Il drago rosso: ricchezze contro povertà
Il drago rosso: ricchezze contro povertà
La storia del male
Una delle più grandi ricchezze dell’Apocalisse di san Giovanni è certamente costituita dalle evocative immagini che propone. D’altro canto è pur vero che l’ultimo libro della Bibbia è stato, nella storia dell’esegesi e del commento biblico, tanto delizia quanto tormento dei teologi e delle persone spirituali proprio a causa della grande varietà di letture cui simili segni si prestano.
Se infatti non pochi, e non senza ragione diremmo, furono tentati di leggere lo scritto di san Giovanni come un resoconto, seppur complesso, di fatti storici futuri, altri ipotizzarono che tanto le vicende quanto i singoli elementi presentati abbiano lo scopo di “descrivere” una condizione dell’umanità destinata a rimanere stabile fino al Giudizio Finale [1]. Potremmo cioè vedere l’Apocalisse come un gigantesco e complesso affresco che, nella sua staticità, presenta e spiega delle condizioni stabili del complesso rapporto fra Dio, Satana e l’uomo in via.
Quella che seguirà è solo una proposta di lettura, carica di tutta l’umiltà di un fedele che si è accostato a questo testo con poco più della sua fede a sostenerlo.
Volendo dare seguito alle mie limitate riflessioni, potrei dirvi che uno dei simboli apocalittici che ritengo più evocativi e pregnanti per la meditazione è senza dubbio il drago rosso. San Giovanni così lo presenta: «Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito» (Ap 12, 3-4).
La prima domanda che ci poniamo è chi rappresenti questo spaventoso animale: san Giovanni risponde con estrema chiarezza dicendo che «il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli» (Ap 12, 9). Potremmo pensare quindi che l’immagine del dragone, sapientemente legata dall’evangelista al serpente dell’Eden, esaurisca il suo potenziale simbolico e rappresentativo in una descrizione allegorica del male e della sua origine. Mi pare tuttavia che vi sia anche una dimensione diacronica, magari meno evidente, presente nella figura di questa creatura.
L’intuizione non è mia ma risale perlomeno al XII secolo quando il monaco calabrese Gioacchino, abate del monastero di Fiore, interpretò il drago come «simbolo riassuntivo del corpus diaboli che attacca la chiesa in tutti i tempora» [2]. Questa affascinante lettura implica che la figura stessa della gigantesca belva rappresenti non solo l’origine e la natura del male in sé stesso, ma anche il suo progressivo agire nella storia. Lo stesso testo rivelato pare andare anche in questa direzione: difatti il dragone, dopo aver fallito nell’insidiare la donna partoriente e suo figlio, «si infuriò contro la donna e se ne andò a fare guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12, 17).
Le teste del dragone
Nei suoi scritti sull’Apocalisse Gioacchino da Fiore coglie la progressione dell’intervento del male nella storia non solo nei gesti del drago rosso ma anche nella sua stessa figura. La sua idea di scorgere nelle teste della belva differenti figure storiche in diametrale opposizione alla Chiesa era, pur se affascinante, limitata e limitante nel momento in cui cercò di dare a questi loschi personaggi un’identità precisa [3].
Ciò su cui invece, a mio parere, può valer la pena di meditare è l’intuizione di leggere nelle teste, così come nelle corna e nei diademi, differenti volti con cui lo stesso male, rappresentato dall’unico corpo che le genera, assale il Corpo Mistico della Chiesa.
Una simile interpretazione ci consentirebbe di giungere a una duplice conclusione: da un lato il male, inteso come forza negativa che allontana da Dio e nega la fede, possiede una natura fondamentale che le variazioni della storia non mutano; dall’altro i volti con i quali di volta in volta si presenta ingannano l’uomo, celando al suo sguardo il costante riproporsi del vecchio nemico. In altri termini, ogni testa, flagello di un’epoca o di un contesto, non farebbe altro che ripresentare sotto una differente veste quell’originaria insinuazione che portò alla caduta dei progenitori: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 4).
Proviamo per un secondo ad accogliere come valida questa lettura del simbolo apocalittico del dragone, e più in generale del male, e chiediamoci: quale testa l’Occidente di oggi si trova ad affrontare?
In verità la questione stessa, così posta, comporta la volontà di limitare l’analisi a una sola manifestazione del Tentatore; in verità, non ci vuol molto a comprenderlo, l’assalto che subiamo proviene sempre da più fronti, tanto che quando crediamo d’aver imparato a riconoscere le fattezze della belva, rischiamo subito di cedere alle lusinghe d’un differente sembiante. Eppure penso che porsi simili quesiti sia tutt’altro che vano: difatti, anche se ottenessimo solo una comprensione parziale delle vesti del Nemico, saremmo comunque meno indifesi di prima contro i suoi attacchi.
