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L’albero del male: meditazione sulla Santa Pasqua

L'eterno conflitto e la resurrezione
Santa pasqua
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L’albero del male: meditazione sulla Santa Pasqua

Terapia e panacea

Il Triduo Pasquale e la Santa Pasqua sono sempre stati per me una preziosa occasione per meditare sulla croce e, più in generale, sulla Salvezza che Nostro Signore è venuto a portarci. Anche se i frutti sono decisamente altalenanti, ho notato una domanda, che spesso esito a palesare, che tende a ritornare: da che cosa ci ha salvati Gesù Cristo?

Fingete anche voi per qualche istante, cari lettori, di rintracciare nelle vostre intime riflessioni una questione simile e proviamo assieme a cercarne una risposta. Partiamo dalle basi: il cristiano sa per fede di essere stato salvato dal peccato; non tanto, o non principalmente, dai concreti atti peccaminosi, bensì dalla conseguenza che essi portano sempre con sé: la morte. Naturalmente basta un semplice approfondimento per comprendere che non stiamo parlando della dipartita del nostro corpo, che tutti dovremo vivere prima o poi, bensì della morte spirituale, ossia di quella condizione tragicamente paradossale in cui il nostro principio vitale, pur non cessando di esistere, è quasi completamente separato da Dio, Via, Verità e Vita.

Giunti a questo punto potremo concludere che il sacrificio di Cristo ci salva nel senso che consente, a chi crede e si affida a Lui, di evitare questo tragico destino. Questa risposta è certamente vera e degna di fede ma richiede un approfondimento ulteriore: questo stato di morte spirituale, di sradicamento dall’Amore di Dio dal quale Gesù ci scampa, è un esito che si realizza totalmente nel futuro? È possibile cioè che lo spirito, proprio come il corpo, si prepari alla morte permanendo in un sempre più soffocante stato di malattia?

Se così fosse allora dovremmo concludere che la Salvezza del Signore non è solo una panacea da conservare per l’istante ultimo, bensì una terapia che anche prima della guarigione dona all’intera esistenza umana una preziosa salute spirituale. Credo però che per comprendere appieno la necessità di una medicina non basti la semplice consapevolezza del male: è necessario invece avere una chiara conoscenza dei “sintomi”, così che la cura sia desiderata non solo in vista del beneficio remoto, bensì anche nell’attesa dei vantaggi prossimi.

Fare questo non è certo facile, poiché è necessario analizzare la condizione di peccato dell’essere umano in questa vita in modo semplice, stando attenti a non trascurare degli elementi che, magari per semplice abitudine, fatichiamo e vedere come negativi o rilevanti. Conscio di quanto una simile impresa trascenda le mie capacità, ho deciso di appoggiarmi ad un brano del Dialogo di santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa e Patrona d’Italia, che propone un’allegoria utilissima per il nostro discorso: «Sai dove egli tiene le radici questo arbore? Nell’altezza della superbia, la quale l’amore sensitivo di loro medesimi nutrica; il suo mirollo è la impazienza, e ‘l suo figliolo è la indiscrezione. Questi sono quattro principali vizi che in tutto uccidono l’anima di colui il quale ti dissi che era arbore di morte, perché n’hanno tratta la vita della grazia»[1].
 

L’albero del male

Comprendo bene che l’italiano del XIV secolo può essere ostico per alcuni, ma ho deciso di porre l’originale nel corpo dell’articolo perché, a mio parere, possiede una forza espressiva che raramente le traduzioni, più attente alla precisione della resa che alla potenza comunicativa, riescono a conservare. In ogni caso, vi pongo in nota la traduzione in italiano corrente[2].

Caterina paragona l’anima dell’uomo in vita ad un albero, ossia ad un essere vivente la cui salute dipende quasi totalmente dal luogo e dalla modalità del suo radicamento. Come quindi una simile pianta sarà tanto più sana quanto più salubre risulterà il terreno dov’è piantata, così l’essere umano sarà tanto più vitale spiritualmente quanto maggiormente radicato in Dio. La Santa senese non descrive qui un organismo morto, bensì qualcosa d’insano, di morente; tale elemento è particolarmente importante poiché qualunque similitudine scopriremo fra questo ideale albero e il nostro uomo interiore dovremo leggerla non come un annuncio tragico bensì come una possibilità di guarigione.

Anche se santa Caterina inizia la sua allegoria dalle radici, credo che sia meglio in questa sede partire dai frutti, ossia da ciò che più immediatamente vediamo dall’esterno. Se infatti alla mistica interessava descrivere un organismo spirituale malato, a noi preme invece mostrare come riconoscerne uno; ecco che quindi, proprio come per svelare una malattia s’inizia dai sintomi, così noi incominciamo analizzando i frutti di quest’albero.

Il testo originale parla d’indiscrezione, termine che, al di là dell’uso corrente, viene qui inteso in riferimento al significato del vocabolo latino indiscretio, indicante appunto una mancanza di discernimento[3]. Questo quindi è ciò che più evidentemente si può riscontrare in una persona malata nello spirito: ossia un’incapacità di discernere il bene dal male. Intendiamoci bene però: non si parla solo di una difficoltà posta sul piano conoscitivo ma anche, e soprattutto, su quello appetitivo.

