Giustizia giusta: affascinante necessità sociale ed insopprimibile esigenza valoriale dello spirito

Giustizia
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La palingenesi prolettica e le ragioni ontologiche della scelta del tema di analisi

L’occasione di questa mia riflessione vuole connotarsi unicamente quale contributo sereno e pacato ad un dibattito sempre più aspro ed acre, tra i pugnatori del momento e che molto spesso sconfina in una sgradevolezza di toni che non fa onore a nessuno.

Gli argomenti di indagine, infatti, al pari delle ricordate ragioni espresse nel titolo, sono inscindibilmente sottese alla insopprimibile necessità sociale di veder riconosciute, rispettate e tutelate ognuna e tutte le sfere giuridiche soggettive che interagiscono nella vita di relazione attraverso la doverosa attribuzione di quanto è ad esse dovuto secondo l’analisi del fondamento assiologico della discussione dogmatica postulata tanto sul piano della tutela etica che sotto il profilo più strettamente giuridico.

In ragione di ciò ritengo opportuno evidenziare come la corretta affermazione del principio di poter fruire di una “Giustizia Giusta” sia esigenza dello spirito e dell’anima prima ancora che questione di apparati e che si presenta come la irrisolta grande (e spesso forse abusata) aporia del nostro tempo.

Tutti ne parlano, tutti ne scrivono con malcelate sicumera e iattanza tanto da dar vita a schieramenti contrapposti ed il più delle volte tra di loro scarsamente dialoganti, ciascuno dei quali ritiene che la propria idea assuma valore paradigmatico per il pensare degli altri.

Reputo ancora non inutile precisare, ai fini che qui interessano, che la giustizia, non è un termine lessicale da intendere a piacimento di ognuno, né per vero il paravento di una qualche ed ancor più grave ingiustizia così come non è una figura retorica, bensì una insopprimibile compagna di viaggio, una scelta di vita che incide e permea di sé tanto le singole sfere soggettive che le istituzioni. Essa è il valore per eccellenza, il farmaco misericorde di non facile applicazione, atteso che presuppone i valori della prudenza, della riflessione rigorosa e della temperanza nell’esercizio dell’azione giustiziale intesa quale ermeneusi delle leggi.  

Inoltre la ricerca mirata al reale conseguimento di una Giustizia Giusta, contribuisce e non poco a dipanare anche i temi ed i problemi correlati all’ambito politico, sociale e culturale del nostro Paese in quanto sostanzia l’humus più idoneo, l’ambiente più adatto alla riflessione piena ed all’esercizio della c.d. “epichéia”.
 

Lo stato dell’arte e la dissonanza rispetto al modello prospettato dall’ordinamento

Nell’attuale realtà cronotopica un dato appare incontestabile: il modello disegnato dalla Carta costituzionale e reso astrattamente funzionale attraverso un sistema di pesi e di contrappesi fra i poteri, è entrato in profonda crisi a causa di una più che evidente lisi del potere politico che si è progressivamente indebolito, e per incapacità endogena e per un’inelegante, anche, se qualche volta necessitata, operazione di supplenza che l’ordine giudiziario ha via via nel tempo esercitato senza, però, il necessario controllo.

Si è determinata così una situazione paradossalmente anomala in cui la politica  non è riuscita, in verità, anche per propria endemica incapacità, a metter mano non soltanto ad una operazione di riequilibrio del sistema al fine di garantire tanto al potere legislativo che al potere esecutivo di non essere sempre sotto scacco dell’ordine giudiziario, ma addirittura, anche per radicata viltà, ad avviare quelle tutto sommato non di grande respiro riforme  che avrebbero potuto e potrebbero porre rimedio alle ormai palesi, se non anche eclatanti distorsioni del sistema giudiziario che oggi è veramente divenuto straripante.

E’ facile ricordare, a tal proposito, che non si è mai attivata, eppure Dio sa quanta necessità ci sia nell’attuale momento storico, una indagine organica e non di parte sugli sprechi nel settore della Giustizia, sulla cattiva amministrazione dei Tribunali, sulla non coerente distribuzione sul territorio dei giudici e delle sedi giudiziarie, sull’incomprensibile mancata sottrazione ai Presidenti dei Tribunali della gestione degli uffici giudiziari per affidarla a figure esperte e capaci che siano nella condizione reale di assicurare un’effettiva ed adeguata gestione manageriale delle risorse umane e finanziarie.

Del pari non si è neppure mai avviata una seria ed incisiva azione sulla bassissima produttività, specie nel settore civile, dei magistrati (la riforma c.d. Cartabia, a parte la sua gracilità strutturale complessiva, si è rivelata un autentico flop financo sotto il profilo della velocizzazione dei procedimenti decisionali non essendo riuscita ad incidere neppure minimamente sulla tempestività del deposito delle sentenze), così come non si è mai messo mano all’eliminazione del simulacro dell’obbligatorietà dell’azione penale, di fatto ormai in plastica crisi nel nostro ordinamento e  spesso strumentalmente invocata da chi tende ad indagare a senso unico.

