Sant’Antonio Abate e la serenità nell’incertezza

Sant'Antonio Abate
Sant'Antonio Abate

Il ruolo del maiale

Il 17 gennaio, memoria liturgica di sant’Antonio Abate, è ancora viva, in molte zone d’Italia la tradizione di far benedire gli animali, specie quelli d’allevamento, ponendoli sotto la tutela del santo monaco.

Com’è comune per i culti di molti santi, tradizioni simili, anche se simpatiche e senza dubbio giovevoli, pur avendo l’indubbio merito di preservare nel cuore del popolo questi grandi nomi, rischiano sempre di offuscarne la vera luce. Anche se è tutt’altro che sbagliato coltivare questi antichi costumi, validi custodi della memoria, penso sia altrettanto importante non permettere che una figura di santità sia ridotta ad un mero atto di folklore. Quest’ultimo anzi deve divenire l’occasione, quasi fosse un abito vistoso, d’incontrare e conoscere questi fratelli maggiori in Cristo.

Ecco allora che la prossima volta che vedremo sant’Antonio affiancato dal suo simpatico maialino[1], cerchiamo di sfruttare quella scintilla di curiosità per approfondire una figura di santità che certamente ha, ancora oggi, tanto da dirci.

Supponendo che concordiate con me su questo punto, il testo che vi consiglio di leggere è la celebre Vita di Antonio, redatta da sant’Atanasio d’Alessandria a partire dal 356 d.C.

Lo scritto è piuttosto breve e propone non solo, o forse non tanto, la biografia del santo monaco quanto una vera e propria sintesi della sua spiritualità. Tale obiettivo è raggiunto considerando modalità di predicazione propria dei monaci del deserto: questa era centrata quasi totalmente sull’esempio, fornito da uno stile di vita tanto radicale da divenire facilmente pietra d’inciampo per molti.

Ecco che quindi atti ed episodi concreti, pur se tinti di un certo gusto per il meraviglioso, divengono sempre per l’autore l’occasione di proporre delle riflessioni spirituali capaci di toccare l’animo del lettore. Il risultato è un percorso biografico che non presta tanto attenzione al cammino sostenuto in questa terra, quanto al sentiero spirituale che da quei poveri gesti è scaturito.

 

Un discorso dal deserto

Il divario fra questi due elementi è forse il carattere più proprio della santità di Antonio Abate. Se da un lato, in termini puramente biografici, la sua esistenza terrena ci pare abbastanza misera, priva anche di quelle glorie umane che la vita in Cristo può generare, dall’altro la sua fertilità spirituale non esita ad abbagliarci ed a sorprenderci.

Stiamo parlando di un uomo che, nato in Egitto nella regione limitrofa a Tebe da famiglia cristiana, probabilmente attorno al 251, udì a vent’anni la chiamata del Signore ad una vita sempre più radicata in Lui, libera da tutto ciò che potesse allontanarlo dalla Salvezza[2]. A tale scopo si ritirò nel deserto egiziano, allontanandosi gradualmente sia dalla civiltà sia dai vizi che potevano intaccare la sua anima. Mentre si radicava sempre di più nella libertà dei figli di Dio[3], lo splendido contrasto fra la durezza delle sue condizioni di vita e la serena gioia che da lui traspariva spinse moltissimi cristiani a cercare non solo d’imitare il suo esempio ma anche di carpire i suoi insegnamenti.

Sant’Atanasio, che si pose alla scuola di sant’Antonio o direttamente o per il tramite di alcuni suoi discepoli, riporta nel testo in questione un lungo discorso diretto del santo monaco[4] nel quale vengono sintetizzati i punti chiave dell’ascesi e della spiritualità da lui vissute.

Questa catechesi viene posta in bocca ad un sant’Antonio maturo, appena uscito da un lungo periodo di eremitaggio nel deserto, e possiede il sapore di una sapienza vissuta, macerata in lunghi anni di solitudine. Naturalmente questo breve articolo non è il luogo adatto per analizzare a fondo questa sezione dell’opera, né per elencare le diverse componenti dello stile di vita di Antonio che emergono; ciò che invece possiamo fare è considerare un singolo brano, breve ma significativo, sul quale formulare una prima riflessione sugli insegnamenti di questo grande santo.

«Se vivremo così anche noi, come se ogni giorno dovessimo morire, non peccheremo. Questo significa che ogni giorno, quando ci svegliamo, dobbiamo pensare che non arriveremo fino a sera, e di nuovo, al momento di coricarci, dobbiamo pensare che non ci sveglieremo più. La nostra vita è incerta per natura ed è misurata giorno per giorno dalla Provvidenza»[5].

 

La nudità del deserto

Nulla da dire: sono parole dure, nette, capaci di colpire la nostra attualità con tutta la violenza di una verità spogliata d’ogni orpello. Credo che la reazione più istintiva e genuina sia la fuga, il ritrarsi sdegnato e confuso di un cuore che rifiuta la serenità celata dietro un così ruvido insegnamento.

