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I processi normativi volti ad evellere il funzionarismo della burocrazia non devono essere ostaggio del conformismo di fazione

burocrazia
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Le ragioni di debolezza strutturale dell’attuale quadro sistemico

L’annunciata catastrofe di Casamicciola che testimonia ancora una volta ed in maniera plasticamente icastica il demenziale stato di sfascio funzionale ed organizzativo in cui versa l’Italia di oggi, mi induce a riflettere, ancora una volta, sullo spinoso leitmotiv della burocrazia e della sua semplificazione procedimentale. Il nostro è un Paese fragile, afflitto da un’articolata condizione di dissesto geologico che genera terremoti, esondazioni, piene, alluvioni. Siffatta condizione oggettiva risulta peraltro aggravata dalla consapevolezza documentata che alle buone intenzioni, rappresentate dalla predisposizione sulla carta di vari e plurimi piani di rischio, non fanno quasi mai seguito azioni di effettiva tutela né sul piano della pianificazione urbanistica né della previsione idrogeologica e meno che mai su quello di una concreta e reale attività strategica di manutenzione. Infatti, è di facile intuizione comprendere come non possa essere ritenuta apprezzabile qualche sporadica operazione di falsa sicurezza messa in campo in modo del tutto occasionale e demagogico - peraltro, mai seguita da alcuna oggettiva ed articolata manovra di controllo periodico delle criticità - a cui si aggiunge la pressoché totale assenza di adeguata strategia di intervento sui territori che rende del tutto vana se non addirittura pericolosa ogni sporadica iniziativa che si dovesse intraprendere.  

L’obiettiva assenza di una seria ed efficace politica del territorio e dell’ambiente ovviamente non esaurisce l’intero cahier de doléances. Niente più della complessa condizione della farragine istituzionale  che avviluppa il nostro Paese appare icastico ed emblematico in questa nostra stagione, fra l’altro, sconquassata dall’esperienza dolorosa e devastante dell’emergenza sanitaria imposta dalla ferocia del corona virus (Sars-CoV-2) che tante “anzi tempo all’Orco accolse alme d’eroi” della semplice vita di tutti i giorni, viepiù che, anche a seguito di quest’ultima immane tragedia pandemica, il Paese - a causa dell’oggettivo e non esaltante spettacolo di efficienza offerto da tutte, senza distinzioni, le sue istituzioni di governo e di gestione - è affondato nelle sabbie mobili di quella che, anche in questa occasione, si è dimostrata ancora una volta essere la vera, esiziale patologia del sistema Italia: la burocrazia e la mancanza dell’avvio di utili processi di semplificazione.

Il quadro di riferimento del Paese, sotto il delineato profilo, appare del tutto sconfortante. La stessa assenza di crescita economica è frutto e conseguenza della obiettiva ed ormai conclamata incapacità del sistema Italia di produrre positività. Il risparmio privato si sta prosciugando a fronte di un debito pubblico che cresce vorticosamente. La politica e le istituzioni, al di là di generici annunci, non sono riuscite e non riescono neppure ad ipotizzare le riforme necessarie per frenare l’attuale condizione di degrado (si pensi quali esempi paradigmatici: alla Scuola, alla Giustizia, alla conclamata mancanza di organica politica di disciplina dell’assetto territoriale, alla stessa assenza di un piano pandemico atto a contrastare l’attuale emergenza sanitaria, alle verità non dette del Ministero della salute ed alla riforma del welfare che ha partorito il topolino dell’irriflessa introduzione del reddito di cittadinanza). 

Il Paese è privo di significative leadership di governo e di classi dirigenziali di adeguato peso qualitativo, le quali, proprio per loro intrinseca debolezza, non hanno saputo generare e concretizzare situazioni di indirizzo e di gestione praticabili all’interno dell’organizzazione amministrativa, acuendo così sino al parossismo la crisi strutturale dell’intero sistema e giungendo sino al punto di alterare il delicato equilibrio fra i Poteri delineato dalla Carta costituzionale. In buona sostanza le responsabilità politiche del momento non sono ravvisabili soltanto in quelle figure che io definisco piuttosto teatranti che attori, bensì anche nel farraginoso quadro istituzionale di assieme. Il mancato contrasto alla fragilità dei territori, la drammatica crisi energetica in atto e la pandemia, non hanno fatto altro che inasprire la situazione sino al punto di mettere a nudo la crisi propria delle istituzioni, della giustizia e dell’economia.  

Per evitare quella fase che Polibio ha individuato con il termine “olocrazia”, ossia il non auspicabile stadio terminale della democrazia, non appare revocabile in dubbio che l’unica via da percorrere sia quella di procedere ad una necessaria, anzi ad un’indispensabile attività di riequilibrio fra i poteri stessi attraverso la formazione e la costituzione di classi dirigenti e politiche che abbiano l’obiettiva capacità, la cultura e la forza di risolvere con responsabilità le situazioni conflittuali del Paese e realizzare soluzioni di governo praticabili all’interno del complesso sistema giuridico-amministrativo italiano.    