Invero, a ben riflettere, il principio postulato dall’art. 112 della Carta che fa obbligo all’autorità inquirente di dar corso all’azione penale ogniqualvolta la stessa venga a conoscenza di ipotesi di reato non costituisce altro che la classica foglia di fico dietro la quale sostanzialmente si conferisce al P.M. la possibilità. di scegliere cosa perseguire con tempestività e cosa invece abbandonare alla prescrizione.

Infatti, restando affidata esclusivamente al titolare dell’azione penale la potestà di come e quando procedere, viene meno, in termini di tutta evidenza, il carattere cogente proprio dell’obbligatorietà in ragione dell’evidenza, più che palese, che l’attribuzione in capo all’autorità inquirente di tale facoltà si traduce di fatto in un potere discrezionale di scelta che viene ad assumere, senza se e senza ma, la forma ed il connotato  di un atto politico, a cui viene additivamente ad aggiungersi l’ulteriore aggravante che nei confronti di essa discrezionalità non è previsto né correlato alcun modello di controllo al suo esercizio in assenza totale di autorità superiore che possa sollecitare accertamento di sorta e, quindi, sanzionare l’eventuale anomalia di non fisiologici ritardi nello svolgimento dell’attività posta in essere dal  P.M.

La guerra fredda tra le parti belligeranti ha determinato lo snaturamento della funzione giustiziale e dello stesso assetto istituzionale dell’ordine giudiziario che ha ormai assunto connotato e ruolo, mi si passi il termine, di politicizzazione talmente marcata da aver fatto perdere smalto ed efficacia, quando non anche prestigio, all’azione della magistratura.

Ecco perché appare quantomai necessario procedere alla improcrastinabile necessità di affrontare e di definire l’aspetto della responsabilità civile dei magistrati, di separare le carriere tra giudici e magistrati dell’accusa, ma soprattutto di sottrarre il controllo disciplinare a coloro che ne devono essere oggetto.

Ciò permetterebbe di giungere ad un rasserenamento del panorama e consentirebbe di ripristinare un quadro di giusto equilibrio fra i poteri nel quale il potere legislativo ed il potere esecutivo abbiano la giusta e piena sovranità sulle politiche criminali e di legalità, e l’ordine giudiziario il compito di applicare le leggi senza possibilità di anomali sconfinamenti in campi non propri.

Si eviterebbero tensioni e dolori per coloro che sono le reali vittime dello scontro istituzionale che stiamo vivendo.

Le superiori riflessioni  hanno altresì come focus la necessità di spingere il legislatore ad orientare l’ago della bussola, verso un più serio rimodellamento della disciplina normativa complessivamente in essere; sforzo di revisione legislativa che deve essere caratterizzato da orizzonti previsionali più marcatamente garantisti e non anche esasperatamente generici ed asettici come quelli attuali e che non omettano, ancora una volta, di considerare che le ricadute applicative di una giustizia abborracciata, spesso si connotano  come pervasive in negativo sulla vita reale delle imprese e delle sfere giuridiche soggettive private, peraltro il più delle volte, a dispetto delle garanzie costituzionali poste a loro tutela.

In buona sostanza da vecchio liberale che non crede nei decisori illuminati ed in quanto convinto assertore dello Stato di diritto, attratto da sempre dai valori della democrazia e dell’umanesimo, con queste mie semplici osservazioni tendo a respingere ogni improprio tentativo di trascinare tanto la vita dei cittadini che delle istituzioni in una sarabanda di sospetti, di fronte ai quali la ragione ed ogni altro sano sentire civile soggiacciono, immotivatamente ed irrazionalmente, alla faziosità ed al cappio dell’unzione concettuale della pretesa di irrogazione di misure afflittive senza la certezza della prova, anche perché non appare giusto né auspicabile ulteriormente tollerare la sistematica violazione di regole e diritti fondamentali.

Occorre, invece, essere capaci di fornire delle risposte normative serie, corrette e liberali all’altezza delle verità del reale che permettano di conseguire la sola ed unica finalità alla quale devono tendere tanto il legislatore che la giurisdizione che gli organi di amministrazione attiva. E ciò anche al fine di prevenire distorsioni applicative, inutili e fuorvianti ed a garantire un reale, liberale e giusto equilibrio dei contrapposti interessi correlati alla libertà (insopprimibile) anche di impresa ed alla salvaguardia dell’ordine pubblico e che permettano, in sede di giurisdizione, di conseguire il solo ed unico fine a cui tanto la P.A. procedente che il Giudice devono tendere: quello di assicurare giustizia sostanziale.
 

