x

x

La luce

Bianco e nero
Ph. Paolo Panzacchi / Bianco e nero

Esistono dei luoghi comuni, degli stereotipi che, così identificati da alcuni, possono portare un lettore a pensare che ciò a cui si sta accostando sarà semplicemente banale e desueto. Ma spesso sono proprio gli stereotipi il modo con il quale descriviamo certe esperienze. Infatti, il bene e la felicità vengono da sempre relazionate a immagini come il paradiso o il sole o una giornata luminosa; mentre il male, la tristezza e il dolore sono sempre state accompagnate da miseria e oscurità. Ciò suscita un certo stupore in C.S. Lewis che non riesce a spiegarsi come siano nate queste coppie e come non si siano mai separate:

Ci rimane adesso da considerare la storia del metodo allegorico e perciò dobbiamo far riferimento all’epoca classica. Comunque, nella nostra indagine non c’è nessuna possibilità di immaginarci le origini ultime di queste allegorie. L’allegoria, in un certo senso, appartiene non all’uomo medioevale ma all’uomo, o perfino alla mente, in generale. È nella natura del pensiero e del linguaggio rappresentare l’immateriale con termini visualmente rappresentativi. Quello che è buono o felice è sempre stato rappresentato dal paradiso e dalla luce del sole. Il male e la miseria con la profondità e l’oscurità, sin da subito. In Omero il dolore è nero e la purezza è un punto mediano per re Alfredo il Grande e non meno per Aristotele. Domandarsi come queste coppie materiale-immateriale siano nate è puramente follia; la domanda reale è come non si siano mai divise e rispondere a questa domanda è al di là del campo di un semplice storico[1].

Alcuni di questi termini sono stati assunti anche dalle religioni: nel Cristianesimo, ad esempio, possiamo pensare all’importanza ierofanica della luce come manifestazione della divinità e all’accostamento tra oscurità e ignoto o male. Così nel Buddhismo la Terra miracolosa è immersa nella luce[2] e in Egitto il culto del sole trova una certa centralità[3].

Anche in campo filosofico queste immagini non sono certo dimenticate, così in San Tommaso d’Aquino la luce sottolinea la capacità della conoscenza intellettiva, sia essa naturale (lumen naturale rationis) che soprannaturale (lumen gratiae), capace di guidaci fuori dall’oscurità dell’ignoranza. Mentre Umberto Eco associa il valore della luce alla bellezza trascendentale dell’essere:

la bellezza trascendentale è associata alla luce perché “attraverso la luce ... tutte le variazioni di colore e luminosità, sia in cielo che in terra, nascono”[4].

Ma anche nell’arte e nel linguaggio la luce trova il suo spazio. Nell’arte pensiamo le Annunciazioni del Beato Angelico, che evidenzia l’importanza del momento con un forte bagliore[5]; nel linguaggio corrente ricorrono espressioni in cui la luce ha una connotazione profondamente positiva: “metter in luce qualcosa”, “venire alla luce”, “passare dalle tenebre alla luce”.

Anche il nostro Tolkien propone la manifestazione della luce in qualcosa di tangibile, ad esempio la foresta di Lothlórien, nella quale gli alberi amati dagli elfi risplendono e per questo la foresta appare bella[6].

Se la bellezza è ammirabile nell’essere delle cose, allora si dice ontologica e Tolkien la rivede nell’ordine stesso della creazione[7]. Allora capiamo che curare il creato, essere dei buoni amministratori significa curare la bellezza intrinseca che ci circonda e farla risplendere secondo il modo proprio di ciascuno. Ecco perché nella sua opera gli anelli giocano un ruolo importante:

Il potere principale (di tutti gli anelli allo stesso modo) era la prevenzione o il rallentamento del decadimento (cioè il “cambiamento” visto come una cosa deplorevole), la conservazione di ciò che è desiderato o amato, o la sua parvenza - questo è più o meno un motivo elfico[8].

Ugualmente questa idea si riscontra, sin dagli albori, nella teologia cristiana e si è via via sviluppata nel suo magistero:

Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona[9].

Mentre nel mondo reale questo compito è affidato all’uomo, nel mondo tolkieniano è affidato soprattutto agli elfi:

Il loro regno [degli Elfi] è quello dell’Arte, ma ad un livello talmente elevato da condurre il soggetto che vi si trova coinvolto in una vera e propria Realtà secondaria, tanto da poter essere definito come Incantesimo. Essi hanno insegnato l’arte della parola agli uomini, ma hanno anche insegnato ad esprimersi a tutti gli esseri viventi ed in particolare agli alberi. È al vecchio Ent Barbalbero che Tolkien affida la descrizione di ciò che è per lui il linguaggio: "I nomi propri narrano le vicende delle cose a cui appartengono, nella mia lingua"[10].

