Il delitto di scisma

scisma
scisma

Il delitto di scisma

 

Can. 751: “Vien detto [...] scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti.

 

Premessa: la notizia che fa da spunto

Una notizia di attualità mi convince a derogare – una volta di più – all'ordine del Codice per introdurre i lettori ad un aspetto di diritto penale canonico che, diversamente, qui non verrebbe affrontato ancora per diverso tempo: le caratteristiche distintive del delitto di scisma.

Non è inutile, a mio parere, richiamare più in dettaglio l'evento, o meglio il testo del provvedimento che mi ha indotto a questa decisione: la scomunica inflitta all'Arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex-Nunzio Apostolico negli Stati Uniti, assurto agli onori delle cronache negli ultimi anni per una serie di dichiarazioni via via sempre più critiche nei confronti della persona di Jorge Mario Bergoglio, di svariate sue scelte e decisioni, nonché della sua stessa legittimità come Pontefice, intesa soprattutto in termini di legittimità di titolo ossia di validità dell'elezione.

Il decreto de quo richiederebbe, sotto diversi punti di vista, un commento procedurale, anzitutto per spiegare la natura del procedimento seguito, poi per svariate questioni particolari (circa l'attenzione che esso dedica al tema della notifica, rimando al mio commento ai cann. 55 e 56 in questa stessa rubrica). Qui, tuttavia, vorrei concentrarmi solo sugli aspetti sostanziali, in particolare perché la motivazione si presta a taluni rilievi critici tanto più interessanti in quanto il decreto in questione proviene dal Dicastero che, nell'ambito della Chiesa, su questo tipo di delitti gode di competenza specifica e suprema. La parte motiva del provvedimento afferma, infatti, che la prova del delitto ascrittogli (in entrambe le sue figure, cioè il rifiuto di sottomissione al Romano Pontefice e quello di comunione con coloro che a lui sono soggetti) va ravvisata in alcune dichiarazioni pubbliche dell'Arcivescovo, tra cui:

  • il dubbio che l'elezione papale sia stata invalidata da un vizio di consenso [n. 13, lett. b)], dubbio che diventa certezza poco dopo [ivi, lett. c): “Siamo dunque autorizzati in coscienza a revocare la nostra obbedienza a chi, presentandosi come Papa, agisce in realtà come il biblico cinghiale nella Vigna del Signore...”];
  • l'asserto sub lett. e), “Jorge Mario Bergoglio è stato messo sul Soglio per demolire la Chiesa di Cristo (…) Nell'attesa che questa indegna parodia della Gerarchia cattolica sia sostituita da santi Vescovi e santi sacerdoti”;
  • le dichiarazioni secondo cui “Con questa 'chiesa bergogliana', nessun Cattolico degno di questo nome può essere in comunione, perché essa agisce in palese discontinuità e rottura con tutti i Papi della storia e con la Chiesa di Cristo” ed è la “chiesa conciliare” partorita dal Vaticano II [ivi, lett. g) e h)];
  • un ulteriore dubbio sulla validità dell'elezione pontificia, dovuto stavolta a “gli errori e le eresie a cui Bergoglio aderiva prima, durante e dopo la sua elezione” oltreché al ribadito vizio di consenso [ivi, lett. i)];
  • l'atto di accusa “Dinanzi ai miei Confratelli nell'Episcopato e all'intero corpo ecclesiale, io accuso Jorge Mario Bergoglio di eresia e di scisma, e come eretico e scismatico chiedo che venga giudicato e rimosso dal Soglio che indegnamente occupa da oltre undici anni. Ciò non contraddice in alcun modo l'adagio Prima Sedes a nemine judicatur, perché è evidente che un eretico, in quanto impossibilitato ad assumere il Papato, non è al di sopra dei Prelati che lo giudicano” [Ibid.].

Peraltro, sono considerate prove a carico anche altre affermazioni (elencate al n. 14) che contestano la legittimità e l'autorità magisteriale del Concilio Vaticano II, che dimostrerebbero, se non proprio lo scisma, certo “l'indole scismatica del Prelato” (n. 16). Infatti, le Conclusioni riconoscono come “circostanze della condotta scismatica”, intendendo però i fatti che integrano la condotta tipica:

  1. il Prelato nega direttamente, esplicitamente e costantemente la legittimità di Papa Francesco, sostenendo che la sua elezione non è valida;
  2. egli non si ritiene in comunione con Papa Francesco e con quelli che sono in comunione con lui;
  3. ritiene che la Chiesa a capo della quale sta Papa Francesco non sia la Chiesa cattolica;
  4. rifiuta il Concilio Ecumenico Vaticano II, ritenendolo privo di autorità magisteriale” [n. 17, lett. b)].

