Ceneri di vita
Ceneri di vita
Tempo memoria
Gli esseri umani hanno un modo tutto loro di memorizzare il tempo, ben diverso, ad esempio, da quello delle macchine. Se infatti chiedessimo ad un computer di registrare in un file ogni giorno della sua esistenza, dalla prima accensione al definitivo spegnimento, alla fine troveremmo che il giorno della sua dipartita ha lo stesso spazio di un qualunque altro. Dal punto di vista di questo oggetto inanimato, ciò che di più vicino alla morte può sperimentare non è più importante di una giornata qualunque. Potremmo dire quindi che la macchina concepisce in qualche modo il tempo come una semplice somma di spazi, senza alcuna considerazione per la pregnanza di ciò che li riempie.
Al contrario noi esseri umani possediamo una percezione di tipo qualitativo: se posti nella stessa condizione dell’ipotetico computer, la memorizzazione della nostra esistenza si fonderebbe su di un ordinato insieme cronologico di momenti forti. Lo scorrere del tempo quindi altro non sarebbe, perlomeno nella memoria, che la spazio leggero che intercorre fra due avvenimenti davvero importanti.
Pensandoci bene non c’è nulla di più naturale ed adeguato alla nostra esperienza di vita. La giovinezza ad esempio, che in quanto tale è solitamente ricca di svolte esistenziali cariche di significato, ci pare non solo più importante ma anche più duratura della maturità che, in genere, possiede una maggiore stabilità. Ciò accade perché i primi decenni della nostra esistenza sono più carichi di eventi cardinali, tanto che la memoria li suddivide in molti insiemi minori, in differenti età potremmo dire, che illusoriamente ci appaiono più corpose dei più numerosi ma meno variegati anni della maturità.
Se ancora non vi ho convinti, provate a volgere lo sguardo sulla storia; non sui fatti in sé ma sul modo in cui noi li registriamo ed organizziamo. La tendenza è di prendere degli avvenimenti chiave, come guerre, rivoluzioni e personaggi, e di utilizzarli per suddividere l’uniformità del tempo in tante epoche differenti. Si tratta di un processo che, se visto dalla prospettiva dei fatti in sé stessi, è del tutto artificioso ma che se invece viene analizzato dalla parte del soggetto osservante, ossia noi, diviene qualcosa di totalmente naturale. Anche in questo caso, tanto più numerosi sono i fatti capitali tanto più lungo ci apparirà un certo periodo storico. Non è quindi un caso che, nella percezione collettiva, il XX secolo sia stato, in un certo senso, più duraturo dei dieci secoli appartenenti al medioevo.
Questa curiosa premessa mi è stata utile per giungere ad una conclusione: questo modo di custodire il passato, di concepire il tempo trascorso, è un fattore così profondamente insito nella natura umana da divenire una costante antropologica in qualunque calcolo del tempo.
Non fa certo eccezione il Calendario Romano, ossia la scansione dell’anno liturgico proposta e seguita dalla Chiesa Cattolica Romana; anche qui vediamo che tutto il sistema ruota attorno a dei momenti forti il cui significato è duplice: da un lato commemorano specifici eventi della vita di Cristo e della Chiesa, dall’altro costituiscono le parentesi che concludono ed interpretano differenti periodi di tempo.
Le Ceneri
Da quanto appena detto si può quindi desumere che il credente, nell’approcciarsi ad una specifica celebrazione, dovrebbe, per comprenderla al meglio, considerarla non solo come momento isolato ma anche come pietra miliare di un più lungo e complesso cammino di commemorazione. Ciò risulta particolarmente importante per la corretta interpretazione del Mercoledì delle Ceneri. Questo momento dell’anno liturgico, che a breve vivremo, segna, com’è noto, l’inizio del periodo di Quaresima, che si concluderà con la celebrazione della Santa Veglia Pasquale. Ciò significa che se da un lato questo tempo di preparazione ha nella Santa Pasqua il suo fine, ciò che l’orienta e verso cui è mosso, dall’altro le Ceneri esplicano al meglio la natura di quel profondo mutamento interiore necessario a compiere il primo passo verso il Risorto.
