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Essere “persona nella Chiesa”: il Battesimo (parte seconda)

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Essere “persona nella Chiesa”: il Battesimo (parte seconda)

 

1. Premessa

Se nella prima parte ci siamo occupati della posizione giuridica dell'infidelis, dobbiamo ora passare al battezzato acattolico. Che la sua condizione sia un tertium quid si intuisce già dal testo del can. 96, che, se ricollega al solo Battesimo il divenire persona in Ecclesia, aggiunge poi che al battezzato spettano i diritti e i doveri che sono propri dei cristiani “in quanto sono nella comunione ecclesiastica e purché non si frapponga una sanzione legittimamente inflitta (lata legitime sanctio).”. Vi è una scissione, quindi, tra la capacità giuridica canonica, ricollegata al Battesimo, e a concreta titolarità di situazioni giuridiche soggettive che dipendono, invece, (anche) da un requisito ulteriore, la communio ecclesiastica; definita al can. 205 come plena communio, essa consiste nella condivisione piena del patrimonio dottrinale della Chiesa di Roma, nella partecipazione agli stessi Sacramenti con i fedeli cattolici e nella sottoposizione alla medesima Gerarchia, al cui indiscusso vertice si trova il Papa. In altre parole, e a rischio di anticipare troppo, la comunione ecclesiastica è ciò che, ad uno sguardo esterno, fa capire che Tizio appartiene alla Chiesa come organizzazione visibile; e infatti la sua trattazione teologica avviene spesso nell'ambito della “nota della visibilità”, ossia i dogma per cui Cristo non ha fondato una ekklesía puramente spirituale, invisibile o ideale, ma una societas organizzata in questo mondo (cfr. can. 204).

Accanto al limite derivante dalla communio, però, il can. 96 ne indica un altro, destinato ad operare solo all'interno della compagine ecclesiale: la sanctio, che invece non si applica a chi sia extra communionem: la potestà punitiva della Chiesa, oggi, si esercita solo su chi è stato battezzato o accolto nella Chiesa Cattolica (cfr. can. 11),[1] quindi gli acattolici non sono più scomunicati, anzi neppure scomunicabili, a meno che, convertiti, non ricadano nel vecchio errore. Si tratta di un'innovazione di notevole spessore, soprattutto sul piano teorico, e richiede importanti precisazioni perché se ne comprendano esattamente i termini.

 

2. Cristo Capo di tutti gli uomini 

Un buon punto di partenza per la disamina del problema è la risposta di S. Tommaso d'Aquino alla domanda se Cristo, che è indubbiamente il Capo – invisibile  della Chiesa, sia anche Capo di tutti gli uomini.[2] Risponde affermativamente, precisando che bisogna distinguere tra membra del Corpo Mistico in atto e in potenza, che non tutto ciò che è in potenza passa ad essere in atto e che, in questo caso particolare, detto passaggio conosce tre gradi: la Fede, la Carità e lo stato di gloria. Quindi, Cristo è Capo di tutti gli uomini, ma “in primo luogo e principalmente di coloro che Gli sono uniti in atto mediante la beatitudine. In secondo luogo, di coloro che Gli sono uniti in atto mediante la carità. In terzo luogo, di coloro che Gli sono uniti in atto mediante la Fede. In quarto luogo, invece, di coloro che Gli sono uniti soltanto in potenza non ancora ridotta all'atto, che tuttavia dovrà ridursi all'atto secondo la predestinazione divina. In quinto luogo, invece, di coloro che Gli sono uniti in una potenza che mai sarà ridotta all'atto, come gli uomini che vivono in questo mondo e non sono predestinati. Costoro tuttavia, nel momento in cui lasciano questo mondo, cessano del tutto di essere membra di Cristo, perché ormai non sono più neppure in potenza ad unirsi con Cristo.”.[3]

