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La giustizia desacralizzata

Giustizia
Giustizia

La giustizia desacralizzata

 

Breve excursus biografico su Giuseppe Bonito

Giuseppe Bonito, definito “Primo pittore di corte” direttore a vita dell’Accademia del disegno di Napoli (attuale Accademia di Belle Arti) consigliere regio del Laboratorio degli arazzi, nacque a Castellammare di Stabia nel 1707 e morì a Napoli nel 1789. Figlio di una numerosa famiglia, fu accolto giovinetto nella celeberrima scuola dell’abate Solimena, una sorta di sodalizio formato dai migliori allievi del tempo che, in omaggio e gratitudine al loro maestro – anche di vita – indossavano tuniche marroni per esaltarne l’impegno di cui in seguito fu messa in discussione la “presunta povertà” della famiglia, sostenuta acutamente dal Cosenza e dal Malajoli (ispettore della Sopraintendenza all’arte medievale e moderna 1905; operatore didattico presso l’Università di Napoli 1939).

Dal sodalizio de quo, furono privilegiati pochi “cadetti” che riuscirono a mettersi in luce per talentuosità e tenacia tra i quali spiccarono Sebastiano Conca, Francesco de Mura, Antonio Vaccaro e tra i quali lo stesso Bonito di cui fu insignito di onorificenze che lo posero in una condizione eccelsa ed eminente pubblica considerazione, monopolizzando per un discreto periodo il pensiero della corte sia di quanti operavano nel collezionismo di opere d’arte. Della considerevole produzione del Bonito, molto si disperse. Nel 1935, dopo una lunga e meticolosa ricerca, il critico d’arte Roberto Longhi attribuì opere ritenute del Bonito a Gaspare Traversi senza alcuna perizia tecnica dell’amministrazione stabiese.

Del Solimenismo campano corrente artistica di grande impatto estetico che svolse una funzione quasi egemone nella formazione dell’arte in Campania  nel 700, del quale Bonito assorbì la densità, il colore, gli effetti di contrasto della luce, in seconda battuta si diresse verso la scrupolosa osservanza di forme e norme tradizionali, una sorta di “convenzionalismo” pittorico del classicismo romano; forse in risposta ai gusti ed esigenze di una committenza sempre più erudita e pignola nei bisogni estetici rimane comunque “ancorato” nel ricordo uno dei pittori più emblematici del carattere dell’arte napoletana della metà del Settecento, con una pittura di diretta comunicazione della florida stagione dell’arte campana di quel tratto storico.

Oltre che nella pittura di “genere” spiccò per la ritrattistica – in assenza della stabilizzazione dell’immagine fotografica, i nobili si facevano ritrarre dai pittori – nel tentativo conciliativo dell’esigenza autocelebrativa del ritratto iconografico ovvero, rappresentativo della istituzione del tempo, specialmente il sovrano – con il naturalismo espressivo della tradizione artistica napoletana – metteva in luce gli aspetti psicologici e sentimentali più autentici e soggettivi.

Il suo nuovo modo di esporre la ritrattistica dove le figure sono “vive”, popolari, notorie o di nuclei familiari, di quartiere, zona, della corte, ebbe molto successo procurandogli grandi compiacimenti morali e materiali.


Una mostra dedicata alla ricerca umana e umanizzante della di giustizia

Si tratta di “una collezione dove si muove un’umanità che soffre ma grida il diritto fondamentale alla giustizia e alla bellezza” sono le parole di don Gianni Citro, presidente della Fondazione Meeting del Mare C.R.E.A. e, curatore della mostra visitabile sino il 15 marzo 2023, nella piazza coperta del Palazzo di Giustizia di Napoli.

Nell’“Allegoria della giustizia” di Giuseppe Bonito, il trono celeste, la spada per punire, la bilancia per pesare colpe e responsabilità. In tutto sono 12 le opere esposte[1], provenienti da collezioni private, che rappresentano il barocco come arte teatrale che racconta lotta, speranza, cura, coraggio, innocenza, crudeltà.

Bellezza e Giustizia possono diventare concetti in cooperazione o interrelazione intensa fra loro; il Presidente del Tribunale di Napoli, dottoressa Elisabetta Garzo parla di “simbiosi, per tale ragione ha fortemente sollecitato l’esplicarsi della mostra negli uffici giudiziari poiché in essi si possono fare riflessioni più profonde rispetto alla gestione tecnica quotidiana dei processi e la gestione dei linguaggi giuridici di merito. A lei si affianca il dott. Nicola Graziano (magistrato) curatore della mostra, dove evidenzia il messaggio sulle possibili luci in una giustizia spesso e volentieri costruita sulle ombre.

