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La nudità di san Francesco

Francesco d'Assisi
Francesco d'Assisi

La nudità di san Francesco

Nudo in autunno

Il mese di ottobre ci sta ormai scivolando alle spalle lasciando al cristiano il dolce aroma della devozione mariana e al non credente il rimpianto dell’autunno che avrebbe potuto essere. A costo di risultare nostalgico, consentitemi di rievocare un santo la cui festa solitamente accompagna, perlomeno in Italia, il doloroso addio ad ogni ricordo dell’estate; sto parlando di san Francesco d’Assisi la cui memoria liturgica cade il 4 di ottobre.

L’amato patrono d’Italia non è nuovo alle pagine di questa rubrica e ogni volta svolge lo sgradito compito di rammentarci l’importanza e il senso della povertà. Con voce flebile, quasi timorosa, gli chiediamo di sciogliere quell’omertoso silenzio che noi figli dell’Occidente, tanto religiosi quanto laici, abbiamo convenuto sull’argomento, un atteggiamento che anche nei più santi cela disagio ed imbarazzo. Uno degli strumenti con cui spesso sosteniamo questo muro è, paradossalmente, la profonda consapevolezza storica raggiunta dal nostro tempo. Se infatti è certamente saggio rammentare come ogni epoca, tanto il medioevo quanto la nostra, abbia il suo linguaggio, le sue specifiche vie per esprimersi, altrettanto importante è non seppellire il contenuto sotto la bizzarria dei segni.

Vi dico questo perché spesso i gesti pensati e vissuti dall’Assisiate ci appaiono, nella loro emblematica potenza, così alieni e distanti che finiamo per dimenticare quanto invece attuali siano i contenuti che comunicano ed esplicano.

Prendiamo per esempio il celebre episodio della spoliazione di san Francesco di fronte al vescovo di Assisi, riportato con calore e devozione dal suo figlio spirituale san Bonaventura da Bagnoregio: «Il vero amatore della povertà […] alla presenza del vescovo, non sopporta indugi o esitazioni; non aspetta né fa parola; ma immediatamente, depone tutti i vestiti e li restituisce al padre. […] Poi, inebriato da un ammirabile fervore di spirito, depose anche le mutande e si denudò totalmente davanti a tutti […]. Il vescovo, vedendo ciò ed ammirando l’uomo di Dio nel suo fervore senza limiti, subito si alzò, lo prese piangendo fra le sue braccia e, pietoso e buono com’era, lo ricoprì con il suo stesso pallio. Comandò poi ai suoi servi di dare qualcosa al giovane per ricoprirsi. Gli offrirono, appunto, il mantello povero e vile di un contadino servo del vescovo. Egli, ricevutolo con gratitudine, […] formò con esso una veste adatta a ricoprire un uomo crocifisso e un povero seminudo»[1].

Anche limitandosi alla fervida descrizione di san Bonaventura, non possiamo fare a meno di pensare a quanto un gesto simile ci appaia rumoroso e plateale. La nostra cultura spirituale, erroneamente abituata ad associare l’autenticità di un moto dello spirito all’intimo silenzio della sua manifestazione, fa fatica a non ritenere questa scena semplicemente il frutto dell’infantile desiderio di essere visto, di porsi al centro di una cascata di sguardi ammirati. Anche se la stima per l’Assisiate, assieme al rispetto per la sua eredità, ci spingono a concedergli perlomeno il beneficio del dubbio, la nostra comprensione del gesto rischia di non andare oltre alla fatica di sottrarlo ad una lettura negativa.

La povertà dell’infante
 

Sarebbe interessante riflettere assieme sul valore di questo linguaggio mimico medievale, di come fosse consapevolmente utilizzato per esprimere autentici moti dello spirito, ma non è certo questa la sede per farlo. Ai fini del nostro discorso dovremo accontentarci di cogliere un semplice assunto: la spoliazione di san Francesco non fu né un semplice gesto allegorico, tanto significativo quanto isolato, né tantomeno l’astuto espediente per attirare l’attenzione della comunità; si trattò invece della sincera manifestazione esterna di un mutamento interiore che potremmo sommariamente descrivere come un “denudarsi dell’anima”.

Anche se la forma visibile con la quale tale moto spirituale si manifestò in Francesco fu non solo originale ma ben inserita nel suo contesto storico e sociale, la realtà interiore in se stessa trascende i rigidi confini della storia.