In altri termini, il segno più evidente di chi è avviato alla morte, alla vera morte, non è solo l’incapacità di distinguere il bene dal male, ma in particolare la difficoltà a scegliere il bene, anche se riconosciuto. Chi quindi vive fuori dalla Grazia di Dio, dalla Sua amicizia, può anche, con difficoltà, comprendere autonomamente il giusto peso morale di questo o di quell’atto, ma non riuscirà ad agire di conseguenza. Possiamo aggiungere che se è malato il frutto saranno insani anche i semi; ecco che quindi questa incapacità di discernimento starà alla base di azioni che saranno o sbagliate o, se pure in sé giuste, risulteranno inficiate da motivazioni o modalità distorte.

Naturalmente qui si vuole descrivere una situazione appositamente estremizzata e semplificata: così facendo non s’intende fare un torto alla realtà, ma semplicemente fornire un metro chiaro di riferimento con il quale analizzare noi stessi.

Proseguendo in profondità potremmo chiederci da dove provenga questa incapacità di discernimento; la nostra santa risponde con l’immagine dell’impazienza, presentata come la linfa dell’albero, ossia quell’elemento dal quale ogni altra parte pesca il nutrimento. Inutile dire che l’impazienza è la mancanza di pazienza, ossia l’incapacità di concedere il giusto tempo ad un’attività. Comprendiamo perciò che le difficoltà nel discernimento, con tutte le note conseguenze, vengono qui attribuite ad un’eccessiva fretta nel compiere la scelta. In altre parole, quando pecchiamo, sia che l’errore stia nella conoscenza del bene sia che invece si trovi nella scelta dello stesso, ciò che ci porta a sbagliare è l’incapacità di vagliare a fondo ciò che stiamo per compiere.

Anche in questo caso non si tratta solo di una questione quantitativa, ossia di quanto tempo possiamo dedicarvi, ma anche d’una sottile paura ad approfondire troppo una valutazione. Difatti quando facciamo qualcosa, ciò cui miriamo è un oggetto che concepiamo come bene, per noi o per gli altri; un paziente discernimento implica la disponibilità ad accettare l’assenza di tale bene o per il tempo necessario a valutare o, se lo si scoprisse ingannevole, per sempre. Ecco che quindi l’impazienza nasce dal rifiuto di accettare l’assenza di questi beni minuti, con la conseguente sofferenza.

Inutile dirlo, un midollo malato deriva da un nutrimento malsano, efficacemente descritto da Caterina come un amore sensitivo per se stessi. Questo forse è il passaggio più complesso del testo, poiché fa riferimento a ciò che orienta, nella nostra esistenza, tutti i beni particolari di cui godiamo. Ogni essere umano infatti struttura la propria esistenza attorno ad un bene fondamentale da cui sa, o spera, di poter attingere la sola cosa che tutti vogliono: la felicità. Tutti gli altri elementi, grandi o piccoli, acquisiranno senso e peso solo in relazione a tale bene. Non è detto che sia qualcosa di particolarmente elevato o complesso, poiché la nostra libertà ci mette nelle condizioni di elevare anche elementi di per sé molto bassi.

Per fare un esempio, se io presumessi di poter trovare nel piacere dei sensi, goduto o ricercato, la mia fonte prima di felicità, tutti gli altri beni sarebbero orientati e valutati alla sua luce, così come ne sarebbe influenzato il mio processo di discernimento. Ora santa Caterina, paragonando tale bene fondamentale al nutrimento, ci comunica il fatto che se ciò che scegliamo non è abbastanza nutriente inevitabilmente ci troveremo a patire la fame. Se cioè eleviamo a bene sommo qualcosa che per sua natura non può soddisfare appieno l’appetito spirituale dell’animo umano, ci troveremo sempre più spesso a contemplare quel vuoto interiore, quell’assenza tragica di gioia in risposta alla quale cercheremo con impazienza un altro boccone.

Possiamo dire, in sintesi, che il peccatore, ponendo al centro della sua esistenza qualcosa che non sia Dio, si nutre di un cibo talmente povero da vivere, pur se pieno, una costante e tragica fame di felicità.

Eccoci giunti alla fine del percorso, alle radici dell’albero del male; infatti, il nutrimento velenoso da dove giunge se non da un terreno corrotto? Proprio qui sta l’origine del perverso edificio interiore che la Santa senese ci ha aiutato a comprendere; queste malsane zolle altro non sono che la superbia. Essa è, com’è noto, il vizio che porta la creatura e pensare di essere più di quanto non sia; è il peccato che maggiormente lotta contro il nostro senso della realtà, poiché ci priva della possibilità di accogliere la verità a noi più prossima: quella su noi stessi. Per capire però come la superbia possa essere il terreno di questa allegoria non dovete considerare una delle sue specifiche espressioni, bensì la loro radice ultima. Il Libro della Genesi ci dice che il diavolo offrì ad Eva la possibilità di essere come Dio (Cf Gen 3, 5) e proprio nella convinzione di poter realizzare tale illusione sta il cuore del peccato.