Ora, se non ci possono essere particolari dubbi sul fatto che la volontà, manifestata e attuata, di “tagliare i ponti” con l'organizzazione nota come “Chiesa cattolica” costituisca scisma (pure quando si contesta la legittimità della qualificazione, perché sarebbe l'organizzazione in parola ad essere divenuta scismatica se non eretica), il rifiuto ingiustificato di singoli insegnamenti magisteriali è previsto come delitto a sé stante, non si sostanzia in rifiuto di comunione e, anche se nel caso all'esame tra i due aspetti si può ravvisare un nesso, ha poco senso parlare di una condotta scismatica (ancor meno di “indole scismatica”: lo scisma non è materia di personalità dell'autore). Le cose non cambiano per il rifiuto di tutto un Concilio in blocco. E se poi parliamo dei dubbi sulla legittimità dell'elezione papale, è opinione comune dei canonisti che non costituiscano scisma, almeno se non sono chiaramente pretestuosi. Dulcis in fundo, la pretesa che il Papa sia giudicato per eresia e scisma trova a sua volta supporto in un'ampia tradizione canonica.

A questo punto, dovrebbe essere chiaro perché la vicenda qui descritta nel suo epilogo giudiziario[1] offra materia di esame e manifesti l'esigenza di chiarire i contorni precisi del delitto di scisma.

 

Il concetto giuridico di “comunione” (con una nota sulla scomunica)

In questa rubrica abbiamo già affrontato il problematico concetto di “membro della Chiesa” in sede di commento al can. 96, quindi soprattutto in riferimento agli acattolici: richiamo quella trattazione in quanto può essere utile, visto che una delle due figure del delitto è appunto il rifiuto di comunione con “i membri della Chiesa” soggetti al Papa, ma è evidente che il chiarimento deve investire anzitutto il concetto di “comunione”.   

Esiste l'idea, vaga forse ma assai diffusa, che “essere in comunione con” il Papa o il Vescovo significhi “essere d'accordo con” ogni sua scelta, dimodoché ogni manifestazione di disaccordo diviene perlomeno sospetta, anche quando si tratti semplicemente di questioni pratiche. Il Codice stesso si accosta ad una simile prospettiva, quando elenca al primo posto, tra le possibili cause di rimozione dei Parroci, “il modo di agire che arrechi grave danno o turbamento alla comunione ecclesiale” (can. 1741 n. 1). Questa visione della Chiesa, tuttavia, pur assumendo in sé princìpi indubbiamente cattolici come il valore positivo ed essenziale della Gerarchia o il carattere virtuoso dell'obbedienza, oblitera altri dati che proprio le riforme post-conciliari e il Codice stesso avrebbero voluto, invece, rendere certi e indiscutibili, cioè che:

  • i fedeli sono titolari di veri e propri diritti, non solo di pie aspirazioni o desideri (cfr. cann. 208-223);
  • tra questi diritti rientra quello di manifestare ai Pastori la propria opinione più o meno su qualunque argomento, nonché le proprie necessità spirituali (can. 212);
  • anzi, essi hanno altresì il diritto di contestare, “per qualsiasi giusto motivo”, i provvedimenti amministrativi che ritengano anche solo non ottimali rispetto al caso concreto (cann. 221 e 1737 - “propter quodlibet iustum motivum”).

Ciò opportunamente premesso, è appena il caso di aggiungere che, come qui non si tratta nella comunione per così dire “sentimentale”, di trovare simpatico o meno il Papa, né di essere d'accordo con ogni suo atto, così neppure della “comunione con Cristo” che, secondo il Magistero più recente, sussiste tra tutti i battezzati, sebbene in forme e gradi diversi; né della comunione con Dio, in cui si trova chiunque sia in stato di grazia, poiché questa è una realtà interiore che il diritto non può disciplinare... e che, almeno in certi casi e a certe condizioni, si mantiene nonostante la perdita del legame di cui qui invece si tratta, la “comunione con la Chiesa” o communio ecclesiastica. Il can. 205 ce ne offre la definizione, concependola come stato di pienezza della comunione con Cristo Capo del Corpo Mistico: “Su questa terra sono nella piena comunione della Chiesa cattolica quei battezzati che sono congiunti con Cristo nella sua compagine visibile, ossia mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico.”.[2]