La prospettiva teologica, come si vede, è molto più ampia del problema, più strettamente canonico, di capire chi stia “dentro” o “fuori” la Chiesa società visibile, in quali termini e con quali conseguenze pratiche. Ad un'organizzazione purchessia, in definitiva, si può solo appartenere o no, senza sfumature intermedie (anche se è possibile che conferiscano alcune facoltà a non membri); sul piano teologico, soltanto i dannati sono ormai radicalmente estranei alla Chiesa, soltanto i beati ne hanno già realizzato pienamente lo scopo in sé stessi, tutti gli altri si trovano uniti a Cristo e tra loro in gradi differenti. In particolare, sono certi di salvarsi, se perseverano, i credenti che si trovano in stato di grazia, uniti dunque a cristo dalla Fede e dalla Carità; coloro invece che hanno commesso peccati mortali sono certi della dannazione, se non si pentono, ma per effetto della Fede conservano una qualche unione attuale a Cristo e sono spronati a pentirsi.

Il testo tommasiano, peraltro, pur evocando all'inizio il Corpo Mistico, parla di membra Christi, non di membra Ecclesiae, e non menziona affatto il Battesimo.

Non intendo qui chiedermi il perché: noto soltanto che, sebbene la Chiesa sia, per definizione tradizionale e paolina, il Corpo Mistico di Cristo, l'indagine sui membra Ecclesiae pone problemi diversi ed ulteriori, che non hanno senso se si parla di membra Christi, perché in questo caso si ha riguardo a Cristo come fonte della Grazia e della salvezza, in quello alla Chiesa pellegrina in questo mondo, arca della Nuova Alleanza nel perenne diluvio, ma anche società umana tra società umane. Di qui dubbi specifici: qual è lo status dei catecumeni, che già credono in Cristo e hanno chiesto il Battesimo, ma ancora non lo hanno ricevuto? O degli acattolici, che hanno il Battesimo ma non la Fede, almeno non quanto all'elemento oggettivo della pienezza di verità? E che pensare dei peccatori che suano incorsi in sanzioni canoniche, soprattutto nella scomunica? Anzi, a monte di tutto questo: fuor di metafora, che significa essere “membro della Chiesa”?  

 

3. La questione teologica de membris Ecclesiae

Giova premettere che il problema di cui ora cercherò di riassumere i lineamenti, seguendo una tesi di dottorato che ha cercato di mettere un po' d'ordine nell'argomento,[4] è una questione teologica lasciata aperta dal Magistero. Il che ci dice che a) è complessa, più di quanto si possa pensare, e b) è legittimo sostenere posizioni differenti. Capire quali esse siano, poi, ha importanza sia per la miglior interpretazione dei canoni pertinenti, sia perché l'una o l'altra tesi ben può aver influenzato in vario modo la dottrina canonica.

Il Corpo Mistico non è un corpo fisico, evidentemente, e quindi il termine “membro” si usa nel senso metaforico caratteristico dei corpi morali, che – a somiglianza dei fisici – sono caratterizzati da una pluralità di membri, che però formano un'unità. Tuttavia, le organizzazioni umane non hanno, di per sé, nulla più che un'unità morale data dall'identità di vedute e propositi; il Corpo Mistico è un tertium genus, che a quest'idem velle, idem nolle aggiunge una vita vera, sebbene occulta e soprannaturale, di cui i membri partecipano proprio in quanto membri e non semplicemente come uomini.  Di questo Corpo, Cristo è Capo sia in quanto lo dirige, esprime dunque l'intelletto e la volontà cui i membri si uniformano, sia e più ancora perché da Lui proviene la vita del Corpo,[5] ossia la Grazia, e appunto in forza di ciò l'unione è tale che Corpo e Capo sono detti una cosa sola, tanto che nei Suoi fedeli Cristo stesso è perseguitato come in persona propria. 