Le ultime evidenze delle necessità reali di riforma del sistema anche per imperizia delle parti in commedia

Nella nostra bella Italia si fa sempre più incerto e, quindi, cruciale ed arduo  l’annoso problema relativo ai rapporti fra le sfere della politica e della giurisdizione tanto che ritengo pressocché impossibile, anche per la dichiarata non propria volontà dei campi in contesa, riportare nell’alveo di un corretto argomentare, tipico e distintivo  di una liberaldemocrazia costituzionale, il rapporto ormai liso fra i poteri dello Stato, anche perché la politica, intesa quale spazio autonomo dove legislatori ed amministratori rappresentanti del cittadino elettore assumono decisioni a valenza collettiva, viene “giudiziarizzata” con conseguente severo restringimento del proprio fisiologico e tipico perimetro di responsabilità.

In verità, in tutti quei Paesi nei quali tale fenomeno si è manifestato gli anticorpi costituzionali hanno funzionato a dovere attraverso adeguate contromisure, a partire dalla separazione delle funzioni giudicanti da quelle requirenti.

Nel nostro Paese, invece e purtroppo, la richiamata e non felice esondazione giudiziaria non ha incontrato argine o vasca di laminazione di sorta.

Invero a far tempo dell’infausto periodo di tangentopoli il predetto straripamento ha assunto caratteri sempre più marcati tanto da trasformare tale disaccordo – che ex se postula la necessità di ampi spazi di autonoma manovra – in un conflitto prevalentemente etico.

In ragione di siffatto inopportuno contesto culturale non deve stupire che la magistratura, soprattutto

nella sua componente requirente, abbia via via assunto il ruolo di fondamentale protagonista della vita politica del Paese sino al punto di riuscire a suggestionarne tempi e modalità di svolgimento. con l’anomala conseguenza che il potere politico si trova oggi a doversi confrontare con un potere (quello giudiziario) privo di alcuna investitura (rectius responsabilità) democratica.    

Da qui, anche al fine di scongiurare un futuro segnato da forme illiberali di democrazia, la improcrastinabile esigenza di metter finalmente mano ad una coraggiosa riforma della Giustizia.

Dovendo in questa sede scientificamente, analizzare le ultime vicende del cruento e non di certo ragionevole agone tra i poteri legislativo ed esecutivo dello Stato e dell’ordine della magistratura mi è sovvenuto alla mente un inciso del passo del libro VI dell’Iliade meglio conosciuto come “l’addio di Ettore ad Andromaca” laddove il campione di Troia rivolgendosi alla moglie alla quale affida il piccolo Astianatte profeticamente asserisce: “giorno verrà presago il cor mel dice, verrà giorno che il sacro iliaco muro e Priamo e tutta la sua gente cada”.

Con il richiamo testé fatto al predetto inciso intendo significare che il duro confronto al calor bianco in atto tra le toghe e la politica per il perseguimento di una posizione di egemonia dell’un apparato sull’altro, non può essere considerato quale semplice annoso scontro tra poteri istituzionali, ma si caratterizza con l’inusitata ed irrazionale cruenza  propria di un duello all’ultimo sangue, al pari di quello che è intervenuto tra Achille ed Ettore; una sorta di resa dei conti per la ridefinizione dei confini tra poteri dello Stato infiltrandosi da tempo la magistratura negli spazi tradizionalmente propri della politica con la conseguenza di pretendere di porsi, esso ordine giudiziario, non già quale soggetto gestore ed esercente il sindacato sui e dei reati, ovverosia di controllore della legalità, bensì con il malcelato intento di sovrapporre i propri obiettivi alle funzioni costituzionali di cui ex lege risulta attributario e, quindi, creando instabilità all’equilibrio costituzionale fra i poteri al fine di imporsi quale non abilitato soggetto titolare dei valori etici, quasi un legislatore morale, il propulsore ed unico depositario e custode di un potere egemonico sul potere legislativo ed esecutivo. 

In buona sostanza stiamo assistendo, in un quadro da tragedia greca, ad un vero e proprio faccia a faccia tra un ordine (la magistratura) che pretende di essere garante dei valori costituzionali e di conseguenza l’unico polo di riferimento abilitato a giudicare in tema di etica pubblica ed il potere politico che deve riappropriarsi della capacità di governo ad esso propriamente assegnato dalla Carta.

La magistratura, invece, in quanto ordine, deve dimostrare di essere consapevole del ruolo di cui risulta assegnataria e contestualmente dei limiti riconnessi alla funzione ad essa conferita; compito che va indiscutibilmente esercito nell’assoluto rispetto dei compiti di cui risulta assegnataria e che proprio nella sua soggezione soltanto alla legge costituisce elemento di garanzia e di tutela anche rispetto al potere esecutivo ed al potere legislativo. 
 

Lo scontro non è indolore

Il mascagnano duello rusticano fra le parti in commedia su un terreno così delicato quale è quello della Giustizia costituisce il problema dei problemi per il Paese Italia perché l’evidente malfunzionamento del sistema giudiziario riflette e produce in termini di concreta evidenza danni all’economia nazionale atteso che, come, peraltro, fanno rilevare tutti gli indicatori internazionali la c.d. “mala giustizia” determina e rappresenta un significativo freno allo sviluppo ed all’attrazione di capitali esteri e, quindi, un pregiudizio indiscutibile per l’economia della nazione.