In altre parole: dopo che il can. 204 ha chiarito che la Chiesa cattolica è la Chiesa voluta e fondata da Cristo,[3] il can. 205 enuncia quali sono i vincoli esterni che, a prescindere dalle disposizioni interiori dell'anima di ognuno, determinano l'appartenenza giuridica alla Chiesa; e si tratta dei tria vincula teorizzati a suo tempo dal Bellarmino, ossia la professione della stessa Fede, la sottoposizione ad una stessa Gerarchia, il riconoscimento degli stessi Sacramenti.[4] Dunque, va considerato appartenente alla Chiesa – non si usa qui il termine “membro” - colui la condotta esterna del quale manifesta visibilmente l'appartenenza alla Chiesa visibile, contemporaneamente nelle tre forme indicate.[5]

Può forse essere il caso di aggiungere, perché l'assonanza dei vocaboli potrebbe in generare equivoci, che “scomunica” non è il contrario di “comunione”; in altre parole, la communio ecclesiastica non si perde per il fatto di essere scomunicati, ma semmai (in alcuni dei casi in cui è prevista, come  appunto il delitto di scisma) questa pena costituisce la reazione dell'ordinamento ad una perdita della comunione già avvenuta e cui si spera di rimediare inducendo il reo al pentimento. Sotto altro punto di vista, la scomunica presuppone che in questa rottura vi sia un delitto doloso, mentre la perdita della comunione, in sé, si ha solo per la condotta materiale esterna, anche se per ipotesi l'autore fosse in buona fede.[6]

 

Lo scisma come negazione del vincolo di governo o di quello dei Sacramenti

La perdita della fede può essere totale, quando non si crede più che Cristo è il Figlio di Dio, e alloa si parla di apostasia; è parziale, invece, in chi neghi solo alcuni dogmi, al limite soltanto uno, e commetta pertanto eresia. In ambedue i casi, viene meno il vincolo dell'unità della fede; anche se a volte gli altri due possono persistere più o meno a lungo, la logica porta eretici e apostati a rompere anche questi. Lo scisma è invece un'altra cosa, perché non rompe il vincolo della fede, ma quello dell'unità di governo, o sotto il medesimo governo, e talvolta la comune partecipazione ai Sacramenti.[7]

Nella porzione posta in esergo, il can. 751, facendosi eco di tutta la tradizione teologica e canonica sul tema, definisce lo scisma “subiectionis Summo Pontifici aut communionis cum Ecclesiae membris eidem subditis detrectatio”. L'illustrazione di Suárez chiarisce bene le due fattispecie tipiche:

  1. il rifiuto di sottomissione al Romano Pontefice deve riguardare il Papa in quanto tale, e consiste nel comportarsi di fatto – anche senza una negazione di carattere dottrinale, che implicherebbe l'eresia - come se Egli non fosse il Capo della Chiesa, ad es. nei casi più estremi convocando un Concilio senza la sua autorità, o eleggendo un antipapa, o anche negando in modo temerario la legittimità della sua elezione;
  2. il rifiuto di comunione con i membri della Chiesa, a sua volta, si manifesta nel rifiuto di ricevere i Sacramenti da loro o con loro, quantunque siano soggetti al Romano Pontefice (se lo si rifiuta appunto perché sono soggetti, è evidente che ricadiamo nel primo caso). Storicamente, queste rotture hanno avuto luogo soprattutto a livello locale, come scismi dal proprio Vescovo;[8] è però discusso in dottrina se questo genere di atti integri anche oggi il delitto di scisma, perlomeno quando si tratti del rifiuto di sottomissione all'autorità del Vescovo e non di rifiuto di partecipare ai medesimi Sacramenti.[9]

Da queste premesse si desume, per un verso, che non è scisma il rifiuto di comunione con chi si ha motivo di sospettare che non sia membro della Chiesa, ad es. perché eretico o scismatico (anche se non è detto che per questo egli perda ipso facto ogni potere di governo, il che pone delicati problemi che non è il caso di affrontare in questa sede); per altro e riguardo al Papa, che non può dirsi scismatico chi contesta la legittimità dell'elezione in modo non temerario, o quella di un singolo atto, e neppure chi rifiuta in concreto di sottomettersi alla sua autorità per ragioni che riguardano il Pontefice come individuo, ad es. perché lo considera prevenuto nei suoi riguardi, etc. 

