, Il Libro I del Codice: Norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 440. Invece, E. Labandeira, op.cit., pagg. 107-9, muovendo da un diverso concetto di vicarietà, afferma che la potestà vicaria è “quella che corrisponde ad un ufficio che è parte delle funzioni o dei poteri di un altro ufficio principale. L'ufficio al quale è unito questo potere è, quindi, un ufficio subordinato al principale, ed il suo titolare agisce come sostituto o collaboratore di quest'ultimo.”. La sua definizione, va notato, include anche i “vicari supplenti”, che intervengono quando l'ufficio principale viene meno, e soprattutto esclude di proposito l'unità giuridica con esso, anche per i vicari “collaboratori”. Infatti, “Gli atti del Vicario sono imputati a lui solo e non al Superiore principale. Non si può parlare di identità giuridica organica tra i due soggetti […]. Ciò si verifica in quanto il Vicario agisce come titolare di un ufficio, ossia, per diritto proprio, anche se le sue funzioni sono di partecipazione e collaborazione ai poteri dell'ufficio principale. […] Il principio per cui il Vicario è un alter ego dell'ufficio principale non è applicabile ai Vicari amministrativi ed esecutivi di collaborazione. Tale principio è applicabile soltanto ai Vicari sostituti e ai Vicari giudiziali.” (Ibid., pag. 112).
[6] Cfr. J.I. Arrieta, op.loc.cit., pag. 145.
[7] Cfr. nello stesso senso P.V. Pinto, op.cit., pag. 106: “Tale divisione è di diritto positivo ecclesiastico e non tiene conto della visione teologica della partecipazione gerarchica della potestà (cf. LG 28).”. Diversamente, però, E. Labandeira, op.cit., pag. 106: “Tale distinzione ha un fondamento più teologico che giuridico, in quanto in quanto l'organizzazione ecclesiastica si fonda sul diritto divino. Tuttavia, le sue conseguenze giuridiche sono rilevanti.”.
[8] V. de Paolis, op.cit., pagg. 439-40.
[9] J.I. Arrieta, op.cit., ad can. 134, pag. 146; nello stesso senso E. Labandeira, op.cit., pag. 115; contra, P.V. Pinto, op.cit., pag. 104: “I titolari della potestà ordinaria, che sia o no di diritto divino, vengono denominati nel Codice Ordinari”, tesi tuttavia meno rispondente al testo del can. 134 §1.
[10] J.I. Arrieta, op.cit., ad can. 136, pag. 149; sono sudditi “coloro che hanno il domicilio o il quasi-domicilio nel territorio: cfr. cc. 100 e 102”, J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 44; la possibilità di esercizio del potere verso i peregrini è un'innovazione rispetto al can. 210 CIC17, cfr. P.V. Pinto, op.cit., pag. 106.
[11] Cfr. V. de Paolis, op.cit., pag. 445: “La possibilità della delega contiene in sé delle ottime possibilità di governo. Da una parte permette una non eccessiva proliferazione di uffici, con potestà ordinaria. In questo caso il pericolo di una dispersione e di una eccessiva burocratizzazione potrebbe portare facilmente alla confusione, alla mancanza di unità di governo o alla proliferazione di abusi. D'altra parte, senza la possibilità di delega si correrebbe il rischio di una eccessiva lentezza e di una eccessiva centralizzazione. La delega permette così una struttura snella degli uffici e nello stesso tempo un servizio pronto alla comunità, come pure la partecipazione responsabile di persone particolarmente capaci ed esperte.”.