Il concetto di membrum Ecclesiae, però, pur restando ancorato a queste premesse ineludibili, riguarda l'aspetto visibile della società ecclesiastica. “Con il termine membro si indica una parte integrante di un corpo organico. Perciò, affinché sia veramente un membro, deve possedere queste caratteristiche: 1) almeno una qualche coesione con il corpo; 2) almeno una qualche partecipazione alla vita del corpo.”.[6] Non rileva, dunque, la predestinazione, prediletta da Wyclif, da Hus e dai calvinisti, perché anche chi si dannerà può nel frattempo essere vero membro della Chiesa; il possesso della grazia santificante, a sua volta, è necessario ad bene esse, ma non coessenziale alla qualità di membro (l'errore contrario è stato condannato in Quesnel); solo la rottura del vincolo della fede, per eresia o apostasia, oppure di quello dell'appartenenza visibile, nel caso dello scisma, fa sì che il membro cessi di essere tale. In sintesi: ogni uomo è costituito membrum Ecclesiae in forza del Battesimo, poiché il Sacramento basta a soddisfare la definizione che precede, in quanto conforma a Cristo, infonde la Grazia ed imprime il carattere (mentre la fede, che per Suárez è l'essenza della qualità di membro, non lo imprime);[7] lo status si conserva finché la sua volontà non vi frapponga un ostacolo al mantenimento di codesta sua unità con la Chiesa. I bambini, quindi, anche se battezzati in una confessione acattolica, sono veri membri della Chiesa fino all'età della ragione, ma in seguito la loro adesione volontaria all'eresia o allo scisma vi si oppone. Quanto invece ai catecumeni, che già possiedono la Fede ma non ancora il Battesimo, per il Dottore Esimio sono membri a pieno titolo, mentre gli altri escogitano al riguardo le formule più diverse per esprimerne la condizione di membra imperfecta.

Quanto ad eretici e apostati anche notori, Alfonso di Castro sostenne che rimangono membri della Chiesa perché il carattere battesimale non si perde mai; ma tra i teologi è dottrina comune che non lo siano più, se all'errore si uniscono volontà, ostinazione e pubblicità o addirittura notorietà del fatto, perché l'unità dela Fede è essenziale all'appartenenza alla società ecclesiastica; il carattere rileva però ad un altro fine, mantenerli sudditi della Chiesa e quindi passibili di sanzioni. Vi è contrasto, invece, quanto a coloro che errano notoriamente, ma in buona fede: per alcuni non sono membri della Chiesa, per altri tra cui Suárez sì, un terzo partito distingue il foro interno, dove lo sono, dall'esterno, dove non lo sono. Gli altri due casi su cui più ferve la controversia sono gli eretici occulti e quelli che dissimulano, professando solo esteriormente la fede cattolica: in senso affermativo depone la visibilità, ma per il negativo la volontà. Tutto ciò vale, mutatis mutandis, anche per gli scismatici.

Infine, ma non da ultimo, l'autorità ecclesiastica può recidere un membro dal corpo ecclesiale mediante la pena della scomunica, che, secondo la definizione del can. 2257 CIC17, esclude dalla comunione dei fedeli: di fatto gli scomunicati tollerati non vengono privati di tutti i beni offerti dalla Chiesa e quindi si può ritenere che ancora Ne siano membri, ma quelli dichiarati vitandi devono essere rifuggiti come appestati ed esclusi da ogni partecipazione a qualunque atto, di culto o di altro genere, sicché si deve raggiungere la conclusione opposta (sebbene qualche voce sostena che, conservando l'unità della fede e del governo, restino membri anch'essi).

Precisato così il retroterra teologico sotteso alle norme positive, possiamo passare ad esaminare il modo in cui il diritto positivo disciplina le diverse categorie di soggetti fin qui evocate.

 

4. Lo status canonico del catecumeno

Il CIC si occupa dei catecumeni al can. 206, subito dopo aver definito la communio ecclesiastica, e lo fa in termini incisivi anche dal punto di vista teologico, poiché, pur evitando ovviamente di dire che sono già “incorporati” alla Chiesa, anzi definendoli come coloro che chiedono quest'incorpotazione voluntate explicita, afferma nondimeno che alla Chiesa sono “uniti” (conectuntur) e addirittura “congiunti” (coniunguntur) in un modo tutto loro (speciali ratione), in forza di questo stesso desiderio e della vita che conducono, già contraddistinta dalle virtù teologali.