Inoltre, dalla tradizione patristica ci viene un chiarimento prezioso, che passa per l'illustrazione dell'atteggiamento interiore caratteristico: lo scismatico ha il gusto della divisione e lo scisma si verifica quando alcuni si proclamano i Giusti;[10] insomma, il contegno tipico, e quasi il sintomo rivelatore, è un atteggiamento di superiorità che porta a credersi “i puri” in mezzo alla corruzione altrui; la condotta esteriore che ne consegue è il discidium congregationis, ossia separarsi e indurre alcuni fedeli a separarsi dagli altri, o dal Papa,[11] a motivo della predetta superiorità / corruzione e – in genere - anche con il gusto (delectatio) di chi si allontana dai reprobi.[12]

 

La distinzione dai reati affini

Sia da quanto precede sia dall'esistenza di alcune fattispecie delittuose autonome, risulta evidente che non ogni atto di disobbedienza o anche di ribellione costituisce scisma: invero, il Codice incrimina e sanzione a parte condotte che vanno dall'appello al Concilio contro una decisione del Papa (can. 1366) alla disobbedienza ostinata ad un ordine legittimo (can. 1371 §1), fino al suscitare pubblicamente odii, rivalità o, appunto, disobbedienze contro la Sede Apostolica o l'Ordinario (can. 1373), anche usando i mass-media (can. 1368).[13] Inoltre, la contestazione di insegnamenti del Magistero, di per sé, intacca semmai il vincolo della fede, anche quando non giunge a romperlo, ed è comunque punita a parte, ai sensi del can. 1365;[14] se poi un soggetto contestasse l'esistenza di un Magistero infallibile in sé e per sé, o che esso risieda nel Papa, nell'unanimità morale dei Vescovi o nel Concilio Ecumenico, questi sarebbe eretico e solo di conseguenza scismatico.

In altre parole: tutti i delitti summenzionati possono concorrere formalmente con lo scisma, ma a questo si arriva solo se ci si sottrae radicalmente, a priori, alla sottomissione al Romano Pontefice (non è qui in gioco la comunione con altri fedeli), anche solo in particolari materie.[15] Dopo il Vaticano I e le sue definizioni sui poteri dei Papi e dei Vescovi, è difficile concepire uno scisma “puro” cioè non congiunto all'eresia; ma i due delitti restano distinti perché ledono due beni giuridici differenti, sebbene connessi, il vincolo della Fede da una parte, quello dell'unità sotto gli stessi Pastori e nei medesimi Sacramenti dall'altra. D'altronde, è dato acquisito al patrimonio teologico e canonico che l'eresia conduce allo scisma e viceversa: spesso si ricorrerà ad argomenti dottrinali per giustificare a rottura di tipo scismatico, oppure essa nascerà proprio da un dissenso teologico che di per sé, in quel momento, non costituirebbe eresia.

Di fronte a forme di dissenso pubbliche e veementi, come quelle di cui si tratta nel caso Viganò, può sorgere il dubbio che in concreto gli altri delitti siano, per così dire, figure sintomatiche dello scisma, il che giustifica l'apertura di un'indagine anche per tale capo di accusa; bisogna però guardarsi da equivalenze semplicistiche, prive di fondamento normativo, tenere in debito conto che il dissidente può essere trascinato dalla sua stessa foga e retorica fino a dire più di quel che intende... e, nel dubbio, escludere lo scisma, condannando semmai per i delitti meno gravi. Ritengo peraltro possibile, come già accennato, il concorso formale di reati e dunque che la stessa azione od omissione integri contemporaneamente sia gli estremi dello scisma sia quelli, ad es., dell'incitamento dei sudditi alla ribellione ex can. 1373.[16]

 

Il Papa eretico e il Papa scismatico. Cenni.

Lascio per ultimo, poiché non posso dedicarvi che qualche rapido accenno, il problema più eclatante tra quelli sollevati da Mons. Viganò: può esistere un Papa eretico? E che senso ha parlare di un Papa scismatico, quasi che potesse rifiutare la sottomissione a sé stesso?

Quando si parla di “Papa eretico”, si possono intendere due cose diverse: che un eretico dia eletto Papa e accetti, oppure che un Papa, fino a quel momento ortodosso, cada in eresia. Entrambe le ipotesi, comunque, sono ritenute possibili almeno in astratto: in altre parole, il dogma dell'infallibilità assicura solo che saranno preservati dall'errore alcuni atti ufficiali del Romano Pontefice, quelli detti ex Cathedra; si discute con particolare veemenza – ma in maniera libera e legittima – se e quanto possa insinuarsi l'errore, soprattutto abituale, in atti magisteriali non ex Cathedra. Per di più, il dogma presuppone, all'evidenza, che si parli di un Papa legittimo: l'eretico pubblico che venisse eletto (magari perché tale sua condizione non è comunque nota agli elettori), secondo l'opinione comune non diventerebbe Papa, neppure se fosse un semplice eretico materiale. In altre parole, è sicuramente possibile che un antipapa pronunci eresie anche nella forma di atti ex Cathedra; il conseguente problema di affidabilità minaccia di minare la funzione stessa dell'infallibilità pontificia e concentra l'attenzione sul problema della validità vuoi dell'elezione vuoi dell'accettazione, temi su cui la dottrina si è variamente esercitata (la tesi del vizio d consenso elaborata da Viganò ne costituisce un esempio). Invece, è controverso se colui che, essendo dapprima Papa legittimo, cada nondimeno in eresia perde in automatico l'ufficio oppure debba essere deposto: la tesi maggioritaria è la prima, ma anche i suoi sostenitori riconoscono almeno l'utilità di una sentenza dichiarativa, che secondo i più andrebbe pronuncia dal c.d. “Concilio imperfetto”, composto cioè di soli Vescovi, ma provvisoriamente senza il Papa e anzi con l'autorità di giudicare la persona del titolare apparente del Papato. Quest'autorità si estende anche all'ipotesi dell'eretico eletto Papa e, per comune consenso, anche a quella del Papa scismatico.