Invero come in altra parte del presente intervento evidenziato mi permetto di fare osservare e giusta, peraltro, quanto ribadito a più riprese anche da Bankitalia, la scarsa produttività dei Tribunali italiani – paradigmata attraverso la desolante misura della tangibile rilevazione del rapporto tra procedimenti definiti e l’esiguità del numero dei giudici che se ne occupano seriamente e concretamente – che evidenzia, a chiare note, l’insufficienza strutturale del modello della nostra Giustizia viepiù in ragione della sua  più che evidente endogena incapacità a funzionare fisiologicamente e correttamente.  E la cosa ancor più grave è che la deficitarietà strutturale dell’attuale impalcatura sistemica (aggravata dalla presenza di un tessuto correntizio all’interno della magistratura) e dei suoi parametri di riferimento restano viepiù evidenziati dal fatto che, a tutt’oggi, si continua, in ragione di inutili fumisterie di facciata, a non comprendere che un sistema giudiziario corretto ed efficiente sostiene il funzionamento dell’intera economia di uno Stato e che come più volte ribadito anche da Mario Draghi il sistema giudiziario ha il compito di sostenere  il funzionamento dell’intera economia, atteso che l’efficienza di esso settore è condizione indispensabile per lo sviluppo economico e per un corretto funzionamento del mercato”.   

Infatti le spesso “d’onor vuote e nude” inchieste roboanti che in tantissimi casi si dissolvono nel nulla, che aggrediscono, senza un giuridicamente apprezzabile vero perché, il tessuto imprenditoriale incidono pesantemente sui necessari ed indispensabili progetti di riforma di cui gli apparati della politica istituzionale  devono farsi carico, al pari dell’altrettanto conclamata e non sottacibile presenza di situazioni relative dei purtroppo non pochi innocenti assoggettati a carcerazione preventiva.

Il cattivo modello giustiziale ed il pessimo tessuto legislativo in essere sono forieri di danneggiare non soltanto l’economia, ma addirittura di sconvolgere la vita di chi (da innocente) ne rimane vittima.  
 

Autonomia e indipendenza della magistratura

La superiore endiadi concettualmente forse meglio declinata dalla icastica espressione “sine spe ac metu” di Ciceroniana memoria e che mirabilmente compendia il senso dell’esercizio dell’azione operativa di chi è investito, per ruolo e funzione, del compito di giudicare, appunto con autonomia e indipendenza, ed aggiungo, che va, però, espressa unicamente nell’equilibrio del giudicato il quale, a sua volta, deve essere pronunciato in assoluto e conforme rispetto delle regole; concettualizzazione questa che trova il suo più opportuno e compiuto fondamento nel combinato degli artt. 2, 3, 24, 27, 104 e 111 della Carta.

 In ragione di ciò e non a caso la Costituzione all’art.104 qualifica la magistratura “come un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” ed all’art. 105 “spettano al CSM (organo di autogoverno della magistratura) le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni ed i provvedimenti disciplinari dei giudici”.

Va, però, subito chiarito che il riconoscimento alla magistratura di una simile forma di autogoverno, se non utilizzata cum grano salis, potrebbe, come purtroppo poi è avvenuto a partire dagli anni ’90, condurre alla creazione, all’interno dell’ordinamento dello Stato, di una non giustificata ridotta fortificata (ordine magistratuale) inespugnabile da parte di chicchessia. Di tale deteriore intervenuto profilo discratico si deve essere consapevoli e non dimenticare mai che la giustizia incide senza filtri sulla vita di quelle sfere giuridiche soggettive che su una Giustizia Giusta ripongono la loro unica speranza di veder riparati i torti subiti e di vedersi riconosciuta la possibilità di una vita dignitosa quando non anche la stessa loro sopravvivenza.

In ragione di tale assioma va altresì posto nel giusto risalto che l’endiadi di cui in rubrica deve, senza se e senza ma,  essere letta nel senso che essa deve essere ricondotta all’ovvia evidenza del  fatto che l’esercizio della funzione giurisdizionale debba essere esercita nel più profondo rispetto della legalità istituzionale e costituzionale giacché, nell’esercizio della propria funzione giudiziaria il magistrato deve risultare non soltanto imparziale, ma anche apparire tale: cioè libero e non influenzato da condizionamenti e soggezioni, anche ideologici, di sorta.

E’ di tutta evidenza, infatti, che soltanto l’equilibrio ed il comunque mai derogabile rispetto delle regole, costituisce la garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini.

Va da sé, però, che i succitati principi (art. 101, 104 e 108 Cost.) vanno indissolubilmente correlati al principio di responsabilità della funzione giudiziaria (sia civile che penale che amministrativa) postulato dall’art. 28 della Carta.  
 