La conseguenza pratica è che la Chiesa li considera già suoi e, mentre li prepara al Battesimo, pur non ammettendoli a ricevere i Sacramenti, “già elargisce loro diverse prerogative che sono proprie dei cristiani” (can. 206 §2). In realtà, però, quest'enunciazione di principio ha soprattutto carattere programmatico, perché il can. 788 prevede un'accezione un po' più ristretta di catecumeni, disponendo che quanti manifestano la volontà di abbracciare la fede in Cristo, dopo un tempo di precatecumenato, siano ammessi al catecumenato, che li prepara al Battesimo, con un apposito rito liturgico (§1)[8] e delega le singole Conferenze Episcopali a stabilire i loro diritti e doveri (§3), fermo che, già toccati dalla Grazia, debbono ritenersi già astretti all'obbligo di condurre una vita santa (can. 210; arg. ex cann. 206 §1 e 788 §2). il Codice attribuisce loro, in via diretta, due soli diritti: a ricevere le benedizioni (can. 1170) e alle esequie, se morissero senza aver potuto ricevere il Battesimo (can. 1183). L'esclusione dai Sacramenti è di diritto divino; anticamente, però, essi potevano partecipare alla prima parte della Messa (oggi nota come “Liturgia della Parola”, ma fino all'ultima riforma liturgica nota appunto come “Messa dei catecumeni”) e ciò costituisce senz'altro un mezzo molto opportuno per la loro istruzione. Il principio generale del can. 96 porta a concludere che, almeno a termini di legge universale, essi non godano di altri diritti, cultuali o meno, tranne quelli che il Codice estende espressamente anche ad acattolici o infedeli, perché allora si dà un chiaro argomento a fortiori. In sintesi, dunque, lo status giuridico del catecumeno dipende in massima parte dal diritto particolare, salvo il diritto iuris divini alla cura pastorale della Chiesa e ferma l'esclusione dai Sacramenti, anch'essa di fonte divina.

 

5. L'acattolico nel CIC vigente

Per quanto concerne i cristiani acattolici, delinearne lo status giuridico si presenta assai più complesso, sia per il maggior numero di norme, sia perché la logica sottesa è volta ora ad includere, ora ad escludere, senza un discrimine chiaro qual è, per i catecumeni, la mancanza del Battesimo.

Ci si può chiedere, in primo luogo, se il can. 96 implichi che essi siano già, in radice e per la sla qualità di battezzati, titolari di tutti i diritti e doveri propri del cristiano, cosicché la mancanza di communio ecclesiastica sarebbe solo un impedimento al loro esercizio, o se vi sia anche un difetto di titolarità. Il de Paolis milita certamente nel primo senso;[9] io tuttavia sarei propenso a distinguere, poiché un effetto abilitante del solo Battesimo mi sembra ravvisabile unicamente per il culto divino e l'accesso ai Sacramenti, laddove per quanto concerne ad es. il diritto di associazione dei fedeli, o le iniziative di apostolato, o la soggezione alla Gerarchia, l'annuncio della Parola etc., la condizione oggettiva degli acattolici è semmai analoga a quella dei non battezzati, dal che mi pare di poter concludere che, in tali situazioni, la communio ecclesiastica giochi un ruolo costitutivo nell'attribuzione di quei diritti e doveri.