Sull'ultima fattispecie ho già scritto ampiamente in altra sede e a quella rimando chi volesse approfondire, limitandomi qui a chiarimenti molto sintetici: è ovvio che il Papa non può rifiutarsi di sottostare a sé stesso; può tuttavia separarsi da tutti quanti i fedeli, p.es. Come consegguenza del suo essere eretico, o al limite se volesse scomunicare la Chiesa intera; e soprattutto può rifiutare sistematicamente di sottostare al proprio dovere di Papa: certi Pontefici del Rinascimento, che bramavano vivere come semplici sovrani temporali,  offrono un buon esempio dell'ipotesi. Un altro caso, l'unico per cui esista un precedente giudiziale nel Concilio di Costanza, riguarda il caso in cui si contrappongano, di fatto e a prescindere da ragioni o torti, più pretendenti all'ufficio di Pontefice, ciascuno con un proprio seguito: se il dubbio sulla legittimità delle rispettive elezioni non si riesce a risolvere, oltre un certo punto l'insistenza di ciascuno sulla propria pretesa, quand'anche fosse il vero Papa, diventa essa stessa causa di scisma tra i fedeli; si arriva, in altre parole, al punto in cui perfino un Pontefice legittimo sarebbe tenuto a rinunciare per il bene della Chiesa, se la sua rinuncia può far ristabilire l'unità del fedeli; e tenuto non solo moralmente, ma in un certo senso anche legalmente, perché l'ostinata condotta contraria lo renderebbe reo del delitto di scisma, quantomeno come istigatore e per concorso negli atti scismatici dei singoli fedeli. Sulla scorta di questo ragionamento, il Concilio di Costanza ha deposto ben due dei tre contendentes de Papatu, Giovanni XXIII prima, Benedetto XIII poi.

La dichiarazione finale di Mons. Viganò sembra evocare, più che invocare, il rimedio del “Concilio imperfetto”. Egli non lo dice e neppure lo indice: si vedrà se vi saranno mosse in tal senso. Ma, checché si pensi di un simile rimedio – e per quanto la cosa possa stupire - chi accusa il Papa di eresia e/o di scisma non è, per ciò solo, né un eretico né uno scismatico.

 

 

[1]     Sarebbe ancora esperibile un ricorso, ma appare pressoché impensabile che Mons. Viganò, dopo simili dichiarazioni pubbliche, lo presenti.

[2]     “Plene in communione Ecclesiae catholicae his in terris sunt illi baptizati, qui in eius compage visibili cum Christo iunguntur, vinculis nempe professionis fidei, sacramentorum et ecclesiastici regiminis.”. Tutti i battezzati, infatti, sono in qualche modo uniti alla Chiesa per il solo fatto del Battesimo, che incorpora a Cristo e quindi al Suo Corpo Mistico (cfr. can. 96). In altre parole, può esistere e di fatto esiste una comunione invisibile con Cristo, di cui beneficiano tanto i cattolici quanto gli acattolici se sono in stato di grazia, così come ogni uomo, a fortiori ogni battezzato, in virtù della Redenzione oggettiva è posto in una relazione con Cristo che, anche se gli resta sconosciuta, è sufficiente perché egli possa ricevere grazie attuali, senza le quali del resto non potrebbe neppure convertirsi (la tesi secondo cui “Extra Ecclesiam nulla conceditur gratia” è stata condannata dalla bolla “Unigenitus” nella prop. 29 di Quesnel); del pari, il Battesimo crea una certa comunione degli acattolici con la Chiesa, malgrado la separazione, e ciò è tanto vero che il CIC 1917 li considerava soggetti alle leggi meramente ecclesiastiche, appunto perché essi appartengono alla Chiesa de iure; il nuovo Codice li ha espressamente esonerati da tale soggezione, anche quanto al diritto penale (cann. 11 e 1311). Altra questione è se abbia senso impiegare, per realtà così diverse, espressioni come comunione “piena” e “non piena”, che vengono a creare una tensione con il concetto giuridico in esame, giacché la communio ecclesiastica o c'è o non c'è.