La simbologia adottata dalla liturgia per questo giorno è decisamente intensa, capace di comunicare con grande efficacia il suo significato spirituale. Il momento centrale è senza dubbio l’applicazione delle ceneri benedette sul capo dei fedeli, gesto accompagnato da una delle seguenti due formule: «Convertitevi, e credete al Vangelo» oppure «Ricordati che sei polvere, e in polvere tornerai». Se proviamo a considerare assieme queste due frasi, ci accorgiamo di due elementi: da un lato focalizzano l’attenzione su due aspetti differenti del tempo quaresimale; dall’altro parlano ambedue di un cambiamento radicale di prospettiva.
La Quaresima infatti è certamente un tempo di conversione, un’occasione per volgere più perfettamente il nostro cuore a quel Gesù che è morto per noi; tuttavia la nostra preparazione ad accogliere il Mistero della Pasqua passa anche attraverso una più lucida considerazione della nostra attuale condizione. La cenere, esplicito richiamo all’umana mortalità, si fa liturgicamente simbolo potente ed efficace di quella totale dipendenza da Dio che l’uomo spesso seppellisce sotto l’illusoria autonomia del peccato. Se proviamo ad unire questi due significati, a farne, come credo sia corretto, un solo ed unico messaggio, ci troveremo di fronte ad un solenne invito: «Accogliete la vostra morte in tutta la sua tremenda ed arida realtà e da quel terreno fertile vedrete fiorire il Regno di Dio in voi».
Si potrebbe obiettare che non abbiamo certo bisogno della Chiesa per ricordarci che siamo mortali; tuttavia, approfondendo la riflessione, ci accorgiamo che tanto la vita quanto la Scrittura ci mettono costantemente di fronte ad una realtà molto più complessa: sapere di dover morire e trarne le debite conclusioni non sono decisamente la stessa cosa. Noi solitamente viviamo la consapevolezza della mortalità come un’informazione remota, una nozione non diversa dal colore di tante futili stelle che riempiono i cieli notturni. Anche quando la morte, vuoi per il normale procedere della natura vuoi per qualche fatalità, inizia ad approssimarsi, la nostra strategia spesso si riduce ad una sorta di archiviazione, una consapevolezza passiva di questa realtà che ci consente di godere di tutto il resto con relativa normalità. Non pretendo certo di esaurire questo tema nelle poche righe che posso dedicarvi ma, passando sopra qualche approssimazione, credo di riuscire ad affermare con una certa sicurezza che poche persone consentono alla consapevolezza della mortalità di riverberarsi su tutta la loro esistenza.
Il mio non vuole certo essere un biasimo, bensì solo una constatazione. Che poi si agisca così temendo da un lato la disperazione di scorgere nei cibi di oggi le ceneri di domani, dall’altro di trovare nell’evidenza della caducità una soffocante ragione di futilità, ebbene lo comprendo perfettamente. Tuttavia, e qui voglio arrivare, la nostra fede non solo ci chiede un diverso atteggiamento nei confronti della morte, ma lega tale difficile risveglio alla possibilità stessa di volgere l’intera nostra esistenza al Risorto.
Lo scandalo della Croce
Per spiegare meglio questo concetto credo possa essere utile fare riferimento al Vangelo secondo san Matteo: qui, a cavallo fra i capitoli 16 e 17, ci viene mostrato non solo con quanta serietà Gesù prenda atto della necessità, per gli Apostoli, di mutare la loro prospettiva sulla morte, ma anche attraverso quale via Egli intervenga in proposito. Mi riferisco a due brani molto noti, ossia Mt 16, 21-23 e Mt 17, 1-13: si tratta rispettivamente del primo annuncio della passione, posto significativamente dopo la professione di fede petrina, e della grandiosa trasfigurazione proposta da san Matteo.