La drammaturgia del diritto Nella Pittura Barocca, il significato di giustizia nell’allegoria proposta spazia tra “normatività”, richiamo alla fedeltà dell’umanità, conformità all’ordine, rettitudine, capacità di vittoria; l’intera gamma semantica lascia emergere che il fondamento del termine rimanda a un concetto di relazione tra colui che è chiamato ad attuare o meglio eseguire o porre in essere la giustizia e il popolo intero nel qual nome viene amministrata o il singolo uomo preso nei suoi diritti o interessi legittimi e tra gli uomini nelle loro dinamiche relazionali. L’ingiustizia sociale è anche l’ingiustizia del buon andamento ed amministrazione del diritto[2].

La giustizia è un sentimento “guida” per certi versi di ispirazione; intesa come azione sociale, come riconoscimento delle buone pratiche e di iniziative mirate al bene comune che diventa supremo superiore. Giustizia anche intesa come azione di diritto, come strumento di garanzia, di controllo e tutela dei diritti dei cittadini e delle norme, come argine ai fenomeni e alle azioni criminali. Quella metamorfosi della giustizia agognata nell’arte oggi scontenta e oscilla nelle aule di tribunale.

L’amministrazione della giustizia si è sempre giovata di un notevole apparato iconografico e scenico, finalizzato a “sacralizzare” sia i momenti principali in cui essa si articolava (il processo e l’esecuzione della sentenza su tutti) sia i protagonisti che vi partecipano.

Attualmente tale tendenza non solo si è arrestata ma è in fase recessiva come il disuso ormai della toga (di fatto sparita nel processo civile, mal portata o digerita nel processo penale), le udienze celebrate on-line, prassi giustificata a causa dell’emergenza pandemia connessa al Covid ma potenzialmente idonea a costituire un “pericoloso” precedente o apri-pista in grado di “spersonalizzare” definitivamente i tradizionali riti processuali.

La contrapposizione tra “equità” ed “imparzialità” come strumenti per assicurare un diritto davvero “giusto” ha avuto profondi riflessi sul modo in cui la stessa immagine della Giustizia è stata rappresentata sin dal medioevo sino all’età moderna. La Giustizia armata di spada (arma nobile per eccellenza dell’aristocrazia feudale) rappresenta la forza, ma non tanto quella in sé della Giustizia (che deve imporsi sulla violenza irrazionale dei rei), quanto quella della società che l’amministra. Spada pronta a scagliarsi contro l’autore del reato che con la sua condotta non ha solo offeso la vittima, ma anche l’intera società.

L’idea della “desacralizzazione” o di una non normazione certa dell’ordinamento comprese le norme di diritto da applicare, oggi incidono e permangono evidenti poiché faticano a stare al passo di una società che muta repentinamente e drasticamente, ciò determina una giustizia senza più ruolo “legicentrico” dove la legge è al centro delle dinamiche sociali. Tutto ciò rimane un mero prodotto della Rivoluzione francese poi adottato in tutta l’Europa occidentale, di rassicurante invece rimane solo il raffigurante rappresentativo di un’opera, perlomeno quella barocca esposta nella mostra sopra menzionata, che non trascura il certo giuridico e il profondo senso della lealtà del diritto.

Note:

 

[1] Tra le quali vi sono oltre il Bonito, Luca Giordano, Carlo Sellitto, Agostino Beltrano, Filippo Vitale, Pietro Novelli, Giuseppe Piscopo, Simone Cantarini, johann Carl Loth, Giovanni Battista Beinaschi.

[2] Dalla giustizia di YHWH, Jahvè nell’Antico Testamento, il popolo attende l’attuazione del principio di retribuzione: al giusto tutto andrà bene, egli godrà il frutto delle proprie opere; l’empio invece avrà male, gli sarà reso quello che hanno fatto le sue mani (Is., 5,16; 10,22). Il rapporto tra Dio ed il popolo d’Israele poggia sulla giustizia che si configura come un diritto e un dovere: il diritto di YHWH è il dovere del popolo e dei suoi membri. Il termine che esprime questo concetto è il mispat, “diritto” che, equivale quasi a religione (Ger., 5,4-7; Is.,58,2) che si deve conoscere ed esercitare. Questo semitismo è attestato nel Nuovo Testamento: “adempiere ogni giustizia” (Mt., 3,15) significa osservare tutti i doveri stabiliti da Dio.