[3]     Il canone usa il verbo “sussiste”, riprendendolo da LG 8; valga quindi in proposito il richiamo ai chiarimenti interpretativi forniti da Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, 29 giugno 2007, in AAS 99 (2007) 604-608, e al relativo Articolo di commento: “poiché la Chiesa così voluta da Cristo di fatto continua ad esistere (subsistit in) nella Chiesa cattolica, la continuità di sussistenza comporta una sostanziale identità di essenza tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica. Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire una sola volta e la concezione secondo cui il 'subsistit' sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la parola 'subsistit' il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa di Cristo: esiste la Chiesa come unico soggetto nella realtà storica. Pertanto la sostituzione di 'est' con 'subsistit in', contrariamente a tante interpretazioni infondate, non significa che la Chiesa cattolica desista dalla convinzione di essere l'unica vera Chiesa di Cristo, ma semplicemente significa una sua maggiore apertura alla particolare richiesta dell'ecumenismo di riconoscere carattere e dimensione realmente ecclesiali alle Comunità cristiane non in piena comunione con la Chiesa cattolica, a motivo dei 'plura elementa sanctificationis et veritatis' presenti in esse. Di conseguenza, benché la Chiesa sia soltanto una e 'sussista' in un unico soggetto storico, anche al di fuori di questo soggetto visibile esistono vere realtà ecclesiali.”.

[4]     Cfr. S. Roberto Bellarmino, De Controversiis Christianae Fidei adversus huius temporis haereticos, Napoli 1872, vol. II, pag. 75 (Lib. III – De Ecclesia militante toto orbe terrarum diffusa, Cap. II – Definitione Ecclesiae): “Nostra autem sententia est, Ecclesiam unam tantum esse, non duas, et illam unam et veram esse coetum hominum ejusdem christianae fidei professione, et eorundem sacramentorum communione colligatum, sub regimine legitimorum pastorum, ac praecipue unius Christi in terris vicarii romani pontificis. […] Ratione primae partis exckuduntur omnes infideles tam qui numquam fuerunt in Ecclesia, ut Judaei, Turcae, Pagani; tam qui fuerunt et recesserunt, ut haeretici et apostatae. Ratione secundae, excluduntur catechumeni et excommunicati, quoniam illi non sunt admissi ad sacramentorum communionem, isti sunt dimissi. Ratione tertiae, excluduntur schismatici, qui habent fidem et sacramenta, sed non subduntur legitimo pastori, et ideo foris profitentur fidem, et sacramenta percipiunt. Includuntur autem omnes alii, etiamsi reprobi, scelesti et impii sint. [...] [U]t aliquis aliquo modo dici possit pars verae Ecclesiae, de qua Scripturae loquuntur, non putamus requiri ullam internam virtutem, sed tantum externam professionem fidei, et sacramentorum communionem, quae sensu ipso percipitur. […] Ex quo fit, ut quidam sint de anima et de corpore Ecclesiae, et proinde uniti Christo capiti interius et exterius; et tales sunt perfectissime de Ecclesia; sunt enim quasi membra viva in corpore […] Rursum aliqui sint de anima, et non de corpore, ut catechumeni, vel excomunnicati, si fidem et charitatem habeant, quod fieri potest. Denique, aliqui sint de corpore, et non de anima, ut qui nullam habent internam virtutem, et tamen spe, aut timore aliquo temporali profitentur fidem, et in sacramentis communicant sub legitimo pastori, et tales sunt sicut capilli, aut ungues, aut mali humores in corpore humano.”. Il Codice attuale, tuttavia, non entra nella disputa teologica su chi possa propriamente considerarsi “membro della Chiesa”, detta una disciplina specifica per la situazione dei catecumeni (can. 206) e considera ancora appartenente alla Chiesa lo scomunicato, giacché la sanzione della scomunica è stata mitigata in misura notevole rispetto al diritto precodiciale, sebbene comporti tuttora una pesante restrizione ai diritti del soggetto colpito (cfr. can. 1331).

[5]     Non rileva, invece, l'animus e neppure il rigetto solo interiore di questo o quel vincolo: ad es., chi commette il peccato soltanto interno di eresia perde la grazia, ma non la comunione con la Chiesa; chi esterna l'eresia dichiarandola ad alta voce, ma senza che nessuno lo senta, forse perde la comunione, ma certo non commette il delitto (cfr. can. 1330); solo nel momento in cui l'eresia è sentita da almeno una persona si ha quella rottura del legame con il corpo sociale della Chiesa che rende la condotta punibile.