Personalmente ritengo che una delle teste del dragone più insidiose per noi oggigiorno sia quella della ricchezza. Nulla di nuovo potreste dirmi, nulla che davvero caratterizzi un tempo o una cultura dato che già nella Sua epoca Gesù contrapponeva il servizio da rendere a Dio alla schiavitù cui riduceva il denaro (cf Lc 16, 13), segno che la brama di possesso è una trappola cui il nostro cuore cade facilmente in ogni contesto. Eppure credo sia altrettanto innegabile che l’Occidente attuale si è donato a questo antico idolo con una passione tutta nuova.
Se è vero che ogni uomo ha sempre subito la tentazione di cercare superbamente la propria autonomia da Dio nella forza che proviene dalla ricchezza, poche culture oltre la nostra hanno elevato il possesso a vera realizzazione di sé. Inoltre la potenza economica, nelle sue varie forme, era nel passato spesso cercata come strumento per ottenere altre forme di esaltazione dell’io, come il prestigio o la capacità d’influenzare gli altri; oggi invece l’accumulo di beni pare essere vissuto come fine a sé stesso, capace in sé di compiere l’uomo.
Piccola prova ne è il fatto che probabilmente la maggior parte di noi porrebbe, fra i celebri tre desideri, l’acquisizione di una grande quantità di denaro, ma pochissimi saprebbero con altrettanta disinvoltura dire come concretamente tramuterebbero quegli oggetti in felicità stabile.
Rinunziare al tesoro
Naturalmente sto semplificando un elemento molto complesso e variegato anche se, ad essere sincero, non credo si tratti di un’operazione più di tanto indebita. Se è vero che il male è semplice, tortuoso ma lineare come un serpente, allora il modo migliore per vederne con chiarezza un volto è riportarlo alla sua semplicità.
La brama di ricchezza che noi occidentali tendiamo a vivere non è, come spesso nel passato, mirata tanto a superare una condizione di vera o presunta sofferenza o instabilità; forse così giustifichiamo la nostra continua ricerca di beni, ma si tratta d’un inganno abbastanza vago e fragile. Difatti la maggior parte di noi non vive in una condizione di vera indigenza, grazie a Dio, per cui la “povertà” che diciamo di combattere nelle nostre esistenze spesso non è altro che l’assenza di altri beni superflui il senso del cui possesso solitamente ci sfugge.
Il male in fondo è come l’uroboros, il serpente che si morde la coda; è cioè destinato a celare dietro un apparente fine lo squallido perpetrarsi della ricerca. Nel momento in cui cerchiamo la felicità ultima nella ricchezza, concependola come strumento per acquisire beni, stiamo abbracciando in realtà un eterno vagare dove fine e viaggio si fondono e in una lattiginosa malinconia.
Per uscirne non ci sono formule magiche né mistici percorsi di auto-miglioramento. Abbiamo invece solo due possibilità: o scegliere un’altra testa o trovare Qualcuno che schiacci la nostra. Inutile dire che la prima opzione non risolve nulla: se, ad esempio, decidessi di volgere la mia ricerca di ricchezza ad un apparente fine ultimo come il potere, avrei solo mutato la forma delle pareti del mio labirinto, senza davvero uscirne. La seconda soluzione invece è la sola ad avere un reale potere salvifico; ce lo conferma la Genesi, dove Dio dice «Io porrò inimicizia fra te (cioè il serpente, ndr) e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa» (Gen 3, 15).
Secondo un’esegesi classica la stirpe della donna capace di debellare il drago è Cristo, Colui che ha sconfitto il male una volta per tutte. Ecco che quindi se nel Signore Gesù il corpo della belva è distrutto, in Lui anche la nostra odiata testa può trovare la sua fine.
Tutto molto bello, ma in definitiva che bisogna fare? Come consentire cioè alla Grazia di Cristo di liberarci dal circolo vizioso in cui il denaro ha intrappolato tanti contemporanei? La risposta più ovvia, nonché la più vera, è imitando la vita di Gesù. Anche adesso però ci si può comprensibilmente sentire chiamati a seguire un sentiero di voci, a nutrirci di un pane di nuvole; tuttavia, a ben vedere, il Signore ha posto, per chi sa guardare, dei modelli concreti e vicini attraverso cui iniziare a seguire la vita del Suo Figlio. Questi naturalmente sono gli Apostoli e, mutatis mutandis, tutti coloro che oggi seguono la vita apostolica.
