Dissonanze
Dissonanze
“Niente, in questo dannato frigo non c’è niente!”
Qualcosa in realtà c’era, ma non quello che avrebbe sperato, un classico.
Venerdì sera, forse il suo amico l’avrebbe raggiunto per suonare un po’ o forse no. D’altronde cercava di non organizzare mai niente fino in fondo, perché già il lavoro lo stressava tanto con le scadenze e tutti quei calcoli di precisione, come minimo nel tempo libero voleva essere davvero libero, ci provava almeno; pensava che non appartenere a nessuno, se non a sé stesso, sarebbe stata libertà, credeva che tutta quella musica sarebbe stata libertà, che il successo lavorativo sarebbe stata la sua libertà e che quell’amore sarebbe stato.
Mise su un pezzo dei R.E.M. Radio Free Europe, era il 1983.
“Keep me out of country and the word
Disappointers into us, absurd”
Absurd, assurdo, dissonante, la sua vita era così, stonata. Lui che della musica aveva fatto la sua salvezza, lui che si era rifugiato in un’armonia come un figlio si ricongiunge a sua madre.
Riaprì il frigo, si mise a controllare bene, dannazione, doveva pur imbastire una cena. Le uova erano scadute. Aprì un involto: un pezzo di pecorino sardo, stantio, ma valido, ancora valido, e asparagi che chiedevano di essere decapitati una volta per tutte.
Buttò via le uova, infastidito, ma doveva farlo. In fondo il coraggio di buttare via le cose marce l’aveva avuto in passato. L’aveva già fatto. Quando si era scontrato con un peso troppo grande da portare, da decifrare e nessuno gli aveva spiegato che le situazioni belle possono andare a puttane quando meno te lo aspetti. Aveva solo 18 anni e di quella notte lui ne aveva fatto un mantra, un patto di sangue e di anima, un giuramento solenne con quel sé stesso che chiedeva solo di venire al mondo. Lei l’aveva chiamato e la vita in lui si era prosciugata d’un tratto, come quella di un vecchio millenario della Barbagia senza più linfa né sangue, sorretto solo dal profumo dei venti e del mirto. Se la sarebbe cavata da solo per sempre, barricato nel suo nuraghe.
Tirò fuori gli asparagi e cominciò a pulirli con dovizia. “D’altronde” si disse “Non tutto è da buttare via. C’è del buono ancora”.
Mentre tagliava la parte finale del gambo, si guardò attorno in casa: aveva buon gusto e lo sapeva, tutto era stato predisposto per rendere quell’avamposto confortevole come un abbraccio; progettare il bello era nella sua indole. Avrebbe costruito ancora, avrebbe creato ancora con grazia e passione. Si fermò e chiuse gli occhi. Gli venne in mente quel 30 settembre, mentre correva con la sua Honda su quella scia di luce che lo accompagnava in chiesa, a sposarsi.
Che ne era stato di quella promessa di felicità? Avrebbe dovuto avere una vita come quella degli altri, se la sarebbe meritata lui. Oh, quante volte, nelle sue passeggiate notturne, si era fermato con il naso all’insù a guardare sui palazzi quei rettangoli di luce che raccontavano storie di famiglie normali…ma che cosa diamine voleva poi dire “normale”?
Aprì gli occhi, la normalità non esisteva: c’era lui che tagliava gli asparagi, mentre Joy si strusciava tra le sue gambe. La gattina con gli occhi grandi come il cuore.
“Dissonante” si ripeté. La sua vita era dissonante.
Fece un soffritto, vi adagiò gli asparagi e poi gli gnocchi appena sbollentati. Pepe e pecorino a iosa.
Guardò nella dispensa e vide quel rosso che Giulia gli aveva regalato di cuore. “Perfetto” pensò.
Suonò alla porta un amico. Si sedettero a tavola, mangiarono insieme e di stonato non c’era nulla. Tutti gli elementi erano in armonia, perché la logica della sua vita era unica, spesso indecifrabile, ma sua, di certo non era paragonabile alle storie di altri. Doveva solo viverla.
Prima di versare il vino, palpò il crocifisso che portava al petto, forse era questo che Dio voleva da lui, che creasse armonia dal suo caos.