Vediamo ora un attimo come il Primo Evangelista pone il problema: «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”» (Mt 16, 21-23). Come possiamo vedere, Gesù non si limita a descrivere dettagliatamente la Passione, ma annuncia anche la Risurrezione; ciò significa che già dal primo annunzio, frutto di una raggiunta maturità nella fede degli Apostoli, il Signore ha accompagnato la necessità di vivere consapevolmente la morte, nel caso specifico la sua, con la certa promessa della Risurrezione.
La reazione di san Pietro non è quindi scusabile con una semplice mancanza di speranza, con l’impossibilità di scorgere la luce della vita oltre il baratro della dipartita, poiché quella prospettiva gli era già stata fornita dal Signore stesso. D’altro canto, il fatto che san Matteo ponga questa rivelazione dopo tre dei cinque ampi discorsi in cui suddivide l’insegnamento di Cristo ci suggerisce che l’esperienza dei Dodici con il Maestro era stata sufficientemente ampia da assimilare, perlomeno per fede, le implicazioni di una morte illuminata dalla Risurrezione. Il fallimento di san Pietro è, nell’episodio, quello di tutti gli Apostoli e si può tentare di comprenderlo sotto questa luce: nonostante la nozione di Risurrezione gli fosse familiare e nonostante Cristo avesse ampiamente dato prova di sé, il primo fra i Dodici non è riuscito a superare quell’umana tendenza a vivere come se la morte non esistesse, rifiutandosi di conformare ad essa l’intera esistenza.
In qualche modo la natura del problema viene evidenziata da Gesù stesso nei versetti subito precedenti la trasfigurazione: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16, 24-25). Non è difficile leggere in queste parole quel potente invito a mutare la nostra prospettiva di cui il Mercoledì delle Ceneri costituisce un efficace memoriale: l’uomo infatti, unico fra gli animali a possedere la consapevolezza della propria morte, è anche il solo la cui sopravvivenza dipende, accogliendo tale dono, dal fare di questa coscienza la struttura portante della propria vita. In definitiva, ciò che il Signore pare voler dire è che chi accetta ed interiorizza la propria morte, senza evitarla ma andandole incontro, imboccherà il solo sentiero capace di vincere tale letale avversario. Tuttavia, ciò è possibile solo in comunione con Lui.
Mai soli
L’episodio della trasfigurazione, posto non a caso da san Matteo subito dopo l’emergere, nella narrazione, di questo limite nella prospettiva dei discepoli, pare avere lo scopo di mostrarci quale aspetto di Gesù si dimostra fondamentale nel trovare una soluzione. In fondo, come abbiamo accennato, i Dodici avevano già passato mesi, forse anni, con Cristo, in piena comunione di vita e di fede con Lui, tanto da partorire la splendida professione di fede per cui san Pietro viene giustamente esaltato (Mt 16, 13-20); l’apporto dato dalla trasfigurazione al problema non vuol quindi compensare una mancanza di comunione o di fiducia, bensì correggere un’errata prospettiva.
Per meglio comprendere di cosa si sta parlando, leggiamo attentamente la reazione di san Pietro, sempre portavoce dei suoi compagni, alla gloriosa visione di Cristo: «E fu trasfigurato davanti a loro: […]. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”» (Mt 17, 2-4). Confrontando questo brano con il parallelo di san Marco (Mc 9, 2-8), notiamo che san Matteo non pone nessuna nota di biasimo alla reazione di san Pietro, che anzi pare trovare una sorta di approvazione dall’essere subito seguita dalla viva voce del Padre. San Tommaso d’Aquino, commentando questo passo, scrisse: «Dice dunque: Signore, è bene per noi essere qui. Per il grandissimo fervore, vedendo la gloria, era stato così colpito da non volersi mai separare, se Dio l’avesse voluto. E che sarà di coloro che si troveranno nella gloria perfetta? Che essendo in quella beatitudine non vorranno mai separarsi; Sal 72,28: “Il mio bene è stare vicino a Dio”».[1]
Interessante notare come nel momento in cui Gesù rivela agli Apostoli la Gloria che gli è propria in quanto Figlio di Dio, la loro prima reazione sia un totale appagamento. Difatti, come san Tommaso fa ben notare, solo di fronte ad una piena soddisfazione l’uomo esprime il vivo desiderio di rendere stabile una condizione. Ora, la vera ragione per cui temiamo la morte, a prescindere da quanto forte sia la nostra fede, è la sua capacità di recidere ogni legame, di denudarci con violenza lasciandoci privi di tutti quei beni, alti o bassi che siano, che abbiamo imparato ad amare in questa vita.
