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L’insostenibile gravità esegetica dell’ingannevole modello giudiziario della prevenzione penale

Giustizia
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L’anelito di una giustizia giusta

San Tommaso continua, ancora oggi, ad insegnare a tutti noi come la concezione di una idea di giustizia senza misericordia si risolve soltanto in una (inutile) manifestazione di crudeltà soprattutto allorquando la sua espressione applicativa - come peraltro con inusitata frequenza avviene nell’attuale realtà cronotopica - appare frutto arbitrario e non razionale di un potere esercito da un apparato che - in forza dell’invero ingiustificato dogma della c.d. emergenza sociale permanente - trasforma l’eccezione nella regola che insensibilmente pretermette il sospetto - che così assurge a fondamento dell’intero momento metodologico di prevenzione - alla prova e che consente, ribaltando il principio costituzionale di non colpevolezza, di confiscare beni ed aziende persino in assenza di un giudicato, in nome di un’astratta e spesso demagogicamente supposta lotta alla criminalità organizzata con l’avallo cieco di un nefasto meccanismo burocratico e politico-giudiziario che si sviluppa incoerentemente al di fuori di ogni controllo di legalità e di merito, peraltro, ribadisco non fisiologicamente alimentato da un articolato e pedante sistema di confische e di sequestri che ha contribuito a delineare il modello organizzativo di riferimento, nel suo complesso sempre più giustizialista ed autoritario in ragione del fatto che il connotato del sospetto viene considerato quale paradigma privilegiato di collegamento idoneo a giustificare qualsivoglia limitazione della libertà individuale in nome di una, in verità, assolutamente immaginifica – e più artatamente supposta che reale - retorica dell’emergenza sociale tutta tesa ad inserire quale momento strutturale ed ordinario del sistema giustizia misure provvedimentali eccezionali e contingenti che si possono – e forse neppure - giustificare soltanto in momenti di particolare allarme sociale.

E questa bieca narrazione dell’emergenza sociale determina, nell’indifferenza collettiva, un ingiustificato vulnus alle garanzie liberali postulate dallo Stato di diritto che devono, sempre e comunque, essere preservate all’iconico fine di dare risposte univoche e corrette ai principi ordinatori ed alle responsabilità che la Costituzione individua quali paradigmi di riferimento necessari, indispensabili ed ineludibili, ad assicurare la garanzia della giusta valutazione dei risultati ai quali deve teleologicamente tendere ogni funzione pubblica degna di rispetto.

Un diritto penale di stampo liberale, infatti, per sua genesi concettuale non confisca ai propri consociati innocenti, ovvero persino assolti, proprietà ed aziende, neppure utilizzando additivamente, come si fa in questi tempi non certo felici sotto il profilo delle garanzie, il principio della sperequazione tra il valore dei beni posseduti e quelli dichiarati quale indizio probante dell’illiceità della ricchezza; il tutto con l’ausilio di distorti e spesso di improbabili algoritmi a supporto e validazione del ricordato, non condiviso, improprio ed ectoplasmatico connotato, da ripudiare, del “sospetto” di una spesso non dimostrata quando addirittura ormai, comprovata per acta, cessata pericolosità.

Per non sottacere, poi, delle nubi (talvolta anche di carattere corruttivo) che hanno visto coinvolte le amministrazioni giudiziarie spesso incapaci, per l’incolore qualificazione dei soggetti indicati quali amministratori, di produrre risultati economici producenti. Non è un caso raro, infatti, che il loro non qualificato ed adeguato pedigree professionale sul piano manageriale conduca - a causa di una gestione tecnicamente ed oggettivamente non adeguata - le aziende sequestrate al fallimento imprenditoriale o alla loro crisi economica.

Non è, poi, ancora pleonastico rimarcare l’obiettiva e non contestabile evidenza del fatto che il ricorso, ormai con tanto facile frequenza disposto dall’A.G.O., all’amministrazione giudiziaria mette altresì – e questo è momento di non poco conto proprio sul piano della sostanza giuridica – in crisi il già sopra ricordato principio costituzionale della presunzione di innocenza, con la conseguenza, che allorquando si assumono provvedimenti giustiziali che vanno ad incidere sul patrimonio dei cittadini, senza che sia stata definitivamente provata la loro colpevolezza, si assiste al rovesciamento artato dell’onere della prova, con l’aberrante effetto che, in simili evenienze, grava sul sospettato dimostrare la legittimità del proprio operato e non già all’A.G.O. di dimostrare il contrario.