Tuttavia dobbiamo anche ammettere una cosa: ci saremmo forse aspettati di meno da un uomo come Antonio, un individuo che senza esitare aveva seguito Cristo nel deserto, in una landa ove tutta sa di morte?

Io penso di no, e questo ci conduce ad un’amara verità: nella vita spirituale spesso non sappiamo cosa stiamo cercando. Proprio come il ricco del racconto evangelico, che scoprì di non desiderare ciò che chiedeva[6], così anche noi, se siamo onesti, non possiamo non mettere in discussione, di fronte a parole simili, l’autenticità del nostro desiderio di santità.

Ciò che più ci sconvolge non è tanto il negare quell’istintuale tabù verso la nostra morte che la misericordia di Dio ci ha donato, quanto l’idea implicita che, così facendo, si finirebbe per sminuire anche quel po’ di bontà che il mondo innegabilmente possiede. Difatti, nel momento in cui fondo la mia esistenza sulla continua consapevolezza della sua incertezza e caducità, ogni elemento finito che la compone tenderà ad apparirmi futile, vano quanto un fiore di campo[7]. Non possiamo certamente negare che la severissima ascesi di sant’Antonio implicasse certamente un forte ridimensionamento della centralità dei beni del mondo; tuttavia ci pare ingiusto, addirittura innaturale negare che detti beni posseggano una loro lecita bontà.

Proviamo quindi a riflettere bene sulla questione e, per farlo, poniamoci una domanda: a quale scopo Antonio ci propone questo esercizio spirituale, questo nuovo sguardo sul mondo?

Il testo citato è chiaro su questo punto: se accetteremo la prossimità della morte fisica, non peccheremo. La svalutazione dei piaceri mondani allora non intende suggerire una visione dualista del mondo, capace di concepire il materiale solo nella sua negatività, bensì vuole condurci ad uno stile di vita che eviti ogni uso disordinato di tali beni. L’ascesi quindi, che consiste proprio nelle spoliazioni da tutti gli elementi caduchi con i quali ci rivestiamo, non mira tanto a rimuovere qualcosa d’impuro, ma ad insegnarci a non rendere tale ciò che tocchiamo o usiamo.

L’insegnamento di sant’Antonio Abate è molto più profondo di quanto le sue parole lascino supporre. Vivere l’incertezza della nostra esistenza con cristiana consapevolezza ci permette di concepirci come sempre sorretti da una Provvidenza Divina che non ci lascia soli sul sentiero, ma ci tiene per mano giorno per giorno; è il Signore, nella Sua Bontà e Sapienza, che ci fornisce ciò che serve alla nostra vita materiale, con o nonostante i nostri sforzi[8]. Ecco allora che il rapporto che dobbiamo avere con tali beni è di quotidiana gratitudine ma non di dipendenza; essi infatti, proprio come la nostra esistenza terrena, ora ci sono e domani potrebbero non esserci ed ambedue tali condizioni, per quanto dolorose possano essere, sono parte dell’amorevole Provvidenza di Dio.

La conclusione che se ne trae è il fondamento della vita monastica: se l’origine di ogni uso disordinato dei beni mondani è proprio l’indisponibilità alla loro rinunzia, che spesso si traduce in un presunto diritto di possesso, allora la vita ascetica ha lo scopo d’insegnarci, attraverso la nudità del deserto, quale sia la sola cosa irrinunciabile per l’uomo. Si tratta naturalmente della comunione con Cristo, l’unico nostro bene[9], e della Vita Divina che fluisce in noi da Lui.

Quando ci saremo radicati nel Signore allora ogni gioia su questa terra, dalla più infima alla più alta, sarà per noi un dono, qualcosa che arricchisce ma non fonda la nostra esistenza. A quel punto saremo davvero liberi, poiché potremmo amare quel dono non nella sua necessità ma nel suo essere guizzo di quell’Amore che ci nutre e ci fonda.

L’invito quindi non è ad un mesto memento mori, ad un rassegnato passo ai confini della Tetra Valle, bensì ad una riflessione che quotidianamente ci mostri come tutti i beni di cui godiamo, inclusa la vita terrena, siano come gioielli che agghindano ma non reggono l’Amore che ci muove. Diverremo così capaci tanto di ammirarne la bellezza quanto di spogliarcene all’occorrenza.

 

[1] Cf, a mero titolo d’esempio, Alessandro Bonvicino detto Il Moretto, Sant’Antonio Abate, dipinto del 1530 sito nel santuario della Madonna della Neve a Casto, in provincia di Brescia.

[2] Cf sant’Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (VA), nn. 2-7.

[3] Cf Rm 8, 21.

[4] Cf VA, nn. 16-43.

[5] VA (trad. a cura di Lisa Cremaschi), n. 19, 2-3, Paoline, Cinisiello Balsamo 2007.

[6] Cf Lc 18, 22-23.

[7] Cf Mt 6, 28-30.

[8] Cf Lc 12, 30.

[9] Cf Salm 35, 17.

Testi consigliati

  • Atanasio d’Alessandria, Sant’Antonio Abate: la sua vita (edizione critica e trad. a cura di G. J. M. Bartelink e Luca Bruzzese), ESD, Bologna 2012.