I pregiudizi e le obiezioni delle parti in commedia che ostacolano l’auspicabile radicale riforma del sistema

Il primo dei grandi temi da affrontare e che vede contrapposti l’ordine della magistratura ed i poteri dell’esecutivo e del legislativo è rappresentato dalla necessità di procedere normativamente, attraverso un processo di riforma costituzionale - in attuazione del principio anch’esso costituzionale di garantire nel processo la imprescindibile presenza di un giudice effettivamente terzo - alla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici sul più evidente presupposto, che in realtà nell’attuale processo penale pesa come un macigno l’assenza di paritarietà tra accusa e difesa.  Di guisa che, in costanza di tale squilibrio di posizioni, non appare revocabile in dubbio che il principio del giusto processo, peraltro sancito costituzionalmente (art.111 Cost.), non potrà trovare piena e compiuta applicazione.   

Infatti il concetto stesso di giusto processo implica che accusa e difesa debbano godere delle medesime opportunità e garanzie davanti ad un giudice terzo; cosa che ad oggi non è consentita.

Di fronte a tale lapalissiana evidenza l’ANM oppone supposte e non dimostrate, anche perché invero tecnicamente inesistenti, impedenze di natura costituzionale.

Al contrario, ed a ben riflettere è proprio la nostra Costituzione a riconoscere tale evenienza - in forza ed in ragione del dato paradigmatico espressione del tutto tipica dell’intervenuto processo accusatorio – e, di conseguenza, ad evidenziare le numerose situazioni in cui l’indagato si trova in subalterna e deficitaria posizione di garanzia rispetto a quella decisamente più consistente e forte della pubblica accusa. Si pensi ad esempio al caso delle intercettazioni; situazione in cui la parte costretta a difendersi  corre il concreto rischio, in sede dibattimentale, di trovarsi davanti ad un P.M. che sia in condizione di fornire tutta una serie di elementi acquisiti senza il doveroso coinvolgimento dell’incriminato; indagato che, dunque, è costretto a sostenere la propria difesa senza essere corroborato di adeguate risorse difensive, in palese spregio al c.d. principio della “parità delle armi” propugnata dal costituente con la ricordata normazione sul giusto processo, nonché all’evidenza del riconoscimento del ruolo di parte attribuito ex lege anche al P.M. quale soggetto titolare del ruolo istituzionale dell’accusa.

Basterebbe soltanto quanto sin qui evidenziato a giustificare la necessità della separazione delle carriere tra chi è chiamato a giudicare e chi invece sostiene la pubblica accusa.

Nessuna limitazione all’indipendenza ed autonomia nei confronti dei P.M. tale processo di separazione determina. Infatti, ipotizzare a seguito del riconoscimento della fisiologica necessità della separazione delle carriere, tra P.M  e giudici, vulnus di sorta  appare preoccupazione del tutto priva  di senso e di significato atteso che il riconoscimento del requisito di autonomia e indipendenza è costituzionalmente appannaggio specifico, tipico ed esclusivo della funzione giudicante e non già del P.M. giacché egli nel processo non è giudice, bensì magistrato dell’accusa, giusta quanto prevede l’art.107 della Carta che ne esclude la funzione giudicante.

I due soggetti (giudice e P.M.) sono infatti, proprio per espressa volontà costituzionale, posti su piani diversi. Infatti detto legislatore ha deliberatamente inteso collocare il P.M. nel predefinito ruolo ad esso riservato al fine di salvaguardare e, quindi, di evitare che lo stesso, quale soggetto della pubblica accusa, possa rimanere ingabbiato in pastoie nell’esercizio della propria azione di parte processuale.

In ragione di tali inequivocabilmente ex eis distinte funzioni attribuite ai giudici ed ai P.M. dal legislatore costituente e per scongiurare quelle che il compianto On. Avv. Augusto Viviani, nelle sue nobili ed appassionate battaglie condotte in favore delle garanzie e dei diritti, ha mirabilmente definito “le vittime dell’ingiustizia” occorre, senza indugio, rendere effettuale detta separazione.

Riforma che non può essere considerata come operata contro i magistrati, giacché la stessa esalta il ruolo del giudice giudicante al nobile fine di garantire in senso pieno, allo stesso, l’insopprimibile esigenza di far conseguire un concreto e sostanziale bilanciamento del e nel processo.    