In buona sostanza – utilizzando anche all’attualità il meccanismo metodologico della gogna mediatica denunciato dall’impareggiabile saggio della “storia della colonna infame” di manzoniana memoria - si giunge all’insana conclusione di far assurgere, in modo metagiuridicamente automatico, il sospetto al rango di prova. E ciò, in termini di tutta evidenza non ha nulla a che spartire con i principi ed il sistema di garanzie propri del diritto penale di una democrazia matura!


L’inquadramento dogmatico dell’istituto delle misure di prevenzione nell’attuale quadro sistemico

Come è noto le misure di prevenzione costituiscono un paradigma della c.d. “penalità”; grafema concettuale, che, però, ex se, si presenta, ontologicamente diverso tanto dalla pena che dalle c.d. misure di sicurezza e la cui fisionomia identificativa, oserei dire, assume una connotazione talmente peculiare da poter essere obiettivamente meglio definita all’interno del panorama giuridico come figura del tutto eccezionale.

Infatti ad un’analisi ermeneutica corretta detto istituto, unitamente alle misure di sicurezza, fonda la propria ragion d’essere non già sul concetto di responsabilità per un’azione delittuosa commessa in precedenza, bensì su una ipotesi concettuale legata al “pericolo” dell’evenienza di un reato che potrebbe essere commesso nel futuro.

In buona sostanza le misure di sicurezza e quelle della prevenzione divergono dalla pena perché, a differenza di quest’ultima, entrambe sono palmare espressione del presupposto giuridico fondamentale secondo il quale esse attengono non già ad una ipotesi di responsabilità del destinatario, bensì alla supposta sua pericolosità. Il dato peculiare e distintivo, poi, delle misure di prevenzione - situazione per quanto in questa sede di analisi - proprio per fondare la loro genesi nella pericolosità dell’inciso prescindono dall’accertamento del fatto.

Non è, altresì, inutile riferire che esse proprio per la circostanza che fondano la loro ragion d’essere sulla pericolosità, in uno con il mancato accertamento del fatto, posizionano dogmaticamente siffatte misure addirittura al di là del limite proprio della penalità, e persino ben oltre al perimetro delle misure di sicurezza le quali, ancorché fondate sul principio della pericolosità non possono mai prescindere dall’accertamento del fatto reato.

Non è comunque pleonastico, a scanso di equivoci, pensare che possano sussistere dubbi di sorta sotto il profilo della legittimità costituzionale dichiarata, del pieno ed assoluto riconoscimento di cui dette misure di prevenzione godono nell’ordinamento interno anche se, per vero – e ciò non va dimenticato - le ragioni che hanno condotto il Giudice delle leggi, a salvare dette misure di prevenzione, dal sindacato di illegittimità costituzionale, sono esclusivamente incentrate sulle finalità “politiche” che ne costituiscono il fondamento piuttosto che la considerazione delle conseguenze reali che si riverberano sulla vita delle sfere giuridiche soggettive che, a torto o a ragione, ne sono incise.

Invero, non è inutile, a tal proposito, ricordare che ormai troppo spesso (almeno da venti anni a questa parte) anche la Consulta svolge un ruolo che obiettivamente non è previsto per essa dalla Carta, e cioè quello di operare le sue valutazioni sulla scorta del c.d. “bilanciamento dei diritti”; tecnica questa che è ormai divenuta pratica comune alle sentenze della Corte, allorquando si discute di interventi che afferiscono a questioni che coinvolgono l’interesse dei singoli. Esso giudice delle leggi, infatti, oggi esercita (a mio avviso impropriamente) la sua valutazione con lo scopo di mantenere in equilibrio i c.d. “interessi costituzionalmente rilevanti”, con la ulteriore non fisiologica implicanza di giungere ad attribuire ai prefati interessi una più pregnante importanza rispetto ai diritti; operazione questa che dissimula, però, stricto jure, una non corretta soluzione di opportunità politica (è il caso paradigmatico di tutta la legislazione c.d. emergenziale).  