Da altro ma non estraneo punto di vista, occorre ricordare che le confessioni cristiane non cattliche, in quanto contraddicano qualche dogma della cattolica, sono necessariamente false e, al di là delle intenzioni, costituiscono un male morale obiettivo, proprio perché falsano la Verità divina. Di conseguenza, per i cattolici costituisce delitto far educare i figli in una di esse (can. 1367, già 1366); anzi, benché il Sacramento sia valido, non possono nemmeno farli battezzare in una religio acatholica (ivi);[10] esiste, inoltre, un divieto di communicatio in sacris, ossia di partecipazione comune al culto, che oggi però non è più assoluto (cfr. can. 1381, già 1365), poiché il diritto divino la vieta solo se vi sia pericolo di caduta nell'errore o nell'indifferentismo (cfr. can. 844 §2). Il pericolo ricorre con una certa frequenza, soprattutto considerato che l'indifferentismo è in grande spolvero ai giorni nostri; ma il fatto che la communicatio in sacris non sia vietata tout court conferma, a mio parere, la differenza essenziale che, quanto allo status dell'acattolico nella Chiesa di Roma, corre tra il culto divino e le innumeri altre questioni.

La conferma migliore, però, a mio avviso sta nelle eccezioni al divieto, previste in particolare al can. 844 §§3-4: se in linea di massima l'attività della Chiesa nei confronti dell'acattolico – che è raccomandata al Vescovo (can. 383 §3) e al Parroco (can. 528 §1), forma oggetto di formazione per i seminaristi (can. 256) etc. - mira alla loro conversione e ad essa subordina il loro acquisto di posizioni giuridiche di vantaggio, nel caso specifico del culto divino si stabilisce che, se la sua confessione di appartenenza amministri validamente i Sacramenti della Penitenza, dell'Eucarestia e dell'Unzione degli infermi, ogni acattolico può riceverli anche dal ministro cattolico, a due sole condizioni, che li chieda spontaneamente e sia ben disposto; l'accertamento della retta disposizione dovrebbe teoricamente riguardare anche il carattere vincibile o meno del suo errore circa l'identità della vera Chiesa, ma in proposito occorre procedere con molta cautela e, comunque, non è affatto richiesta la conversione previa. Anzi, in caso di pericolo di morte o altra grave necessità, perfino i protestanti e gli altri acattolici le cui confessioni non professino la dottrina romana sui tre Sacramenti predetti possono comunque riceverli, se non possono rivolersi al ministro del loro culto e, oltre alle due condizioni già viste, professino la fede cattolica, sì, ma solo circa il Sacramento che richiedono.[11]

Come la dottrina può costituire un fondamento di ammissione, però, così pure di esclusione: i padrini si assumono l'obbligo di collaborare a far sì che i battezzandi o cresimandi siano edicati nella religione cattolica, quindi gli acattolici sono esclusi (can. 874 §1 n. 3°). In altri casi l'atto sarebbe in sé menzognero, significando un'unità che la divisione dottrinale non lascia purtroppo sussistere in maniera piena: così ai Sacerdoti cattolici è vietato concelebrare con i ministri acattolici (can. 908), mentre può celebrar Messa in un luogo di culto acattolico, sia pure per una giusta causa, con licenza espressa dell'Ordinario del luogo e remoto scandalo (can. 933). la licenza è necessaria anche per poter contrarre matrimonio misto (cfr. cann. 1124-9) e il suo rilascio è subordinato all'impegno del la parte cattolica a far tutto il possibile perché i figli siano cresciuti nella Fede Romana, impegno di cui l'altra parte dev'essere almeno ben consapevole... ma è il caso di notare che si parla di licenza, quindi autorizzazione all'esercizio di un diritto che già esiste, e non di dispensa da un divieto. Infine, il can. 1170 consente all'acattolico di ricevere benedizioni, pirché non vi sia una proibizione espressa in leggi particolari, e il can. 1183 consente al Vescovo cattlico di concedergli le esequie in casi particolari, se non si può avere un ministro del suo culto.

Fin qui le disposizioni espresse, che riguardano, come si vede, soprattutto l'ambito cultuale. E per il resto?