Finché quindi si continua a considerare la morte come l’invincibile stupratore della nostra esistenza, abbracciare la croce sarà impossibile: difatti, anche accogliendo la promessa della risurrezione, conserveremo nell’intimo la convinzione che nulla, neppure la Grazia donataci da Cristo, riuscirà a superare quel brutale guardiano, a risollevarci dalla caduta cui egli ci avrà costretti. Ecco che quindi la trasfigurazione ha proprio lo scopo di fugare questo terrore: rivelando e radicando nel cuore dei suoi discepoli la realtà della Sua natura divina, Gesù garantisce loro che non tutto gli verrà strappato, che mai la nudità del Calvario sarà totale, poiché in Lui sempre l’uomo troverà il luogo del proprio riposo, la fonte di quella beatitudine che non distrugge ma racchiude e supera tutti i beni che tanto temiamo di perdere.
Se si riesce ad accogliere questa prospettiva, a farla propria, la morte cambia radicalmente aspetto: invece di essere una tragica necessità, al cui tocco ogni bene diventa cenere, ella diviene solo uno strumento. Nella comunione con la croce di Cristo la nostra mortalità non è più una condanna ma una via per quella vita che sempre, anche prima di comprendere il senso stesso del desiderio, abbiamo voluto. È questa prospettiva che consente a san Paolo di scrivere queste splendide parole: «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rom 8, 35-37).
Non illudiamoci tuttavia: accogliere la croce non è facile. Nonostante la visione gloriosa di Cristo avesse squarciato, con la forza della realtà sensibile, quel velo di dubbio e d’angoscia che ci fa apparire la morte invincibile, la concretezza della Passione mostrò senza pietà la disfatta dei Dodici, dispersi e celati, se non addirittura traditori. Eppure in loro, come in noi, il seme era stato già gettato; le apparizioni del Risorto sono la prova definitiva di come dalle ceneri dell’uomo vecchio, accolte alla luce della speranza data dalla fede, scaturisce l’uomo nuovo, il solo ad avere realmente un futuro.
Gesù Risorto non è, per il credente, solamente un fatto, un accadimento confortante da rammentare nei momenti di dubbio o di paura; Egli è una presenza viva, una prova vivente e tangibile della possibilità di accogliere la mortalità proprio all’interno di una sempre attuale comunione con Lui. Non a caso san Matteo chiude il proprio Vangelo con una frase del Signore che vuole essere colonna portante della vita di ogni cristiano: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
Alla luce di quanto detto, l’invito che la Chiesa ci fa il Mercoledì delle Ceneri è d’iniziare questo viaggio, d’imparare in Cristo a volgere coraggiosamente lo sguardo sulla tremenda finitezza d’ogni bene che ci è caro; non con disperazione ma alla luce del solo bene che mai verrà meno, quell’amore che dal Padre, attraverso il Figlio, ci ricolma dello Spirito della Vita. Allora, quando finalmente giungeremo alla Pasqua del Signore, la vedremo non come una promessa bellissima e remota, pronta a cadere di fronte al gelo della caducità, bensì come una fiamma imperitura nella cui luce e calore possiamo guardare con gratitudine anche alla mortalità di ciò che solo per poco c’è dato d’amare allo stesso modo.