A Pasqua si riaccende la lotta
A Pasqua si riaccende la lotta
Il Re del Terrore
Non vi nascondo che uno dei miei autori preferiti, nonché forse uno dei più grandi scrittori in lingua inglese della seconda metà del XX secolo, è Stephen King, il Re del Terrore. Se qualcuno di voi, in un qualche momento della sua vita, ha anche solo saltuariamente pensato che il genere horror, nel cinema come nella letteratura, sia necessariamente infantile e volgare, utile solo a dare alle coppiette di adolescenti una ragione per stringersi, il mio invito è di leggere quanto prima questo autore. Se lo farete con la mente aperta e matura di chi non teme d’imparare da una bella storia, scoprirete nelle sue opere uno dei più grandi pregi della narrativa orrorifica, ossia la sua capacità di descrivere il male.
Gli artisti che, a diversi livelli, si dedicano a questo specifico genere tendono infatti a focalizzare i propri sforzi, nonché la loro abilità, nel tratteggiare quell’oscurità sulla quale ricade il grave compito di spaventare l’utente. Sia che si tratti dei sinistri antri della psiche umana sia che invece assuma i concreti e simbolici tratti di un qualche mostro, il male ha certamente uno spazio centrale nelle opere orrorifiche. Nei casi, non rari come credereste, in cui dietro a simili prodotti vi sono veri artisti, queste diverse oscurità si presentano ricche d’un realismo che solo una lettura superficiale, ferma alla mera lettera del racconto, riesce ad ignorare. Ciò non è solo pregevole ma, oso dire, necessario: difatti, solo quando la minaccia, per quanto fantasiosa sia, la si riesce ad immaginare celata nelle ombre di casa propria allora s’inizia davvero ad avere paura.
Inutile aggiungere che ogni autore pone l’accento su di un aspetto diverso della stessa oscurità, su di una differente tonalità di nero, si potrebbe dire. Penso sia possibile, specie quando il catalogo è particolarmente ampio, trovare un comune denominatore fra questi mostri e da lì partire per comprendere quale realtà umana l’artista intende denunciare. Non dobbiamo infatti farci illusioni: l’uomo forse non è l’origine di ogni male, ma ne è certamente il più entusiasta fruitore; ciò implica che laddove vi sono le tenebre, v’è anche un che di umano che vi sguazza.
Tornando al nostro Stephen King, il concetto che, a mio parere, accomuna molti, se non tutti, i suoi incubi letterari è una semplice e terrificante considerazione: il male persiste ed impera perché l’uomo l’accetta, ne tollera la presenza come farebbe con qualsiasi altro sgradevole fenomeno.
L’insopportabilità del male
Non è questo il luogo per giustificare approfonditamente una simile conclusione, per cui tutti coloro che non hanno molta dimestichezza con questo autore dovranno fidarsi di me. Per quelli invece che ne conoscono le opere, mi limito ad evidenziare come molti suoi racconti pongano l’incarnazione del male non in luoghi sinistri e sperduti, lontani dalla luce serena della civiltà, bensì in mezzo alle nostre case, dietro i sorrisi dei nostri vicini, appena oltre la cortese indifferenza delle nostre relazioni. Un esempio fra tutti è It, uno dei più grandi e celebri capolavori di King, pubblicato nel 1986[1]: la diabolica creatura celata dietro il clown Pennywise non è un demonio o un alieno invasore, giunto a turbare la pace della cittadina di Derry; si tratta invece dell’anima stessa della città, qualcosa di orrendo che i cittadini tollerano con la stesa rassegnata mestizia con cui le pecore sopportano l’esistenza dei lupi.
Da questa tragica conclusione nasce una delle più belle considerazioni di King: la necessità di combattere il male, di scandalizzarsi della sua stessa esistenza, ricade su ognuno di noi, su chiunque cioè, anche solo distogliendo lo sguardo, prenderebbe parte al suo scempio. Per questo gli eroi del nostro scrittore, raramente memorabili come i loro antagonisti, sono quasi tutti gente comune, passanti, persone semplici le cui vite paiono spesso tanto anonime da porre in sordina anche le loro imprese. Ciò che infatti li qualifica, li pone al di sopra della massa, è la capacità di vedere il male per quello che è: qualcosa di talmente innaturale da non poter essere neppure sopportato.