L’attuale burocrazia, intesa come apparato, attraverso i suoi interpreti operativi dimostra a chiare note di non avere cura alcuna delle singole sfere giuridiche soggettive. Essa risulta indifferente a qualunque esigenza delle persone le quali ai suoi occhi non appaiono altro che singole pratiche d’ufficio. Ogni soggetto, viene visto dal burocrate con uno sguardo del tutto impersonale, sicché diventa pressoché inane pensare di poter concretamente porre in essere una riforma della stessa attraverso processi di collaborazione con i suoi vertici.    

È un tema questo che sul piano dogmatico affonda le sue radici nell’ambito concettuale proprio di un’analisi complessiva di funzionamento relativa all’intero sistema Italia quale espressione del momento di gestione delle attività proprie di tutti gli apparati della Repubblica.

In quest’ottica, dunque, va inteso e letto questo mio nuovo impegno di analisi del fenomeno che, nell’attuale ed indiscutibilmente infelice realtà cronotopica, appare in verità di difficile qualificazione in ragione della convulsa, frenetica ed irrazionale preoccupazione di totale regolazione che si traduce in una deflagrazione quantitativamente esagerata di prescrizioni che, a loro volta si traducono in una mole incontrollata ed incontrollabile di norme, il cui unico risultato materialmente si concretizza nella produzione di montagne di carta  i cui contenuti dettano (inattuabili) obblighi e precetti  della più svariata natura.   

Infatti, come ho già avuto modo di esprimere in un mio recente contributo[1] il potere burocratico, in quanto portatore di propri e strutturati interessi, si manifesta, al pari di un nodo gordiano che avviluppa ed attanaglia il (nostro) tessuto sociale e che evidenzia, in forma assolutamente paradigmatica, il fenomeno ormai divenuto devastante della colpevole sottrazione delle libertà civili da parte di uno Stato che ha ampliato a dismisura – fra l’altro, e per assurdo, con l’avallo di un’opinione pubblica drogata da quel fenomeno che tecnicamente va sotto il nome di isteria collettiva – il suo ruolo sino al punto di giungere a snaturare nella sostanza il modello costituzionale della Repubblica.

A tale non fisiologico risultato si è giunti attraverso l’utilizzazione di una abborracciata quanto sterminata, in termini quantitativi, produzione legislativa di rango primario e secondario colpevolmente aggravata dall’abuso continuo e costante dello strumento della decretazione d’urgenza. e dallo sconsiderato ricorso ai decreti ministeriali, in particolare ai DPCM. Strumenti questi ultimi che hanno non poco stropicciato la Carta costituzionale attraverso la non corretta trasposizione in essi di contenuti normativi che non possono appartenere in alcuna misura alla loro struttura ordinamentale stante la peculiare natura di atti amministrativi che li contraddistingue. I sopra indicati DPCM hanno rappresentato l’estremizzazione dell’abuso dei decreti legge, atteso che gli stessi hanno tradito ancor più del D.L.  la perversa logica di una supplenza viepiù sempre più marcata del potere esecutivo rispetto a quello legislativo.

Con il ricorso all’uso non lineare di tale strumento (parossisticamente esaltato nel periodo della pandemia) la figura del Presidente del Consiglio non si è collocata più come primus inter pares, ossia quale organo che dirige la politica generale del Governo, bensì quale soggetto istituzionale rimodellato che ha surrogato di fatto i singoli ministri. Egli, infatti ha - di volta in volta, quando non addirittura contestualmente – assunto il ruolo spettante a ciascuno di essi, omettendo di considerare che la sua funzione costituzionale è invece soltanto quella di dover operare ad un livello superiore e di assicurare una qualificata unità di azione tra i singoli dicasteri e con le Regioni. L’uso improprio fatto dello strumento in questione ha pertanto generato fisiologici sbandamenti, conflitti con le Regioni, decisioni contraddittorie e palmari incapacità nella programmazione dei fenomeni che ha presuntuosamente preteso di disciplinare.

La tecnicamente non esaltante azione sopra descritta ha obiettivamente messo in forte discussione la legalità dell’azione amministrativa espressa dal Governo attraverso atti amministrativi  che - per non avere valore e forza di legge - appaiono, ictu oculi, inidonei a comprimere ed a limitare diritti e libertà costituzionalmente garantiti ai cittadini ed inoltre dimostrato, apertis verbis ed in estrema sintesi, che l’intero impianto normativo-provvedimentale rappresentato dai prefati DPCM si pone in aperto contrasto con la Carta non essendo appunto tecnicamente ipotizzabile una limitazione di dette libertà attraverso l’imposizione di regolamentazioni generali ed indifferenziate.   

In pratica ci si è trovati davanti ad un “dedalo” di regole impossibile da padroneggiare. Disposizioni tutte non chiare ed il più delle volte neppure ragionevoli ed addirittura, per quanto attiene ai ricordati decreti, costituzionalmente illegittime sotto il profilo formale, per palese violazione della riserva di legge (assoluta) postulata dalla Carta giacché, come è noto, l’esercizio del potere in democrazia va formalmente assoggettato a legge e per l’additiva, ulteriore, considerazione che gli stessi non possono, come invece è stato fatto, essere portatori di un’inammissibile perché generica delega di poteri, in ragione dell’obiettiva evidenza che il rispetto della Costituzione e delle leggi costituisce un dovere assoluto per qualsivoglia autorità.