Il can. 1476 opera indubitabilmente anche in favore degli acattolici e consente loro di rivendicare in foro canonico qualunque diritto di cui siano titolari; ma, a parte l'accertamento dello stato libero o coniugato, o la communicatio in sacris nei casi consentiti,  i diritti naturali quando vengano in rilievo (si pensi ad un acattolico che lavori per una parrocchia), di quali situazioni soggettive potrà trattarsi? Non di uffici ecclesiastici, che richiedono la communio (can. 149 §1) e si rendono vacanti ipso iure se questa si perde pubblicamente (can. 194); ma neppure dei diritti dei fedeli ex cann. 208-23 o 224-31, salvo quanto si è detto per il culto divino, poiché si tratta appunto di diritti dei fedeli in senso stretto, vale a dire dei cattolici. Né i loro chierici potranno, generalmente, invocare i diritti che il Codice prevede per quelli cattolici: anche la tutela penale apprestata dal can. 1370 §3 contro chi usi loro violenza fisica richiede che le vittime siano cattoliche. E così via: il can. 11 esclude che la legge mere ecclesiastica riguardi gli acattolici, quindi solo una disposizione che li riguardi in modo espresso può conferir loro diritti o, se è per questo, doveri.

In conclusione, l'afflato ecumenico e la riflessione teologica, in termini di norme positive, hanno messo capo ad un più ampio riconoscimento anche pratico del diritto che l'acattolico possiede, in linea di principio, a rendere culto a Dio; nondimeno, e in maniera necessaria almeno in massima parte, l'acattolico resta escluso dagli ordinari atti di vita della Chiesa come organizzazione visibile, poiché il piano in cui egli in un certo senso le appartiene è quello invisibile e sacramentale.

 

6. L'appartenenza alla Chiesa dello scomunicato

Poiché appartiene alla Chiesa chi è nella communio ecclesiastica ed essa consiste nei tre vincoli bellarminiano della Fede, dei Sacramenti e del governo ecclesiastico, cessa di appartenervi chi perda almeno uno di questi vincoli, dunque apostati, eretici o scismatici, nei termini già visti al §3. Invece, non è oggi più sostenibile la tesi, che ha trovato eco a suo tempo anche nell'Enciclica Mystici Corporis di Pio XII, secondo cui lo scomunicato – per delitti diversi dai precedenti – cesserebbe a sua volta di appartenere alla Chiesa: dispute dottrinali a parte, ciò poteva dirsi vero in termini pratici, nel senso cioè di una privazione totale di qualunque diritto, ancora sotto il vecchio Codice, almeno per il caso dello scomunicato vitandus; ma il nuovo Codice, al can. 1331, ha mitigato di molto gli effetti negativi della scomunica, che non esclude più dalla preghiera o dai suffragi della Chiesa e, in più, consente comunque di ricevere i Sacramentali (come le benedizioni, di cui abbiamo visto che si possono impartire anche all'acattolico). Oggi, quindi, la scomunica colpisce soprattutto i ministri sacri, privandoli di quasi tutti i diritti e facoltà, nonché i titolari di uffici ecclesiastici, che ne vengono privati; ma l'effetto afflittivo per il laico si riduce in sostanza all'esclusione dai Sacramenti,[12] che, sebbene gravissima in sé e per le ripercussioni sulla vita spirituale, non basta perché si possa dire che lo scomunicato non appartiene più alla Chiesa.   

 

[1]     Per V. de Paolis, Il Libro I del Codice: norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995 (III ed. ) pagg. 367-8, il termine sanctio al can. 96 ha un significato più ampio che non censura nel can. 87CIC17 e include anche tutte le leggi umane che limitano o inibiscono, in certe circostanze, l'esercizio dei diritti; ma ai nostri fini poco cambia, poiché i battezzati acattolici non sono più soggetti nemmeno alle leggi meramente ecclesiastiche.

[2]     S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae III, qu. 8, a. 3.

[3]     Ivi, in corpore: “Primo enim et principaliter est caput eorum qui actu uniuntur sibi per gloriam. Secundo, eorum qui actu uniuntur sibi per caritatem. Tertio, eorum qui actu uniuntur sibi per fidem. Quarto vero, eorum qui sibi uniuntur solum potentia nondum ad actum reducta, quae tamen est ad actum reducenda, secundum divinam praedestinationem. Quinto vero, eorum qui in potentia sibi sunt uniti quae nunquam reducetur ad actum, sicut homines in hoc mundo viventes qui non sunt praedestinati. Qui tamen, ex hoc mundo recedentes, totaliter desinunt esse membra Christi, quia iam nec sunt in potentia ut Christo uniantur.”.