Una delle conseguenze più belle della fede in Cristo Signore è il dono, ricevuto nel battesimo e coltivato in una seria vita spirituale, di cogliere simili intuizioni e di portarle a compimento. Si tratta, in qualche maniera, di porre al posto giusto il pezzo chiave di un puzzle che altri hanno trovato. Non è, a scanso di equivoci, un atteggiamento arrogante questo che propongo, bensì semplicemente la realtà: il cristiano, avendo ricevuto un più completo quadro d’insieme sull’esistenza, può far fruttare, come i talenti della parabola (cf. Mt 25,14-30), la sapienza umana ben oltre i suoi naturali limiti.
L’intuizione sulla quale Stephen King ha così brillantemente costruito la sua definizione di male è, ovviamente, ben più antica della sua florida penna, tanto che molti illustri credenti prima di lui non solo l’hanno raccolta ma le hanno anche donato il giusto smalto. Uno di questi fu lo scrittore, giornalista, filosofo e saggista inglese, nonché fervente cattolico, Gilbert Keith Chesterton (1874-1936). Autore, fra le altre cose, dei celebri racconti gialli di Padre Brown, proprio al termine di uno di questi egli esplicò brillantemente il cuore dell’intollerabilità del male: «Gli uomini possono mantenere una sorta di livello di bene, ma nessun uomo è mai stato capace di continuare su uno stesso livello di male. La strada scende e scende» (trad. nostra).[2]
Questa breve frase è il cuore di un efficacissimo racconto di conversione e, come certo non vi sarà sfuggito, propone la medesima intuizione dell’autore americano ad un più profondo livello di comprensione. Chesterton infatti, identificando nel peccato il vero male, spiega la ragione di questa intollerabilità, il motivo per cui l’uomo non può, per riprendere la metafora di cui sopra, concedergli un posto nella sua vita come le pecore fanno con i lupi. Difatti, mentre questi due meravigliosi animali, pur nel conflitto, trovano spontaneamente un equilibrio, tanto che nessuno dei due minaccia di spazzare via del tutto l’altro, il peccato invece implica un costante peggioramento. Esso, proprio come una malattia, non trova mai il proprio posto nell’ordine interno dell’esistenza umana ma, toccando ed influenzando ogni cosa, finisce per estendersi ben al di là della sua scintilla originale. Lo potremmo paragonare ad un incendio: una volta appiccato, se non viene spento, s’esaurisce solo quando tutto è ridotto in cenere.
La crepa del peccato
La cosa di per sé non dovrebbe sorprenderci, non se abbiamo una seppur elementare cognizione di cosa sia il peccato. Il racconto biblico del Peccato Originale ci aiuta a comprendere che si tratta di una mancanza di fiducia in Dio, una crepa sottile ma letale nell’amore che a Lui ci lega la quale, nel momento in cui sfocia in un atto concreto, diviene una spaccatura vera e propria. Ecco un breve testo che penso sia estremamente chiaro a riguardo: «Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò» (Gen 3,4-6). Interessante notare come il serpente, tradizionalmente letto come una figurazione del diavolo, non ha incitato direttamente Eva a mangiare il frutto proibito: si è limitato ad incrinare la sua fiducia nelle parole e, soprattutto, nell’amore di Dio; ha coltivato un dubbio il quale, una volta accolto, non ha potuto che portare a tragiche e sempre peggiori conseguenze.
In verità l’intera storia dell’umanità altro non è che lo sviluppo di questa singola colpa. L’Antico Testamento, attento a mostrare l’inevitabile decadenza ed il graduale imbarbarimento dell’uomo, evidenzia a livello comunitario quello stesso fenomeno che Chesterton richiama in ambito individuale. Per comprenderne l’intrinseca inevitabilità, credo che un esempio concreto, pur se forse banale, potrebbe essere utile.
Consideriamo un edificio: la sua stabilità e la sua capacità di essere abitato dipendono dal delicato equilibrio fra le sue differenti parti. Immaginiamo che, a causa di un terremoto, una sottile crepa inizi ad aprirsi in uno dei pilastri; il danno inizialmente non pare grave e, considerando i costi e la fatica di una riparazione, gli inquilini decidono di mettere una toppa e convivere con esso. Tuttavia non hanno considerato che se da un lato la solidità della struttura è diminuita, dall’altro il carico che è chiamata a sopportare è rimasto il medesimo. Ecco che quindi il danno, invece di rimanere trascurabile, si estenderà, per il semplice fatto che la pressione che la parte danneggiata non può più sostenere viene ridistribuita fra le altre. Con il tempo la decadenza dell’edificio aumenterà, fino a che, alla fine, crollerà del tutto.