Dobbiamo tuttavia considerare che la creatura, se sana di mente, non declinerà questa aspirazione all’intento di essere esattamente identica a Dio; cercherà invece di assumere un attributo di Dio che la cui acquisizione non gli pertiene. Questo è, a mio parere, l’autonomia. Il Signore infatti, come sappiamo, basta perfettamente a Se Stesso, in nessun modo ha bisogno delle creature, le quali nulla possono aggiungere alla Sua perfezione.

Questa totale indipendenza è ciò che maggiormente sfugge alle creature che, in quanto tali, dipendono dal Creatore per l’esistenza e per ogni bene che posseggono. Il superbo quindi è colui che cerca di fare a meno di Dio, ritenendo buono e desiderabile ogni bene ed ogni atto che in qualche modo non dica dipendenza dal Signore. Vediamo quindi che il santo desiderio d’imitare l’Onnipotente viene talmente pervertito da infettare l’interezza del nostro organismo spirituale. Riprendendo quanto detto sopra, è proprio da qui che nasce la tragica tendenza a porre al centro della propria esistenza un bene diverso da Dio: anche se ci rendiamo conto dei limiti di tale cuore artificiale, tendiamo superbamente a preferirne i singulti piuttosto che consentire al Signore di sostituirlo con il Suo cuore di carne (Cf Ez 11, 19).
 

L’Albero della Vita

Quella che abbiamo descritto è, come afferma santa Caterina stessa, la condizione dell’uomo che vive fuori dalla Grazia di Dio. Dall’analisi fatta appare chiaro che l’infelicità di una simile esistenza si pone, già in questo mondo, almeno su due livelli: uno prossimo, costituito dalle conseguenze sulla nostra persona delle concrete azioni peccaminose che compiamo, e uno remoto, dato dal costante stato d’insoddisfazione, di fame spirituale, che il mortifero terreno in cui siamo radicati ci propina.

Riprendendo l’allegoria possiamo concludere che la sola soluzione sia ripiantare l’albero della nostra anima in un terreno sano, così che l’intero organismo sia da esso rigenerato. Va da sé che se le zolle velenose del peccato sono costituite dalla superbia, fonte prima della chiusura e Dio, allora una condizione opposta di totale apertura a Lui ne costituirà la soluzione. Ma dove trovare una virtù che sia via d’accesso alla Grazia derivante da questa disposizione? La risposta ce la dà la croce stessa di Cristo.

In quel legno, tradizionalmente riletto come Albero della Vita e della Salvezza, troviamo il perfetto radicamento nella virtù dell’umiltà; Gesù, colui che è «[…] mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), mostra nello scandalo della croce come ogni suo azione su questa terra, dalla nascita fino al patibolo, sia fondata sulla consapevole accettazione della propria totale dipendenza dal Padre in quanto Figlio ed in quanto uomo. L’umiltà, ossia l’onesto riconoscimento dei propri limiti e della propria debolezza, è la virtù che ci consente di rifiutare con gioia il folle sogno dell’autonomia e di essere così riempiti, nutriti da quella Grazia Divina che è vera linfa per la nostra anima.

La Pasqua ci consente di condividere con Cristo la vita derivante da questo terreno, reso fertile dal Suo Sangue prezioso. Radicati di fianco a Lui nell’umiltà, guadagniamo non solo la promessa dell’esistenza futura, ma anche la fertilità dell’esistenza presente. Vedremo allora che in un simile terreno ci sarà possibile porre sempre più Dio al centro della nostra vita; dalla gioia nutriente che da Lui scaturisce, capace di rendere sani anche gli alimenti minuti, trarremo quella pace e quella pazienza con le quali non ci sarà più difficile vivere un sano discernimento e dare così frutti gustosi e fertili semi di salvezza.

L’invito quindi che vi rivolgo è di vivere questa Santa Pasqua come l’occasione di radicarsi nella Vita, così da diventare noi stessi nutrimento per tutti i fratelli affamati e stanchi.

Testo consigliato

  • Santa Caterina da Siena, Dialogo (a cura di G. Cavallini e E. Malaspina), ESC e ESD, Bologna 2017.

 

[1] Santa Caterina da Siena, Dialogo (a cura di G. Cavallini e E. Malaspina), ESC e ESD, Bologna 2017, n. 31, p. 256.

[2] «Sai dove ha la radice questo albero? Nell’altezza della superbia, alimentata dall’amore di autocompiacimento dell’amore esclusivo di se stessi; la sua linfa è l’impazienza, e il suo rampollo è l’incapacità di discernimento; questi sono i quattro principiali vizi che totalmente uccidono l’anima di colui del quale ti dissi che era albero di morte: perché ne hanno tolto la vita della grazia»; ivi, n. 31 (trad.), p. 257.

[3] Cf Vocabolario Treccani Online, Voce: Indiscrezione, consultato il 03/04/2022.