[6]     Insomma, la comunione ecclesiastica “viene a mancare soltanto nei tre casi sopra indicati: apostata, eretico, scismatico. Ma non tutti gli eretici e gli scismatici sono scomunicati, sia perché non sempre si tratta di eretici o scismatici formali, sia perché la scomunica è una pena canonica che colpisce solo i battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti (cfr. can. 11).”.V. de Paolis, Il Libro I del Codice. Le norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 369. Cfr. anche Id., Le sanzioni nella Chiesa, op.cit. vol. III, Roma 2004, pagg. 445-625, qui 496: “Dai dati rilevati, si deve concludere che la scomunica non rappresenta semplicemente il negativo di comunione, e la mancanza di comunione piena non comporta necessariamente la scomunica. Anche se può apparire paradossale, si deve dire che può esserci lo scomunicato in piena comunione, e il fedele che non è in piena comunione, il quale tuttavia non è scomunicato […] A conferma di ciò si possono portare non pochi canoni del nuovo codice dove si distingue bene il criterio della comunione da quello della scomunica (cf. per es. can. 316 §1).”. Senza dubbio, tradizionalmente e ancora nel Codice del 1917 si dice che la scomunica “separa dalla comunione con la Chiesa”; ma sta di fatto che in concreto gli effetti della pena, più o meno ampi secondo i casi o i tipi, e per secoli anche differenziati in più tipi di scomunica, sono sempre stati inquadrabili nella privazione del lecito esercizio dei diritti, sebbene così ampia da potersi definire “separazione” da tutte le forme esteriori e visibili in cui si manifesta la communio ecclesiastica; l'espressione non cambia, dunque, la sostanza del ragionamento. Cfr. le articolate considerazioni storiche, dottrinali e canonistiche di A. Calabrese, Diritto penale canonico, Città del Vaticano 2006, pagg. 85-121.

[7]     Si dice tradizionalmente che l'eresia si oppone alla virtù teologale della Fede, lo scisma a quella della Carità (cfr. per tutti S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 39, a. 1); ciò non è in contraddizione con l'oggetto materiale della condotta delittuosa, cioè il rifiuto della soggezione alla Gerarchia o della comunione (soprattutto sacramentale) con chi ad Essa sia soggetto, perché il principio che deve animare i rapporti tra i fedeli, a prescindere dalla loro rispettiva collocazione gerarchica, è sempre la Carità.

[8]     Una buona e classica illustrazione in F. Suarez, De caritate, Disp. XII, sec. I, n. 2: “Accidere vero potest schisma non tantum per hæresim sed etiam sine illa, ut quando aliquis fidem retinendo non vult in suis actionibus et modo religionis unitatem Ecclesiæ tenere; et hoc dupliciter, primo separando se a capite Ecclesiæ, ut dicitur in cap. Non vos 23, quaest. 5, ubi Glossa ait schisma esse non habere caput Romanum Pontificem, non quidem negando Romanum Pontificem esse caput Ecclesiæ, nam jam hoc esset schisma conjunctum hæresi, sed vel temere negando hunc in particulari, vel ita se gerendo cum illo, ac si caput non esset, ut si quis vellet sine ejus auctoritate concilium generale congregare, aut Antipapam eligere, et hic est usitatior modus. Secundus modus est, si ita se separet quis a reliquo corpore Ecclesiae ut nolit cum illo communicare in sacramentorum participatione, cujus rei exemplum habemus ex Epiphanio [...] ille enim dissentiens a Petro Alexandrino, suo patriarcha, se ab illo in omnibus sacrificiis separavit, et de schismate notatus est.”.

[9]     Per A. Calabrese, op.cit., pag. 251, nella prima parte del can. 751 deve intendersi incluso anche il Vescovo: “Commette però il delitto di scisma non soltanto chi si sottrae alla comunione con la Chiesa universale ma anche chi rifiuta la comunione con la gerarchia ecclesiastica sia universale sia nazionale sia locale. È quindi scismatico ed incorre nella pena chi si sottrae alla comunione col suo Vescovo, per qualsiasi motivo lo faccia. Purché si tratti di vero rifiuto della comunione. Quando vi sono motivi umani di forte contrasto con il Vescovo e ne nasce avversione o anche odio, è difficile che si possa configurare una vera avversione alla comunione.”.. Contra, F.X. Wernz-P. Vidal, Ius canonicum ad normam Codicis exactum, vol. VII – Ius Poenale Ecclesiasticum, Roma 1937, pag. 439: “Quare delictum schismatis sensu stricto non committitur ab eo, qui a suo Episcopo et a communione fidelium suae dioecesis recedit, sed Romano Pontifici subesse et cum reliquis Ecclesiae universalis fidelibus communicare non renuit.”. Propendo per l'opinione di Calabrese, ritengo però che il dubium iuris debba comportare l'assoluzione.