Similmente, noi esseri umani siamo stati creati allo scopo di vivere appieno la carità, amando Dio ed il prossimo come noi stessi (cf. Mc 12,29-33); per riuscire a fare questo, il Signore ci ha dotati di un delicato ed equilibrato organismo spirituale che ci consente di sostenere il meraviglioso peso di tale altissimo fine. Il peccato, per quanto piccolo, non è mai qualcosa che può convivere con questo ordine poiché, incrinando la nostra comunione con Dio, altro non fa che indebolire il nostro cuore finché, ormai lontani dalla futilità del gesto originale, la rottura si consuma. In altre parole il male, il peccato, è intollerabile perché con la sua stessa esistenza contraddice il fine cui siamo ordinati e, nel radicarsi nei nostri cuori, rende sempre più pesante quel giogo leggero che il Signore ha posto sulle nostre spalle (cf. Mt 11,30).
Le armi della Pasqua
Giunti a questo punto, è bene ricordare un elemento fondamentale, una nozione cardine della condizione umana: ogni uomo viene al mondo già indebolito da quell’inclinazione al male che chiamiamo Peccato Originale. Riprendendo la metafora architettonica, è come se la nostra solidità fosse già minata da materiali scadenti, tanto che il sopraggiungere dei danni altro non è che una questione di tempo. Stando così le cose, se dovessimo limitarci alle nostre sole capacità, la saggia ammonizione di Chesterton altro non sarebbe che un invito a non peggiorare la nostra condizione, a rallentare il decadimento avendo cura di non radicarci nella colpa. Difatti, il recuperare la stabilità originaria, l’eliminare cioè ogni male dalla nostra esistenza, è qualcosa che esula grandemente dalle nostre forze.
Tale amara verità ci è rivelata direttamente da Gesù, il quale ci mette in guardia dicendo: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Questa considerazione non deve scoraggiarci, bensì essere fonte viva di speranza. Essa implica infatti che quella sterminata desolazione di fallimenti cui l’uomo, sia come individuo sia come specie, è incappato nella sua millenaria lotta contro il male non è la prova dell’inevitabilità delle tenebre, bensì del fatto che cercavamo la soluzione nel luogo sbagliato. La forza vitale che pretendevamo di trovare in noi stessi, quella stessa acqua spirituale che purifica ogni cosa, non è un mero mito, qualcosa d’inventato per addolcire la realtà; si tratta invece di un dono che viene dall’alto, di qualcosa che, come la pioggia, giunge a donare abbondanza senza merito, spinta solo dall’amore.
Ecco che quindi, sotto questa prospettiva, l’invito di Chesterton cambia radicalmente il suo significato. Nel virile sprone a perseverare nella lotta, a non lasciare che il seme maligno metta radici in noi, scorgiamo la conseguenza di quella Speranza che, nella Fede, è frutto magnifico del Mistero Pasquale. Alla luce della Risurrezione di Cristo, la cui vittoria sul male e sulla morte giunse accogliendo tutta la fragilità dell’umana condizione, ciò che corrode le nostre esistenze, che ci spinge inesorabilmente lontani dalla Luce, non è più preludio d’un inevitabile annegare, bensì un nemico che bisogna solo scegliere di affrontare. Ecco che quindi vana e colpevole diventa ogni perversa convivenza con il male e la lotta perde la romantica tragicità dell’inevitabile sconfitta. Il nostro cuore, invece d’essere teatro d’un lento ed inesorabile sfacelo, si trova, in Cristo, mutato in campo di battaglia, in un luogo di feroci scontri dove ogni resa non è imposta ma solo scelta.
In questa Santa Pasqua v’invito, alla luce del Risorto, ad avere il coraggio d’osservare con occhio onesto la vostra vita; anch’io cercherò di farmi forza e di scovare così tutte quelle ombre che, mio malgrado, ho imparato a chiamar per nome. Così facendo, sostenuto dall’umiltà che mi consente d’accettare la passata viltà, potrò ricevere dal Signore quelle armi della luce (cf. Rm 13,12) di cui per tanto tempo ho temuto il peso ma che sole possono impedirmi d’annegare lentamente nella pelle d’un mostro.
note:
[1] Cf voce “It” in Wikipedia, consultata il 29.03.2023.
[2] «Men may keep a sort of level of good, but no man has never been able to keep on one level of evil. The road goes down and down»; cf The Flying Stars, in G. K. Chesterton, The Complete Father Brown, Penguin Books, London 1981, p. 63.