Invero la nequizia conseguente alle iniziative giustiziali di chi avvia un’azione penale in maniera che poi si dimostrerà avventata e che intanto hanno procurato pregiudizio e non soltanto di natura economica, ma anche all’immagine dei soggetti sottoposti ad indagini manifestatesi come imprudenti e che fanno perdere credibilità alla Giustizia nonché all’iconico fine di ridare smalto alla stessa Istituzione giudiziaria compromessa, nel sentire del Paese, da numerosi ed eclatanti casi anche di recente verificatisi. E’ ormai maturo, irrinunciabile ed indifferibile – anche in ossequio della intervenuta riforma in senso accusatorio del processo penale italiano - il momento di poter chiamare i magistrati della pubblica accusa (P.M.) a rispondere del loro disfunzionale operato (spesso frutto di ubbie giacobine) o addirittura nel caso di perseguimento di fini  non  propri  (si pensi emblematicamente al caso Tortora, al recente caso ENI, all’inverosimile caso del ex senatore PD, Esposito, alla tardiva, piena assoluzione di Chicco Testa avvenuta dopo dieci anni di calvario), di agire non solo per ottenere la condanna degli stessi, ma anche per la loro destituzione dal ruolo e dalla mansione, non essendo ammissibile che possano continuare ad esercitare la delicata loro funzione, neppure in forme altre e diverse, in seno alla giurisdizione.

Ovviamente nel contesto dell’auspicabile intervento legislativo di separazione, fermo restando il carattere unico della giurisdizione ordinaria, va precisato che la prefata soluzione al problema deve presupporre anche l’indefettibile obbligo della presenza di due distinti spazi legali, ossia di due organismi istituzionali differenti (sostanzialmente per intenderci due CSM) per ciò che attiene alle nomine, alla giustificazione degli errori giudiziari ed agli avanzamenti di carriere onde evitare che come oggi avviene per l’unico CSM che si pone, purtroppo in termini di tutta evidenza, quale espressione di non corretto rassemblement correntizio preordinato, nella migliore delle ipotesi, a generare carriere personalizzabili.

Il disegno di legge in atto in discussione, infatti, prevede non soltanto la riscrittura di ben sette articoli della Carta con la introduzione disciplinare della separazione, distintiva e chiaramente delineata, tra le carriere dei giudici e quella dei P.M., ma anche, giusta quanto sopra da me accennato, la determinazione di due CSM: uno quale organo riferito alla magistratura giudicante e l’altro messo a punto per la magistratura requirente e, cosa di non poco conto, ambedue presieduti dal Capo dello Stato.

Entrambi i nuovi CSM saranno deputati a delibare sulle assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità ed il conferimento delle correlative funzioni.

Il giudizio e l’irrogazione dei provvedimenti disciplinari – sempre secondo il disegno di legge in esame davanti ad entrambi i rami del Parlamento - spetteranno invece ad una Alta Corte disciplinare (nuovo organismo costituzionale) i cui membri al pari di quelli dei due CSM durano in carica per un quadriennio.

Una riforma obiettivamente prudente, che non si dimentichi, in tutti e tre gli organismi costituzionali sopra indicati, prevede a garanzia dell’ordine magistratuale la prevalenza numerica di togati sui membri laici.

Il risultato di tale intervento, però, sarà che, in buona sostanza l’ordinamento costituzionale, con la separazione delle carriere esprimerà maggiori garanzie nei confronti dei cittadini in quanto la realizzazione di tale separazione verrebbe ad aggiungere una preziosa tutela in più rispetto all’attuale, imperfetto stato dell’arte.

E nel sistema proprio dello Stato di diritto va sottolineato che l’aumento del numero delle garanzie, peraltro connaturata e correlata alla natura stessa dei soggetti che devono applicare la legge, si connota, senza se e senza, come cosa buona e giusta!  

Distinguere, infatti, la magistratura requirente da quella giudicante, porre su un piano di effettiva paritarietà accusa e difesa e rendere concreta nel processo la garanzia del giudice realmente terzo, non soltanto riflette una necessità di ordine tecnico, ma soprattutto mette in pratica un atto di grande civiltà giuridica.

A tutto ciò va additivamente aggiunto che è ormai tempo di riconoscere la improcrastinabile necessità di riconoscere la figura dell’avvocato come potere dello Stato, in quanto, nell’esercizio del suo ministero, egli si pone quale esaltante custode del principio di legalità ed infungibile attore per la piena affermazione del paradigma valoriale più alto e nobile che lo Stato di diritto possa esprimere: la Giustizia.     
 

Qualche non peregrina riflessione in tema di responsabilità

E’ di tutta evidenza che l’attuale normazione è frutto di palese elusione di quella che invece era stata la volontà popolare espressa a seguito del referendum di iniziativa radicale del 1987, peraltro suffragato dal consenso di oltre l’80% degli italiani, ed il cui obiettivo era stato quello di consentire al cittadino che si fosse ritenuto colpito e danneggiato da una decisione riconosciuta affetta da dolo o colpa grave, di conseguire, da quel magistrato responsabile di quel provvedimento, il giusto risarcimento dei danni che a quella sfera giuridica soggettiva il medesimo aveva arrecato.

Come è, altresì, a tutti noto - e sempre per quell’endemico connotato di viltà che ha costantemente ed in ogni tempo caratterizzato l’azione del potere politico - il Parlamento – mediante l’approvazione della L. n°117/1988 - ha scientemente scelto e prospettato - attraverso una sofisticata ermeneusi dell’art.28 della Carta ed all’unico malcelato fine di vanificare l’esito referendario di cui sopra – per i magistrati e per suppostamente non incidere sulla loro indipendenza, una forma di responsabilità indiretta in considerazione, ma non in ragione, della loro funzione istituzionale.