Tra gli elfi degli Anni degli Alberi, Feanör[11] si prodigò alacremente per lo sviluppo di quest’arte, forgiando i diamanti detti Silmarilli e tre anelli del potere, che sarebbero serviti a preservare la bellezza del mondo creato[12]. I  Silmarilli, infatti, non erano semplicemente delle pietre preziose, ma come scrigni all’interno dei quali si poté conservare la Luce di Valinor, quella luce irradiata dal Telperion e Laurelin, due alberi maestosi che illuminavano il mondo.

Volendo fare un parallelismo tra il nostro mondo e quello di Tolkien potremmo paragonare il popolo elfico agli artisti che hanno abbellito la scena di questo mondo, lasciandoci in eredità le meraviglie che ancora oggi ammiriamo, mentre personaggi come Morgoth, il nemico della bellezza per antonomasia, e Ungoliant, il suo fidato braccio destro, sono paragonabili a persone che desiderano distruggere tali meraviglie.

Morgoth, sin dall’inizio dei tempi, ardeva dal desiderio di oscurare tutta Valinor e con Ungoliant riesce ad attaccare e distruggere quegli stessi alberi che Feanör voleva preservare[13]. Invece, Ungoliant è descritta come la divoratrice di luce, così malvagia che desidera solamente divorare tutta la luce esistente:

[…] di luce aveva sete e insieme la odiava […] assumeva forma di ragno […] mostruoso, tessendo le sue negre tele in un crepaccio tra i monti. Quivi succhiava tutta la luce che riusciva a trovare, e poi la filava in scure reti di soffocante tetraggine, finché nessun'altra luce poteva penetrare nella sua dimora; e allora era colta da fame[14].

Da quanto scritto finora potremmo pensare l’opera tolkieniana come un gioco di luci e ombre[15], una tensione continua verso la ricerca della bellezza come possibilità di uno sguardo altro sul reale e di contatto con ciò che lo trascende[16].

Potremmo quindi concludere dicendo che la bellezza ha sempre affascinato l’uomo che ha voluto assaporare la luminosità, come di gioielli, delle stelle che puntellano il buio della notte.

 

[1] Cit. C.S. Lewis, The Allegory of Love, Cambridge university press, Cambridge 2013, p. 55: «It now remains to consider independently the history of the allegorical method, and for this purpose we must return to classical antiquity. In our new inquiry, however, there is no question of finding and no possibility of imagining, the ultimate origins. Allegory, in some sense, belongs not to medieval man but to man, or even to mind, in general. It is of the very nature of thought and language to represent what is immaterial in picturable terms. What is good or happy has always been high like the heavens and bright like the sun. evil and misery were deep and dark from the first. Pain is black in Homer, and goodness is a middle point for Alfred no less than for Aristotle. To ask how these married pairs of sensibles and insensibles first came together would be great folly; the real question is how they ever came apart, and to answer that question is beyond the province of there mere historian». La traduzione è nostra.

[2] Cf., M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee Religiose da Gautama Buddha al trionfo del cristianesimo, Vol. II, 1980, Sansoni Editore Nuova, Firenze, p. 221.

[3] Cf., M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, 1976, Boringhieri, Torino, p. 127.

[4] Cit., L. Coutras, Tolkien’s theology of beauty, Majesty, Splendor, and Transcendence in Middle-earth, p. 18, traduzione nostra.

[5] Cf. Coutras, Tolkien’s theology of beauty, p. 18.

[6] Cf., H. Carpenter (a cura di), C. Tolkien (a cura di), The Letters of J. R. R. Tolkien: A Selection, Mariner, Buena Vista 1995, Lettera: 339 To the Editor of the Daily Telegraph. Da ora in poi: Lettere. Le traduzioni di questo testo sono nostre.

[7] Cf., Coutras, Tolkien’s theology of beauty, p. 21.

[8] Cit., Lettere, 131 To Milton Waldman: «The chief power (of all the rings alike) was the prevention or slowing of decay (i.e. 'change' viewed as a regrettable thing), the preservation of what is desired or loved, or its semblance – this is more or less an Elvish motive».

[9] Cit., Benedetto XVI, Messaggio per la XLIII Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2010, n.14.

[10] Cit., C. Nejrotti, Lo splendore dell’essere in Tolkien, in Un’epica per il nuovo millennio, Antarès n. 3/2013.

[11] Conosciuto anche come Curufinwë, è un personaggio di Tolkien che rintracciamo nell'opera Il Silmarillion.

[12] Cf., Lettere, 131 To Milton Waldman.

[13] Cf., Lettere, 131 To Milton Waldman.

[14] Cit., J. R. R. Tolkien, Il Silmarillion, a cura di C. Tolkien, Rusconi, Milano 1978, p. 85.

[15] Di questo parere è la prof.ssa Verlyn Flieger, autrice del libro Splintered Light: Logos and Language in Tolkien's World, The Kent State University Press, 2002.

[16] Questa è una citazione di un’amica: Laura Infante