Non sfugge, infatti, ad una sana e rigorosa ermeneusi come il bilanciamento di qualsivoglia diritto fondamentale sia da considerarsi – tanto sotto lo spaccato giuridico che sotto il profilo ontologico - operazione tecnica impossibile, atteso che nessuno dei diritti riconosciuti universalmente come fondamentali, può essere mai, in alcun modo e misura, gerarchizzato o compresso rispetto a qualsivoglia altro diritto di eguale rilevanza. Pertanto quanto oggi accade con le decisioni del Giudice delle leggi in materia di legislazione emergenziale costituisce una più che evidente invasione di territori che non gli appartengono, perché il medesimo non può, di certo, autonomamente spogliarsi del ruolo giurisdizionale assegnatogli dalla Carta per divenire quasi un terzo organo legislativo.

Invero, anche la natura c.d. “ripristinatoria” che astrattamente connota la misura, non può essere considerata effetto disgiunto dal connotato di afflittività viepiù che tale condizione di concreto avvilimento presenta una non irrilevante incidenza sui valori in gioco, soprattutto nell’ipotesi, spesso non peregrina, in cui l’accertamento giustiziale (sentenza) rileva l’assoluta assenza di reato alcuno.

Purtuttavia ed al di là del verificarsi della superiore considerazione (assoluzione dell’inciso), va, comunque, sottolineato che è proprio l’indiscutibile carattere di legittimità che accompagna l’istituto a indicare il reale livello di guardia entro il quale va contenuta la misura di prevenzione che per sua intrinseca ed estrinseca connotazione dogmatica non può di certo esondare rispetto appunto alla eccezionalità del suo carattere e che, quindi, non può prevedere nel modo più assoluto di tralignare, sempre e comunque sino al punto, da giungere all’apodittico risultato dell’estensione della confisca a tutte le tipologie di soggetti c.d. pericolosi, anche perché la misura di prevenzione che si dovesse concretizzare con un provvedimento di confisca afferisce non soltanto alla sfera patrimoniale tout court ma si estende anche all’aspetto riconnesso all’attività lavorativa nonché - cosa eticamente ancor più rilevante - alla dignità personale e sociale dei soggetti coinvolti.

La prudenza ermeneutica impone, agli operatori del diritto - siano essi giuristi, magistrati o avvocati nell’esercizio della quotidiana e puntuale analisi delle spesso non semplici fattispecie concrete di esame - di non dimenticare mai che le ricordate misure di prevenzione sono pur sempre strumenti di gestione della patologia, comunque di carattere eccezionale, che vanno maneggiati con cura, con coscienza civile e senza il ricorso a demagogiche applicazioni. Infatti non appare inutile, a mio avviso, porre in risalto che spesso la loro irrogazione risulta del tutto svincolata da una vera e propria esigenza sociale, ma si pone piuttosto quale espressione di una non rara ed irriflessa esigenza degli organi cui la legge attribuisce in via esclusiva il cd. potere punitivo che strumentalizza, quale momento talvolta fuor d’opera, forme di controllo che si sostanziano prima ed al di là dei reati; il tutto facendo riferimento ad astratti principi formali e processuali, obliando di considerare che tanto il concetto di legalità quanto quello del processo non costituiscono, come è noto, ex eis garanzia di alcunché. E ciò perché gli elementi indiziari che vengono impiegati per formulare l’astratto criterio di pericolosità, sia essa di tipo generico che di tipo specifico, sono tutti fortemente se non esclusivamente incentrati sul sospetto della commissione di un reato a cui si aggiunge additivamente il necessario e non eludibile requisito della pericolosità sociale meglio e più opportunamente definito quale giudizio di certa attualità della ricordata pericolosità.

Va, inoltre, altresì ermeneuticamente considerato che la situazione indiziaria, di per sé, non si traduce necessariamente ed automaticamente in fattispecie configurabili ipotesi di reato, di guisa che un’attenta analisi – non guidata da furia iconoclasta di sorta – non può prescindere dalla non secondaria considerazione che non si può condurre lotta alcuna alle pulsioni malavitose conculcando i principi (inviolabili) dello Stato di diritto e non rispettando la libertà dei cittadini, viepiù in ragione dell’assioma che non sussiste, sotto il profilo della realità, alcun bene che ex se non possa produrre comunque effetti (profitti) leciti, anche attraverso la gestione affidata ad amministratori giudiziari. Opinare in senso contrario significherebbe produrre o quantomeno avallare la nefasta conseguenza di impedire di far conseguire ai beni stessi l’intrinseca, ineludibile loro programmatica esigenza di assolvere ad una funzione sociale che, incontestabilmente, è, in radice, nelle loro corde.  