A tale primigenia normazione è seguita quella postulata dalla L. n°18/2015 che ha consolidato l’affermazione del principio della responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato

Tale modello non appare abbia funzionato o prodotto risultati apprezzabili se è vero come è vero che l’arroccarsi attorno al bastione rappresentato dalla ectoplasmatica clausola postulata dall’attuale normazione secondo la quale  “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e della prova” significa impedire in radice la configurazione ed il riconoscimento in capo al magistrato di qualsivoglia ipotesi di  responsabilità civile, obliando, però, che è proprio l’esercizio della “valutazione del fatto e della prova” a caratterizzare e qualificare l’essenza stessa del lavoro del magistrato. Ed in ragione di tale peculiare esercizio di funzione, correlato alla prefata delicata attività di cui risulta attributario, domando e mi domando perché mai il cittadino danneggiato dall’evidente, errato processo di valutazione non possa legittimamente, chiederne conto all’autore dell’errore medesimo?

Sempre in ordine al discratico malfunzionamento del modello de quo va altresì segnalato come la normativa in essere sotto il profilo strutturale si è dimostrata un autentico flop.

A tal proposito è appena il caso di riferire – ed i numeri come si sa non mentono – che ad oggi sono stati soltanto dodici i magistrati ad essere stati, per l’effetto (responsabilità), condannati con questa legge, che, peraltro, non si dimentichi prevede una rivalsa indiretta nei confronti delle toghe. Come si è già avuto modo di ricordare, infatti, il cittadino inciso evoca in causa lo Stato e non il portafoglio del magistrato il quale al più sarà oggetto di un secondo procedimento intentato dalla P.A. e del quale, peraltro, la presunta vittima non avrà mai contezza. Di fronte a tale stato di cose ed alla tortuosità ricercata dei meccanismi di approccio non esito a dire che di fatto l’azione risarcitoria risulta del tutto impraticabile, con buona pace per la concreta realizzazione sul piano effettuale dell’agognato principio di avere finalmente una Giustizia Giusta.

Stabilire con legge che la responsabilità del magistrato non si possa e non si debba ricondurre ad una formula meramente astratta ritengo sia una ineludibile necessità di sistema, anche in ragione del fatto che il magistrato è titolare di un enorme potere e se non lo esercita con imparziale proprietà è corretto che ne risponda direttamente, tanto sul piano della carriera che su quello disciplinare che su quello contabile.  
 

L’attuale condizione fattuale di impunità del magistrato

La singolar tenzone tra quelli che in altra parte di questo intervento ho definito i pugnatori del momento, si acuisce viepiù in ragione del fatto che il CSM si è affrettato, di recente, di individuare nella maggioranza qualificata dei due terzi dei consiglieri il numero indispensabile per avviare ogni processo di valutazione “della capacità dei magistrati” e segnatamente per stabilire quando il comportamento della toga inquisita debba essere ritenuto “gravemente carente”. In buona sostanza un altolà bello e buono ad una seria verifica dello stato di professionalità del magistrato e che fa da non esaltante pendant con l’effettuale e non fisiologica circostanza dell’alta percentuale (il 99%) dei giudizi positivi di cui risultano beneficiare le toghe medesime da parte del CSM.  A questo aggiungasi come la evidente non neutralità del descritto sistema di valutazione risente, altresì, in maniera decisiva dell’ulteriore e non sottacibile considerazione che il giudizio di professionalità così come viene in atto reso si connota quale malcelata espressione volta a creare un paradigma di immunità bella e buona (todos caballeros) a vantaggio delle toghe stesse ed a scapito e sulla pelle della gente e con la connivenza colpevole del potere politico che non riesce ad imprimere una autentica e salutare svolta al complesso del problema. 

Il mantenimento dello status quo, infatti, non garantisce altro che il consolidamento di un immobilismo senza fine e senza storia. La Giustizia Giusta è un paradigma che coniuga sul piano effettuale efficienza, efficacia e trasparenza. In ragione di ciò e rispetto all’urgenza del problema appare irragionevole ed anacronistica la posizione dell’ordine giudiziario che, nella sua forma associazionistica, si oppone con atteggiamento oscurantista e démodé ad ogni vento di novità, giacché esso non tiene in debito conto che se è vero che la magistratura deve essere indipendente dal potere politico è altrettanto vero che essa deve essere oltre che apparire indipendente anche rispetto a sé stessa.   

Riprova ne è che rebus sic stantibus la presenza nel CSM di una sezione disciplinare la quale nella sua composizione maggioritaria è costituita da persone che vengono elette dagli stessi magistrati; situazione questa che determina un vincolo tra elettore ed eletto che suscita nel cittadino una percezione obiettiva di non imparzialità.

