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Tolkien: il male è banale

Prima parte
Banalità del male
Ph. Arbër Arapi / Banalità del male

Questo articolo è la prima parte di una breve serie sul male e la rappresentazione plastica che Tolkien ne dà nelle sue opere.

Alla fine dell’articolo intitolato La luce, avevamo accennato alla figura di Ungoliant[1] divoratrice di luce, così malvagia che desidera solamente divorare tutta la luce esistente. Tale desiderio è un problema per Ungoliant stessa, perché una volta divorata tutta la luce non potrà far altro che «divorare se stessa»[2]. Cioè, il male non fa nulla di buono, ma fa male e desidera distruggere tutto ciò che lo circonda. Diversi pensatori hanno tentato di comprenderne il significato profondo del male, ma non sono mai riusciti a darvi una risposta piena.

Nel mondo delle religioni spesso si è deificato il male e il bene ponendoli come due “co-principi”[3] antitetici[4], che si incontrano e scontrano nel mondo che diviene il palcoscenico di questa lotta e così hanno preso forma le avventure narrate nella mitologia Greco-Romana, nella mitologia Eddica e l’idea dualista dell’Orfismo.

Molti filosofi hanno tentato di approdare a una risposta razionale, uscendo dalla letteratura mitologica.  Le loro idee si susseguono nell’arco della storia sostenendo, ad esempio, che non è una prerogativa dell’uomo contemporaneo credere che l’esistenza del male sia la dimostrazione dell’inesistenza di Dio. Infatti, già Epicuro (m. 270 a.C.) ne parlava, sottolineando che la divinità o non è onnipotente di fronte al male oppure non vuole proprio toglierlo[5].

Tra i filosofi, altri ne hanno negato l’esistenza o ne hanno sottolineato una certa necessità (Spinoza, 1632 – 1677); oppure ancora l’impossibilità di Dio di poter fare qualsiasi cosa per migliorare il mondo che è il peggiore dei mondi possibili (Bohme, 1575 – 1624; Schelling, 1775 – 1854), descrivendo la vita stessa come un alternarsi tra noia e dolore (Schopenhauer, 1788 – 1860). Invece, Nietzsche (1844 – 1900) ne individuò l’origine in certe “usanze religiose”, che avrebbero inventato il male per combattere la volontà di dominio del superuomo.

Credo che una risposta interessante sia quella proposta dal mondo ebraico, che vide il male sorgere non da un principio divino ma da una creatura che decise volontariamente di andare contro il suo Creatore. Certamente è interessante notare come la risposta al male varia a seconda dal rapporto che io ho con Dio.

Una persona come Gesù Cristo (uomo illuminato per alcuni, Dio per altri) non spiegò mai il “perché” del male o di certi mali, ci ha spiegato come riconoscerlo, combatterlo e la sorgente propria delle cattiverie umane.

La tedesca Hannah Arendt (1906 – 1975), all’indomani dall’olocausto, dovette rassegnarsi all’evidenza della banalità del male quando ogni coscienza si offusca:

"Dalla nolontà o incapacità di scegliere i propri esempi e la propria compagnia, così come dalla nolontà o incapacità di relazionarsi agli altri tramite il giudizio, scaturiscono i veri skandala, le vere pietre d’inciampo che gli uomini non possono rimuovere perché non sono create da motivi umani o umanamente comprensibili. Lì si nasconde l’orrore e al tempo stesso la banalità del male"[6].

Questi skandala sono i mali morali, cioè quella cattiveria che ci fa spezzare ogni relazione con gli altri, con se stessi e con Dio (che vi si creda o no). È inevitabile che avvengano[7], ma negli ultimi 200 anni essi sono divenuti, insieme ad altri, motivi più o meno futili per non credere all’esistenza di Dio.

Per la Arendt il male è banale perché si mostra nel mondo attraverso uomini e donne sempliciotti come fu Adolf Eichmann. Un uomo dal basso profilo culturale, di una modesta estrazione sociale, dotato di poca memoria e che rispondeva solamente per frasi fatte. Persone che agirono secondo quello che per loro era la virtù dell’obbedienza, ma che in realtà quietarono la propria coscienza, scambiando i sani valori acquisiti con un’altra serie di valori e idee morali già propagandata da Friedrich Nietzsche (1844-1900); essi giunsero all’idea che non bisognasse più dar retta alle tradizionali virtù di radice cristiana, ma puntare tutto sulla Vita stessa, perché l’etica cristiana fissava dei limiti e dettava delle regole ispirate al mondo di lassù e non applicabili sulla terra.

Con le virtù cristiane si affronta la necessità di limitare gli skandala, che sono anche il punto di riferimento per elencare una serie di valori non negoziabili. Infatti, pur esistendo altri mali come, ad esempio, la mancanza della vista nel cieco, questo male lo percepiamo come qualcosa di assente che dovrebbe esserci e capiamo che non è dovuto da una colpa morale del soggetto[8]. Mentre quando parliamo dei mali morali sottolineiamo la responsabilità del soggetto agente.

Vorrei focalizzarmi sui mali morali che sono sempre dovuti a una scelta fatta coscientemente da un soggetto. Vorrei far notare che il male comportato da queste scelte si configura come un indebolimento del bene.