La questione non è di poco momento atteso che se siffatto giudizio dovesse risultare assente le misure di prevenzione si verrebbero a connotare come un succedaneo del diritto penale sostanziale, ovvero si applicherebbero all’inciso sanzioni a fatti rispetto ai quali mancherebbe la prova. La pericolosità senza la correlazione all’essenziale requisito dell’attualità attenua anzi mette addirittura in crisi il complessivo sistema delle misure di prevenzione.

Infatti se tale requisito della pericolosità risulta del tutto assente in termini di tutta evidenza si deve giungere alla conclusione che le misure di prevenzione de quibus non andavano, non vanno e non possono essere applicate, a meno di non considerare (del tutto erroneamente) il fatto che le medesime possano assurgere (e ciò è tecnicamente impossibile) al rango di sanzioni correlate a fatti non provati, con l’ulteriore ontologicamente impropria implicazione di ammettere la conseguenza (vietata dalla legge) di ritenere possibile – si ribadisce  contra jus – colpire anche soggetti rispetto ai quali non si è in grado di provare alcuna delle astrattamente ed impropriamente dichiarate responsabilità.

Va, altresì, ancora ulteriormente soggiunto che il giudizio di pericolosità non può essere declinato soltanto in modo disancorato dalla realità, atteso che per la sua configurazione sono indispensabili: a) l’accertamento di un fatto; b) la pericolosità teorica; c) la c.d. precedente attività delittuosa, rectius la comparazione tra precedenti e fatto accertato. Da quanto evidenziato si deduce agevolmente che i punti problematici riconnessi alla legittima possibilità di esistenza della pericolosità e della sua attualità sono sostanzialmente due: 1) il modo in cui sono utilizzati i precedenti; 2) la mancanza di accertamento di un fatto.

Alla luce delle superiori considerazioni si ricava dunque - con agevole linearità e senza possibilità di ermeneusi di segno contrario - che le valutazioni dei ricordati precedenti inducono ad individuare il momento centrale per la determinazione del giudizio di pericolosità, ai soli precedenti indispensabili per sostenere il sospetto, atteso che questi ultimi non possono non attenere che a fatti già accertati i quali, in qualche modo e misura, in termini reali ed effettivi, danno sostanza al simulacro qualificante il sospetto a cui, non si dimentichi, va additivamente aggiunto l’ineludibile paradigma oggettivo in forza del quale l'azione di prevenzione criminale, deve comunque essere necessariamente e coerentemente supportata, pena la sua illegittimità, anche sul piano delle garanzie procedimentali.

E ciò perché anche in un tempo tanto infelice, connotato da tutele obiettivamente attenuate, come l’attuale, non è consentito al giudice, sia esso penale che amministrativo (in materia di interdittive), l’esercizio di alcun sindacato giustiziale che possa prevedere l’applicazione della misura di prevenzione nei confronti dell’inciso in forza di semplici congetture motivate su ipotesi di mera ed astratta possibilità. Evidenza ne è che, anche di recente, la Suprema Corte di Cassazione (Sez. I penale con sentenza dell’11.4.2023 n°15156) ha paradigmaticamente stigmatizzato quale “esempio di fallacia per generalizzazione” l’irrogazione giustiziale di misure di prevenzione non supportata da concrete considerazioni fattuali, sicché ogni decisione assunta in spregio a tale obbligo ermeneutico va senza indugio disattesa e respinta, perché non ammissibile per la sua assoluta dogmatica implausibilità.

Da qui l’assoluto ed indefettibile obbligo del giudice di dover motivare la propria attività provvedimentale non soltanto sotto lo spaccato della pericolosità sociale, bensì anche sotto il profilo dell’attualità di tale declinato status di pericolosità.

Va, ancora, altresì, soggiunto che l’accertamento della pericolosità sociale nel procedimento per la proposta della misura patrimoniale va considerato elemento fondante ed imprescindibile, al fine di verificare - nell’arco temporale preso in considerazione - la reale e non generica sussistenza e dimostrazione dei singoli fatti e degli atti di incremento patrimoniale ritenuto frutto di illiceità; fatti ed atti i quali non possono giammai essere ritenuti supposti ma vanno puntualmente identificati, indicati ed analiticamente dimostrati come operazioni suscettibili della valutazione di illecita provenienza dei beni stessi, sia con riferimento alla c.d. pericolosità generica che a quella definita come qualificata, atteso che entrambi i ricordati profili di pericolo presuppongono comunque e senza possibilità di ermeneusi di segno contrario, la determinazione della loro collocazione nel tempo, soprattutto con espresso riferimento alla indispensabile individuazione del termine finale di manifestazione concreta della ricordata pericolosità.  