Infatti, perché l’ordine giudiziario non soltanto deve essere imparziale, ma deve anche essere avvertito come tale, occorre procedere ad una compiuta riforma di sistema, giusta quanto in altra parte di questo scritto esplicitato che si ponga come antidoto, quale giusto correttivo della distorsione declinata.      

La riforma, al di là dell’intervenuto conflitto fra le opposte fazioni, ritengo, proprio in ossequio al rispetto che le istituzioni devono al cittadino, costituisca un dovere per l’establishement viepiù che trattandosi di modifica della Costituzione probabilmente ci sarà bisogno di un referendum che non sarà contro l’una o l’altra parte in commedia, ma a favore dell’insopprimibile necessità di garantire l’esigenza valoriale di una Giustizia effettivamente Giusta.

Infatti se come appare probabile la riforma verrà probabilmente sottoposta, in ragione del complesso meccanismo procedimentale proprio del procedimento di revisione costituzionale, al vaglio del popolo attraverso l’esercizio dello strumento referendario nessuno potrà dolersi del giudizio che i cittadini espliciteranno con il loro voto.

La riforma così come concepita, infatti, non è e non appare come intervento punitivo nei confronti di chicchessia e non è, ictu oculi, espressione di furore ideologico alcuno. Non persegue punizioni e conflittualità di guisa che non si riesce a comprendere perché mai essa sia tanto sgradita all’ordine giudiziario, atteso che si presenta quale vera ed irripetibile occasione di crescita culturale che rafforzerà il rapporto tra i cittadini e gli organi di amministrazione della giustizia, affinché quest’ultimo valore non sia percepito soltanto come momento di rigore ma anche e soprattutto considerato quale espressione di decisa equilibrati ed imparziali i quali, per ciò stesso, renderanno i giudici autenticamente più forti e la collettività certamente più fiduciosa e serena nell’esigenza di ricevere tutela.

Se tale è il contesto concettuale, appare chiaro ed evidente l’anomalo e non fisiologico atteggiamento dell’organismo associativo della magistratura per il semplice motivo che, in materia di riforma della giustizia, non è legittimo né lecito che l’ANM si possa porre, neppure sul piano della mera astrazione, quale controparte di nessuno e meno che mai del Governo minacciando, addirittura, di poter essere essa associazione ad organizzare l’eventuale referendum abrogativo.   

Risolvere il problema delle ingiuste detenzioni - la cui entità numerica è stata falsamente paradigmata  soltanto in ragione degli indennizzi corrisposti dallo Stato e non già del dato reale rappresentato anche da chi a tale indennizzo non ha avuto accesso – e, quindi, con l’insano effetto di ridurre strumentalmente e significativamente il numero degli innocenti finiti in cella o ai domiciliari e poi prosciolti, talvolta senza neppure passare per le forche caudine di un processo, è condizione basilare per dare riscontro alla collettività del buon operare del sistema Giustizia nonché per ridare alla magistratura lo smalto e la credibilità che sono ad oggi sensibilmente venuti meno anche per responsabilità endogena di una giurisdizione spesso e volentieri prosopagnosica.

L’associazionismo giudiziario deve convincersi, una buona volta per tutte, che il più che probabile esito referendario sarà la chiave di volta, il riscontro semplice e tranchant alla soluzione del problema.

 La difesa di oscurantiste posizioni arroccate sul mantenimento di uno stagnante stare decisis che ha dimostrato sin qui tutte le proprie disfunzionalità e, cosa ancor più grave, di dare una caratterizzazione effettivamente politica all’azione delle correnti che purtroppo coesistono, sia pur con sfumature diverse, all’interno del fenomeno associazionistico in essere, legittimano l’evidente calo di credibilità che la magistratura registra in seno all’opinione pubblica.

I procedimenti di revisione costituzionale previsti dall’art.138 della Carta non sono contro la Costituzione, bensì servono a migliorare la stessa ed a renderla più efficace ed aderente ai tempi con buona pace di chi tenta di avversarli.

Qualunque tentativo di resistenza alla esigenza di riforma del sistema Giustizia fondato esclusivamente sul principio d’ordine rappresentato dallo stantio ed ideologico rito della scomunica delle ragioni dell’avversario, non rappresenta altro che il fragile vessillo di chi non ha più argomenti.

Una ulteriore, considerazione a chiusura di queste mie riflessioni sull’orrore della incomprensibile pugna in atto, si impone quale momento assolutamente necessario per l’esaltazione del concetto stesso di Giustizia.

Infatti giusta quanto sostiene un antico proverbio cinese è a forza di pensare ai fiori che i fiori crescono.

La forza del pensiero non recluso, inteso nella sua accezione più nobile, al pari del volo degli aironi, conferisce forma, forza e sostanza, agli unici irrinunciabili valori riconnessi all’essere cittadino in uno Stato liberale e democratico: la libertà ed il diritto di poter godere, in termini di reale effettività, di una Giustizia Giusta.