Alcuni beni possono estinguersi totalmente, come luce per causa delle tenebre; altri non vengono totalmente eliminati né tanto meno menomati, come quando arrivano le tenebre e la sostanza dell’aria non subisce menomazioni; e ci sono beni che possono essere menomati dal male, senza esserne eliminati completamente, come quando facciamo la carità a qualcuno ma alberga in noi il desiderio di compiacimento e d’esser considerati buoni. Questa menomazione è un indebolimento del bene e le disposizioni contrarie non si possono moltiplicare e intensificare all’infinito, quindi rimane sempre qualcosa di bene:

"Per es., se si interponessero tra il sole e l'aria infiniti corpi opachi si diminuirebbe all’indefinito (in infinitum) l'attitudine dell'aria alla luce: ma non si eliminerebbe totalmente, perché rimane l'aria, la quale per natura è trasparente [alla luce]. Allo stesso modo si può verificare un'addizione nei peccati, per cui l'attitudine dell'anima alla grazia viene sempre più a diminuire; i quali peccati sono come degli ostacoli interposti tra noi e Dio, secondo il detto di Isaia: "Le nostre iniquità posero una divisione tra noi e Dio". E tuttavia non viene distrutta completamente nell'anima la predetta attitudine: perché deriva dalla stessa sua natura»"[9].

Questo pensiero è un principio fondamentale del senso comune[10] delle cose. Il male non crea ma distrugge, il male in se non esiste, ma è deterioramento del bene e non desidera neanche fare il bene. Per questo motivo Sauron[11] non comprende la missione che la Compagnia dell’Anello ha scelto di compiere, non riesce neanche lontanamente a pensare che qualcuno possa voler distruggere una fonte di potere così forte, solamente perché lo porterebbe a compiere azioni malvagie. Ecco allora che possiamo comprendere perché prima Gandalf rifiuta l’Anello:

[Frodo, parlando della forza, intelligenza e coraggio che deve avere il portatore dell’anello:] "«Ma posseggo talmente poco di tutto ciò! Tu sei saggio e potente, prendilo tu l'Anello!»"

"«No!», gridò Gandalf, saltando in piedi. «Con quel potere, il mio diventerebbe troppo grande e troppo terribile. E su di me l'Anello acquisterebbe un potere ancor più spaventoso e diabolico». I suoi occhi lanciarono fiamme ed il suo viso fu illuminato da un fuoco interno. «Non mi tentare! Non desidero eguagliare l'Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli, e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo. Il desiderio sarebbe troppo irresistibile per le mie forze. Ne avrei tanto bisogno: grandi pericoli mi attendono»"[12].

Tenendo fisso sempre questo sguardo sull’incapacità del male nel comprendere il bene, possiamo anche comprendere perché, sempre Gandalf, propone quella che sembra una missione suicida:

"Così come Aragorn ha cominciato, noi dobbiamo proseguire. Dobbiamo spingere Sauron fino al suo ultimo tentativo. Dobbiamo attirare fuori le sue forze nascoste, affinché il suo territorio rimanga vuoto. Dobbiamo immediatamente marciargli incontro. Dobbiamo servirgli da esca, anche se le sue mascelle rischiano di richiudersi su di noi. Ed egli morderà l'esca, spinto dalla speranza e dall'avidità, perché gli parrà di riconoscere nella nostra improvvisa fretta l'orgoglio del nuovo Signore dell'Anello; ed egli penserà: «Bene! Spinge avanti il suo collo troppo presto e troppo distante. Che avanzi pure, ed io gli tenderò una trappola dalla quale non potrà fuggire. E là lo schiaccerò, e ciò di cui si è impadronito nella sua insolenza, sarà di nuovo mio per sempre»".

"Dobbiamo camminare ad occhi aperti verso una trappola, con coraggio, ma con poca speranza di salvezza. Perché, signori, può darsi che periremo tutti in una nera battaglia lungi dalle terre dei vivi, e che, quindi, anche se Barad-dûr soccomberà, non vivremo per vedere una nuova era. Ma tale, penso, è il nostro compito. Meglio, comunque, che perire ugualmente – ed è certo ciò che accadrebbe se rimanessimo qui ad aspettare - sapendo che non vi saranno nuove ere"[13].

Ed è proprio così che si presenta il male: incapace di comprendere il bene.

 

[1] Si legga: https://lotr.fandom.com/it/wiki/Ungoliant per maggiori approfondimenti.

[2] Cf., J. R. R. Tolkien, Il Silmarillion, Bompiani, Milano 1978, p. 94;

[3] L’idea del co-principio è paradossale, perché principio vuol dire primo, inizio, partenza. Come fanno ad esserci due primi, due inizi, due partenze?

[4] Si rimanda a M. Eliade, Storia delle Credenze e delle Idee Religiose, per approfondimenti.

[5] Cf., H. Usener, Epicurea, frammento 374, Bompiani, Milano 2002, tr. I. Ramelli, p. 531.

[6] H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi - Kindle Edition, 2013, cap. 4, fine ultimo capoverso.

[7] Cf., Mt 18, 7

[8] Questa affermazione a noi sembra ridicola; eppure, per secoli e secoli si credeva che i menomati fossero o dei demoni o pagassero le colpe dei parenti o le proprie, è grazie al pensiero cristiano che si perde questa

[9] Somma teologica, q. 48, a. 4.

[10] Cf., A. Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Leonardo da Vinci, Roma 2018.

[11] Si legga: https://lotr.fandom.com/it/wiki/Sauron per maggiori approfondimenti.

[12] J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli, Rusconi, Milano 1981, pp. 96-97.

[13] Ibidem, 1055-1056.