La superiore specificazione concettuale si rende viepiù necessaria anche in considerazione dell’obiettiva evidenza che molto spesso nei decreti delle Sezioni Misure di Prevenzione dei Tribunali italiani la proposizione motivazionale adottata appare espressa in termini di palese contraddittorietà, laddove si evidenzia, purtroppo con estrema e lacunosa genericità che la condizione di pericolosità si evince “… dall’intero percorso esistenziale di vita dei proposti … nonché dal prospetto sperequativo espresso dall’Organo proponente”.

Invero malgrado i Tribunali spesso abbiano correttamente, richiamato la pronuncia delle SS.UU. della Cassazione n°40778/2021 e cioè il principio dicotomico secondo il quale va distinto il rapporto di pericolosità qualificata da quello della pericolosità sociale, purtroppo, con altrettanto non entusiasmante frequenza, detti Organi giustiziali non si sono peritati e purtroppo continuano a trascurare, nelle fattispecie sottoposte al loro esame, di evidenziare le differenze (sostanziali) tra i due momenti dogmatici, ma apoditticamente fanno prevalere l’aspetto non meglio definito “del c.d. percorso esistenziale degli incisi” assumendo quale elemento additivo della loro decisione il presupposto della sussistenza del momento sperequativo anch’esso in realtà, in tante occasioni soltanto supposto ma non concretamente verificato. A tal proposito non appare inutile ricordare come anche questo secondo leitmotiv della sperequazione il più delle volte, se non nella totalità dei casi, si appalesa stricto jure come un fuor d’opera, in considerazione dell’obiettiva evidenza che la delineata configurazione strutturale di siffatto, in termini generici, richiamato costrutto non appare altro che il frutto di un’astratta ed impropria operazione matematica privo di pregio giuridico alcuno a cui viene strumentalmente riconnesso un effetto aggregativo insussistente, sia avuto riguardo alla realtà delle cose, sia anche alle improprie considerazioni statistiche sulle quali pretenziosamente fa leva.

A tutto ciò non è pleonastico aggiungere, e non soltanto sotto il profilo strettamente dogmatico ma anche sul piano dell’evidenza del reale al fine difensivo legittimo di disarticolare l’insieme dell’improprio costrutto attraverso il quale, in sede di applicazione della misura di prevenzione, si presume di sorreggere la pretesa provvedimentale – come la confisca di prevenzione reca ex se il non dissociabile connotato dell’ablatorietà correlato alla sussistenza della (non soltanto supposta) presunzione che i beni presi in considerazione nell’ambito di “un processo al patrimonio” siano frutto di azioni illegittime o illecite.

Va, poi, ancora soggiunto, per completezza di pensiero, che il connotato dell’ablazione sopra richiamato, tecnicamente non costituisce mai una sanzione, ma si sostanzia quale provvedimento penale sui generis che si configura, al più, quale naturale - che però, attenzione, va compiutamente e puntualmente dimostrata - conseguenza dell’ipotesi di illecita acquisizione di beni.

Non appare inutile ricordare – e ciò dovrebbe rientrare nel patrimonio culturale anche del meno sofisticato dei giuristi – e, quindi, giungere alla non contestabile conclusione ermeneutica, che perché sia giuridicamente possibile l’applicazione della misura di prevenzione, oltre al presupposto soggettivo della pericolosità sociale di coloro che vengono incisi e dell’accertamento, in capo agli stessi, occorre accertare anche la concreta e reale sussistenza dei presupposti c.d. oggettivi (così come delineati e postulati dagli artt. 20 e 34 del D.lgs n°159/2011 e ss.mm.ii., e cioè: a) la disponibilità dei beni da parte del preposto, b) la sufficienza quantomeno indiziaria della provenienza attendibilmente illecita dei beni. Requisiti che il più delle volte mancano o sono insufficientemente evidenziati nella maggior parte dei provvedimenti di applicazione delle misure di prevenzione.

Necessità di una maggiore riflessione sulla spesso evidente inopportunità tecnica di ricorrere all’adozione dell’istituto delle misure di prevenzione sopra analizzato.