Una prova di ciò, una fra le tante a dire il vero, la ritroviamo in un cristiano del V secolo d.C., tale Diadoco di Foticea, vescovo in Epiro e autore di un’opera tramandataci sotto il titolo di Cento capitoli gnostici; all’interno della trattazione circa la povertà, leggiamo un testo molto significativo ai fini del nostro discorso: «È altamente conveniente e utile in tutti i sensi che noi […] subito vendiamo tutto ciò che ci appartiene e distribuiamo il ricavato secondo il precetto del Signore (cf Mt 19, 21), […]. Poiché da questo ci verrà prima di tutto la felice libertà da preoccupazioni e quindi una povertà senza insidie che pone il nostro animo al di sopra di ogni ingiustizia e ogni lite, […]. Ma, più delle altre virtù, ci scalderà l’umiltà e ci farà riposare, nudi, sul suo seno, come una madre prende tra le braccia il suo bambino quando, […], ha gettato via il suo vestito perché, per la sua grande innocenza, gode di più della nudità che del suo vestito multicolore»[2].

Anche in questo caso troviamo l’associazione fra la povertà volontaria, in risposta agli insegnamenti evangelici, e la nudità; Diadoco tuttavia non utilizza quest’ultimo elemento come segno visibile ma, nell’ottica del testo, ne esplica il profondo significato. Egli associa la nudità allo stato infantile, visto tuttavia non come condizione di massima vulnerabilità ma come tempo propizio di quella fertile povertà che sgorga dall’umiltà. In quest’ottica l’infante è colui che, umile, vive appieno l’autenticità della sua condizione e, scorgendo senza vergogna nel calore del seno materno il cuore e la condizione della sua esistenza, sente la necessità di vivere ogni altra cosa, anche il proprio abito, come un bene che con eguale libertà può essere accolto e respinto.

La povertà, la nudità scelta e desiderata, non nasce quindi come rinuncia, bensì come frutto di una consapevolezza tanto nuova quanto antica: Dio, per la Sua creatura, non è un bene fra tanti né il più grande fra i beni; Egli piuttosto è la sola felicità dell’uomo, l’origine ed il termine di ogni aspirazione. Questo non comporta la svalutazione degli altri beni ma, al contrario, una loro superiore comprensione: alla luce dell’assoluta centralità di Dio nell’esperienza umana, ogni altro bene assume significato solo in relazione al rapporto fra l’uomo e il suo Signore. Ecco che quindi il povero evangelico è colui che, reso libero dal costante abbraccio del Creatore, è capace tanto di accogliere quanto di rinunziare ad ogni bene che attraversa la sua esperienza, senza mai chiedere troppo ad alcuno.
 

Il vuoto dell’anima

Sulla base di quanto detto comprendiamo anche di cosa il gesto di san Francesco sia manifestazione e segno. Alla luce della riscoperta centralità ed unicità di Dio nell’esistenza umana, l’Assisiate sentì, come il neonato di Diadoco, la necessità di spogliarsi di ogni altro bene, di ogni affetto esteriore ed interiore. Il suo scopo era quello di sperimentare, nello svuotamento della sua esistenza, la potenza del solo Bene che, come sole dell’anima, orienta e fonda l’intero essere umano. La povertà, prima ancora di essere strumento di predicazione e stile di vita, fu per Francesco segno visibile di un vuoto da lui ricavato in ogni anfratto del suo essere, un’oscurità nella cui chiarezza potesse splendere senza filtri la Luce del Verbo (cf Gv 1, 1-4).

Se leggiamo con attenzione il racconto ci accorgiamo che al denudarsi non segue il recupero delle vesti originarie né l’assunzione di un abito casuale, bensì la scelta di un abbigliamento capace di riflettere la nuova prospettiva del santo. Il celebre saio francescano nasce proprio dall’adattamento di quel povero mantello, un segno della cui portata fondativa il Dottore Serafico si mostra ben consapevole, tanto che mette in evidenza come la nuova veste dell’Assisiate coniughi in se stessa la nudità del povero alla croce di Cristo.

Questo gesto di san Francesco ci mostra come il cammino della povertà non si arresti al momento della spoliazione ma richieda, alla luce della sperimentata nudità, un rivestirsi che sia effettivamente segno di una rinnovata condizione. Nel saio, abito del povero capace di abbracciare la tremenda spoliazione della croce, il cristiano scorge non un disprezzo per i beni di questa terra, bensì la testimonianza di una libertà che, in Dio, non teme di perdere anche i più illustri fra di essi.