Sto naturalmente parlando dei religiosi e delle religiose che, nonostante i limiti e le brutture prodotte dalla loro umanità, sono stati donati da Cristo alla Sua Chiesa proprio per mostrare all’uomo non tanto la meta quanto la forma dell’erto sentiero. Ciò che c’interessa, all’interno del discorso che stiamo facendo, è il voto di povertà. Esso ha avuto, e ha tutt’ora, molteplici letture e declinazioni, tutte buone ed alcune davvero sante. Le varianti non determinate dalla fragilità di chi lo vive sono dovute, di solito, a circostanze specifiche proprie della singola forma di vita religiosa, per cui poco interessano a chi come voi, cari lettori, probabilmente non ha preso i voti.
Per darne quindi una formulazione quanto più possibile utilizzabile da tutti mi rifaccio alle parole di san Vincenzo Ferreri (1350-1419), frate Predicatore ed instancabile evangelizzatore che operò fra la fine del secolo XIV e l’inizio del XV: «La povertà evangelica praticata dagli Apostoli è fondata su tre punti essenziali: la totale rinuncia a tutti i propri diritti; l’uso moderato delle cose materiali; l’amore abituale degli effetti della povertà»[4].
Non facciamoci spaventare dalla terminologia netta e tagliente propria dell’epoca e cerchiamo di analizzare brevemente i tre elementi proposti.
Per “diritti” il santo domenicano non intende i beni fondamentali dell’uomo, bensì quello stato spirituale e mentale nel quale percepiamo ciò che possediamo non come dono ma come soddisfacimento di un diritto. Così come il povero reale vive anche lo stesso pasto come il frutto della generosità altrui, così il cristiano inizia il suo percorso di povertà scorgendo in ogni cosa che gli appartiene, anche nella vita, un dono gratuito di Dio. Questo non implica rinunziare a concepire come necessari alcuni beni, quali il cibo ed il riparo, ma ci consente di scorgere attraverso la loro presenza l’amore di Dio e nella loro assenza l’espressivo silenzio dell’Amante.
Se è vero che ogni nostro bene è un dono gratuito di Dio, quando parliamo di beni materiali ci troviamo di fronte ad elementi verso i quali non solo non possiamo rivalere diritti, ma che posseggono una necessità molto relativa. Nell’ottica del rapporto con Dio e della vita eterna cui Egli ci chiama, la stessa sopravvivenza su questa Terra, pur essendo splendida e preziosa, non ci è indispensabile né per esistere né per essere felici. Accettare ciò, gradualmente e con prudenza, dona una grande libertà, poiché ci consente di non caricare le nostre esperienze terreno di una centralità e di una gravità che non posseggono né possono reggere. Il povero in Cristo gode dei beni di questo mondo che il Signore gli dona con la moderazione di chi ne comprende il reale peso.
Quelli qui elencati sono solo alcuni dei benefici della povertà; altri sono la libertà, tanto nel possedere quanto nel donare, la serenità di chi sa concedere ad ogni bene il suo spessore e, non ultima, la possibilità di rappresentare con la propria vita un’edificante pietra d’inciampo per il prossimo. Chi s’immerge nella povertà diviene in grado non solo di vivere ed esperire questi elementi, ma anche di apprezzarli e desiderarli. Questo stato, in cui il povero si sente beato in Cristo (cf Mt 5, 3), sarà il segno che l’odiosa testa del dragone che ci perseguita è stata schiacciata.
Vi lascio a meditare queste parole, consapevole che anche il mio cuore dovrà ruminarle a fondo. Vi prego solo di stamparvi nella mente una cosa: non dimenticate mai di chiedere nella preghiera la Grazia di vedere schiacciato il serpente, poiché non il vostro piede otterrà la vittoria ma il Corpo di Cristo di cui siamo membra.
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[1] Per approfondire brevemente la storia dell’esegesi della Chiesa latina sull’Apocalisse, cf Bernard McGinn, L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale (trad. Paola ed Elisabetta Di Giulio), Marietti 1820, Genova 1990, pp. 89-114.
[2] McGinn, L’abate calabrese, p. 167.
[3] Si tratterebbe di differenti incarnazioni della figura dell’Anticristo, proposte in successione in modo tale da proporre il corpo stesso del drago come una sorta di “storia del male”. Per le figure concretamente proposte cf McGinn, L’abate calabrese, pp. 167-168.
[4] San Vincenzo Ferreri, Trattato della vita spirituale, in Ubaldo Tomarelli, San Vincenzo Ferreri apostolo e taumaturgo, ESD, Bologna 2013.