Secondo quanto già prospettato nel superiore paragrafo di questo mio intervento relativo all’inquadramento dogmatico dell’istituto misura di prevenzione, ritengo utile segnalare che nell’attuale realtà cronotopica siamo di fronte ad un modus operandi connotato, e non con ragione - sia in ambito amministrativo che sotto lo spaccato meramente giudiziario - dalla volontà di affrontare il tema del contrasto al fenomeno criminale o criminogeno che dir si voglia, utilizzando a piene mani, se non anche pressoché esclusivamente, istituti che si configurano quale riflesso diretto di una legislazione di carattere marcatamente emergenziale (cfr. D.Lgs n°159/2011 e ss.mm.ii.).

La tendenza dilagante riconnessa alla c.d. panpenalizzazione degli illeciti, unita alla obiettivamente non fisiologica assimilazione (in termini di afflittività) di un - in realtà più supposto che reale - postulato tristemente tipico di un’emergenza legislativa che si snoda infelicemente tra sanzioni amministrative, misure preventive e sanzioni penali, ha raggiunto livelli nei quali la certezza (rectius l’attendibilità) del diritto risulta sempre più minacciata ed i casi di errori di valutazione giustiziale a danno di sfere giuridiche soggettive non correttamente incise rischiano di crescere in modo e misura irragionevolmente esponenziale, peraltro senza alcuna utilità sociale.

Si può mai, però, domando e mi domando, nel giudizio di prevenzione, ignorare che la prova sia pure indiretta ovvero indiziaria non debba essere ragionevolmente sorretta dai caratteri della gravità, precisione e concordanza postulati dall’art. 192 c.p.p. (valutazione della prova) e che possa, comunque, andare esente dai necessari riscontri individualizzanti? E’ mai possibile dar credito ad una simile, innaturale e metagiuridica stortura?

In verità, questo strumento operativo che sul piano effettuale nasce come già detto, in altra parte di questa ormai lunga mia riflessione, quale ipotesi applicativa di carattere preventivo e peraltro del tutto residuale rispetto al momento di penalità, in buona sostanza si pone quale comodo, ancorché privo delle normali garanzie procedimentali, éscamotage giuridico per aggredire i patrimoni anche solo suppostamente ritenuti illeciti.

In realtà, in questa non lineare operazione tecnica si giunge addirittura all’assurdo di fare a meno della valutazione, anche solo prognostica, persino del connotato di pericolosità futura del soggetto destinatario del provvedimento di prevenzione. Non è inutile riferire, però, che così intervenendo la misura stessa – e ciò è persino contraddittorio con il quadro normativo di riferimento perché genera un patologico ed ibrido percorso di disallineamento ordinamentale anche rispetto ai principi ed ai valori costituzionali - viene a perdere la sua funzione tipica e peculiare, che è quella del carattere eccezionale e preventivo, cui la medesima è, nella ratio legis, preordinata, per tralignare nell’ambito di caratteri e connotati più marcatamente sanzionatori del tutto non riconnessi, e comunque, ictu oculi, tecnicamente non riconducibili, alla sua configurazione dogmatica. E ciò va, senza reticenza alcuna, sottolineato, non è obiettivamente normale e non conferisce dignità e prestigio a chi da giurista è chiamato all’assunzione di siffatta attività di tipo provvedimentale.

Riprova ne è che l’aver consentito di procedere alla confisca in modo disgiunto dalla misura di prevenzione personale ha sostanzialmente trasformato la confisca medesima in una occasione certamente non fisiologica per reprimere l’illiceità vera o presunta dei profitti.

Siffatto procedere è, in termini di tutta evidenza, impropriamente funzionale alla regressione del processo penale (la regola) a vantaggio di quello che dovrebbe, invece, essere considerato (misura di prevenzione) un surrogato, sia pur nobile nelle intenzioni, utile per comunque giungere a recuperare le conseguenze patrimoniali del processo attraverso la conclamata asistematicità dell’azione di prevenzione che, intuitivamente, non si fonda sulla intangibilità dell’accertamento della reale pericolosità degli incisi, bensì sulla sostanziale instabilità del giudicato e sull’in verità improprio riconoscimento che addirittura consente l’esercizio dell’azione di prevenzione anche soltanto su nuovi presupposti di fatto per i motivi tutti ampiamente evidenziati.

Va altresì, infine sottolineato come dissociare le misure di prevenzione dal sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto conduce all’assurda conclusione di contribuire - attraverso l’adozione impropria delle medesime - a snaturare - e senza un reale perché di ordine logico e tecnico-giuridico - il vero fulcro dell’azione penale costituito dal processo.