Mi rendo conto che il discorso ha assunto una piega troppo astratta, tanto da farlo apparire distante dall’esperienza quotidiana del semplice cristiano; cerchiamo quindi di rimediare. Volendo tirare le somme dell’insegnamento datoci dall’Assisiate possiamo dire che farsi poveri significa prima di tutto spogliarci interiormente, fare il vuoto nell’intimo dell’anima.

Ciò non comporta smettere di desiderare i differenti beni con i quali il Signore ci benedice, bensì cercare di concepirli per quello che sono: nulla più che meteore tanto belle quanto destinate a sparire. I soli due elementi stabili della nostra esistenza, paragonabili al sole e al freddo mondo che gli gira attorno, sono Dio, Amore Eterno, e noi, poveri figli suoi ansiosi di scaldarci alla Sua Luce. Nella relazione che ci lega, Egli dona ogni cosa e noi, nel nostro fedele e speranzoso orbitare, ci disponiamo a portare frutti di vita grazie al calore ricevuto. Ogni altro bene, piccolo o grande che sia, è qualcosa che per bellezza ed importanza non è certamente ininfluente ma che, nel suo andare e venire, non può in alcun modo influenzare il perfetto equilibrio fra le due parti principali del sistema.

La nudità di Francesco, quello che ho chiamato vuoto dell’anima, altro non è che la cosciente assunzione di questa realtà. Si tratta in fondo di comprendere quell’ordine di priorità che troppo spesso dimentichiamo e che, secondo me, l’immagine del sistema solare ben rappresenta. Riconoscere al Signore la sua centralità, passando attraverso la rimozione, perlomeno concettuale, di tutto ciò che offusca o usurpa tale posizione, porta l’uomo a scoprire e vivere la vera libertà dei figli di Dio, quella cioè che consiste nel godere d’ogni bene ricevuto nei limiti della sua utilità e caducità. Ciò che otterremo non sarà una sorta di stoica indifferenza, bensì un amore ordinato per ogni bene terreno che, alla luce del solo Bene Eterno, ne ami serenamente anche la mortalità.

So bene a cosa state pensando: è necessario denudarsi fisicamente di ogni cosa come san Francesco per compiere questo percorso spirituale? Mentirei se vi dicessi che il vuoto dell’anima non passa anche attraverso delle azioni concrete di spoliazione. Per cogliere la caducità di un bene è spesso necessario sperimentarne l’assenza, affrontare quella raggelante paura che ci porta a rifiutare la finitezza di ciò che amiamo. Tuttavia, ciò non deve per forza, come fece l’Assisiate, essere fatto tutto insieme; penso invece che vi si possa arrivare anche a piccoli passi.

Quando ci rendiamo conto di amare profondamente qualcosa o qualcuno in questo mondo, proviamo non a recidere tale legame bensì a metterlo momentaneamente da parte, a lasciare che la caducità del bene si manifesti alla nostra coscienza. Può trattarsi di dismettere un’abitudine, di rinunziare a qualcosa o semplicemente di concedere ad una relazione interpersonale uno spazio di vuoto reciproco; ciò che otterremo è di conoscere quell’aspetto della nostra esistenza tanto nel suo esserci quanto nel suo svanire. Comprenderemo allora che lo scopo di quel bene non era di illuminare il vuoto della nostra vita, bensì di arricchire l’imperitura luce del sole di fugaci e splendidi riflessi. Solo allora saremo davvero poveri in spirito (cf Mt 5, 3) e varranno anche per noi le parole di san Paolo: «So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4, 12-13).

 

Testi consigliati

  • San Bonaventura da Bagnoregio, Legenda maior sancti Francisci, in Fonti francescane, Editrici Francescane, Padova 2011, nn. 1020-1328.
  • Diadoco di Foticea, Opera spirituali (a cura di Éduard des Places e Maria Benedetta Artioli), Edizioni San Clemente e Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2016.
  • Guglielmo Spirito, Terra che diventa cielo. L’inabitazione trinitaria in san Francesco d’Assisi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2009.
     

Note

[1] San Bonaventura da Bagnoregio, Legenda maior sancti Francisci, n. 4, in Fonti francescane, Editrici Francescane, Padova 2011, n. 1043, pp. 610-611.

[2] Diadoco di Foticea, Cento capitoli gnostici, n. 65, in Opera spirituali (a cura di Éduard des Places e Maria Benedetta Artioli), Edizioni San Clemente e Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2016, p. 187.