[10]   “Schisma ab scissura animorum vocata. Eodem enim cultu, eodem ritu credit ut ceteri; solo congregationis delectatur discidio. Fit autem schisma cum dicunt homines, 'nos iusti sumus', 'nos sanctificamus inmundos', et cetera similia.”. S. Isidoro di Siviglia, Etymologiae seu Origines, VIII 3, 5. Si rifà a S. Agostino, Contra Faustum manichaeum, 30,3.

[11]   Cfr. la definizione di F.X. Wernz-P. Vidal, op.vol.cit., pag. 436, con richiami di supporto a Pirhing, Schmalzgrueber e D'Annibale: “Schisma […] est spontanea discessio ab unitate Ecclesiae, quatenus illa consistit in communione fidelium inter se et in debita subiectione erga Romanum Pontificem.”.

[12]   Cfr. però F. Suarez, op.loc.cit., n. 8: “Nihilominus dico secundo, ad contrahendam propriam malitiam schismatis, non oportet directe intendere divisionem ab Ecclesia, sed satis est velle id per quod separetur quis ab Ecclesia. vel efficit divisionem in illa, sive id sit directe prævidendo sive culpabiliter ignorando. lta sentit Cajetanus hic, in Summa, verbo Schisma, et alii non pauci.”.

[13]   Scientemente tralascio la consacrazione episcopale senza mandato pontificio (attuale can. 1387, 1382 prima della riforma), cuore del “caso Léfebvre” almeno dal 1988 in poi, su cui cfr. Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sulla retta applicazione del canone 1382 del Codice di Diritto Canonico, 6 giugno 2011.

[14]   Dopo le modifiche apportate al Codice dal m.p. “Ad tuendam Fidem” e atteso il tenore della Professione di Fede oggi in vigore, bisognerebbe forse dire che si danno, oltre all'eresia, tre delitti distinti, tutti oggi previsti nello stesso canone ma di diversa gravità, del che il giudice dovrebbe tener conto in sede di determinazione della pena: in ordine decrescente, la negazione di una verità che i vecchi manuali chiamerebbero “de Fide ecclesiastica”, cioè non rivelata o non proposta come rivelata, ma necessariamente connessa con la Rivelazione (p.es. la legittimità di un Papa o di un Concilio che abbiano definito dogmi e siano stati riconosciuti da tutta la Chiesa Cattolica come un'autorità vincolante); l'insegnamento di dottrine condannate da un Papa o da un Concilio, s'intende con censure dottrinali di grado inferiore all'eresia (cfr. can. 754; l'espressione “a Romano Pontifice” include anche l'antico S. Uffizio e, oggi, la Congregazione per la Dottrina della Fede, i cui documenti in materia di dottrina, se approvati dal Papa, diventano  parte del Suo Magistero ordinario); rigetto del Magistero mere authenticum (cfr. can. 752) seguito da ammonizione e mancata ritrattazione. Infine, si può notare che, oggi, per tutte e tre le ipotesi è prevista la sanzione penale della privazione dell'ufficio ecclesiastico eventualmente ricoperto, la quale però, appunto perché penale, richiede il dolo del reo e non opera come la amotio ipso iure ex can. 194, che configura un'inidoneità oggettiva.

[15]   “Sono quindi scismatici: 1° taluni scrittori liberali che rigettano le decisioni del Papa; 2° molti cattolici liberali che si comportano pubblicamente come liberi dall'obbedienza al Pontefice; 3° chi ammette il sistema politico-religioso del liberalismo puro che insegna la piena ed assoluta indipendenza dello Stato dalla Chiesa.”. M. da Casola, Compendio di Diritto Canonico, Genova 1967, pag. 1320.

[16]   Il concorso formale si giustifica quando i beni giuridici tutelati sono diversi, come nell'esempio citato, perché lo scisma è un delitto contro l'unità della Chiesa, non contro la pubblica tranquillità (e non ogni scismatico è un propagandista dello scisma in forme che configurano incitamento); un altro esempio di concorso formale si ha – spesso – tra scisma ed eresia, ogniqualvolta si manifesti una rottura della comunione motivata da ragioni ereticali espresse. Quanto al regime dell'istituto, il diritto canonico definisce il delitto come “externa legis vel praecepti violatio” (cfr. can. 1321 §2), quindi non ha bisogno di specificare in modo espresso che una stessa azione può comportare più violazioni, e affida al giudice il compito di moderare il trattamento sanzionatorio, ove lo ritenga opportuno, in tutti i casi in cui il reo abbia commesso più delitti (cfr. can. 1346 §2).