[4]     Cfr. S. Fraghi, De membris Ecclesiae, Roma 1937 (tesi di dottorato all'Angelicum).

[5]     Esistono varie opinioni teologiche su quale sia l'anima della Chiesa: cfr. ivi, pagg. 25-32 (l'opinione più comune, però, la identifica con lo Spirito Santo).

[6]     “Nomine membri designatur pars integralis corporis organici. Proinde ut vere membrum sit, hoc debet habere: 1) aliquam saltem cohaesionem cum corpore; 2) aliquam saltem participationem vitae corporis.”. Ivi, pag. 39.

[7]     Il carattere sacramentale, nel caso del Battesimo, è una potenza passiva agli altri Sacramenti, che abilita il soggetto a ricevere: ivi, pagg. 65-6. Si rigetta l'opinione del Bellarmino, che, molto preoccupato di insistere sulla visibilità della Chiesa, considerava sufficiente anche un Battesimo invalido (Ibid., pag. 67).

[8]     Il can. 851 prefigura un'iniziazione cristiana degli adulti per successive tappe rituali, come in antico; con essa non va confuso il Cammino Neocatecumenale, che è un'iniziativa di formazione post-battesimale, che imita le forme del catecumenato ma è volto a fornire ai cristiani di oggi, troppo spesso sprovvisti della formazione religiosa più elementare, ciò che i convertiti apprendono da catecumeni.

[9]     Cfr. V. de Paolis, op.cit., pagg. 368-9: “Si è incorporati alla Chiesa di Cristo, ma questa sussiste in pienezza nella Chiesa cattolica. Il campo dei doveri e dei diritti può essere pieno solo nella Chiesa cattolica, dove i mezzi della grazia e della santificazione voluti da Cristo si trovano nella loro pienezza e nella loro totalità [UR 3]. Chi perciò non vi appartiene si trova oggettivamente al di fuori della possibilità di esercitare in pienezza i doveri e i diritti. […] I non cattolici quindi, anche se incorporati alla Chiesa di Cristo e anche se persone soggette di doveri e diritti propri dei cristiani, di fatto hanno un esercizio molto limitato, se non nullo, nell'ambito della Chiesa cattolica., ”.

[10]   Il termine religio è adatto, di per sé, ad indicare anche le religioni pagane, perché lo stesso canone incrimina tanto il “far educare” quanto il “far battezzare”; in quest'ultimo caso, però, deve trattarsi del Battesimo cristiano o che almeno si presenti come tale (anche se fosse eventualmente invalido) e amministrato in modo tale che il figlio sia registrato come membro della setta acattolica. In tal senso cfr. A. Calabrese, Diritto penale canonico, Roma 2006, pag. 256: “far battezzare un figlio in una religione acattolica significa farlo battezzare da un ministro acattolico, il quale gli amministra il sacramento nel proprio rito e lo registra tra i membri della sua religione.”. Si tratta, dunque, di un atto che priva il figlio dei vantaggi della communio ecclesiastica - oltre a far seriamente dubitare dell'ortodossia dei genitori stessi – e appunto in ciò si trova la ragione principale della sua antigiuridicità.

[11]   Sebbene il caso non sia sovrapponibile, si può menzionare anche il can. 858 §3, introdotto nel 2016: di regola, si possono battezzare lecitamente solo i bambini per cui vi sia almeno la fondata speranza che saranno edicati nella religione cattolica; si eccettua però il caso dei figli di acattolici che non possono rivolgersi al loro ministro, se almeno uno dei genitori lo richiede.

[12]   E de diritto di voto nelle elezioni ecclesiastiche (cfr. can. 171): al di fuori di questo caso, anche l'espulsione dalle associazioni cattoliche richiede un provvedimento distinto.