Si è, infatti, davanti ad un profluvio di norme che si sono sovrapposte le une alle altre che, come sopra ricordato, sono state messe in campo da soggetti istituzionali diversi (Stato, Regioni, Comuni) e le quali hanno avuto in comune soltanto l’impulso vocazionale (fil rouge) di regolare con ossessiva pervicacia ognuno e tutti gli aspetti disciplinari presi in considerazione piuttosto che l’intelligenza di delineare, come sarebbe stato più logico, una articolata e flessibile cornice di regole affidando il sicuramente più produttivo loro campo di azione alla consapevole responsabilità comportamentale dei cittadini, come si è fatto in altri Paesi.

In buona sostanza siamo stati sommersi da una miriade di leggi e misure amministrative il cui risultato pratico è stato unicamente quello di riuscire nel paradosso di attestare tanto il fallimento della tutela della vita che della messa in ginocchio dell’economia italiana. Infatti l’appena descritta paradossale produzione legislativa del Governo ha sottratto all’intera società del nostro Paese ogni certezza sia del diritto che dei diritti.  

Ritengo, pertanto, ben più utile alla collettività che l’attività di governo si indirizzi all’approntamento di norme cornice sulle regole generali, aperto alle ordinanze specifiche dei singoli ministri e dei governatori, senza i repentini cambi di rotta dell’ultimo momento tanto cari ai governi sin qui succedutisi.        

La descritta irragionevole ipertrofia legislativa, sostanziatasi nella inutiliter data elefantiaca produzione di centinaia di pagine, ha determinato, senza tema di smentita, una facilmente rilevabile condizione di incertezza interpretativa ed un del tutto oggettivo e comprensibile smarrimento psicologico nella popolazione che si  trova a doversi destreggiare tra norme fra loro contraddittorie e di contenuto obiettivamente incerto le quali decisamente generano un indiscutibile, pesante clima di sfiducia nei cittadini e nel contempo hanno prodotto e producono un profondo scetticismo nei confronti delle istituzioni di governo che, ex se, sicuramente contribuisce alla delegittimazione delle istituzioni medesime. Le troppe norme che limitano la libertà dei cittadini, infatti, rendono, de jure et de facto, il potere dello Stato irresponsabile in quanto le stesse invece che arginare detto potere indiscutibilmente lo rafforzano.

A siffatta già discratica situazione va aggiunto che - sia sotto il profilo quantitativo che soprattutto sotto l’aspetto qualitativo - le prefate norme, diverse sui singoli punti di trattazione, non hanno seguito un filo logico unitario, tant’è che i cittadini e le stesse forze dell’ordine in sede applicazione e di controllo circa l’effettivo rispetto delle medesime disposizioni, non hanno saputo ben orientarsi su quale comportamento assumere.

Un incredibile ma purtroppo reale guazzabuglio questo, che porta ad identificare nelle assemblee legislative la prima e più rilevante sede nonché perniciosa causa della, già di per sé impossibile a gestire, burocrazia italiana.

Non appare inutile rilevare che siffatto modus operandi costituisce ex se la più importante e paradigmatica delle prassi tipiche dei momenti di crisi che affliggono il funzionamento fisiologico di qualsivoglia (anche se per vero non solo italiano) modello di democrazia rappresentativa.

Ad una situazione già di per sé difficile e compromessa, ogni accadimento  intervenuto sia di natura giuridica che calamitosa, nonché la deflagrazione del virus pandemico hanno impresso una forte accelerazione al richiamato e già in atto processo di disgregazione  del modello costituzionale, che rimane ulteriormente inciso, e purtroppo in misura estremamente significativa, oltre che dall’emergenza salute anche dalla intervenuta privazione delle libertà fondamentali dei cittadini (di movimento, di riunione, di culto, di lavoro, di tutela del risparmio, di istruzione, di iniziativa economica etc.), nonché dalle ulteriori limitazioni, imposte non con legge ma con l’acronimo ormai divenuto gergale del DPCM allo stesso diritto di proprietà; diritti tutti, quelli indicati, riconosciuti come tali dalla Carta costituzionale.

Dall’inizio dell’emergenza rappresentata dalla fase pandemica sono, sin qui, stati emanati la non irrilevante cifra di ben 24 decreti legge, ai quali si sono aggiunti il decreto “mille proroghe” nonché la legge di bilancio e ben 25 DPCM   ai quali si è, inopinatamente, aggiunto anche un ulteriore DPCM a firma Draghi – che si è posto nella forma e nella sostanza come un déjà vu - di proroga dei limiti e dei divieti imposti dall’ultimo provvedimento del Governo Conte.  In pratica si è continuato a perpetuare un meccanismo non sempre razionale di limitazioni (blocco) del sistema produttivo rappresentato dalle libere attività private, invece di percorrere la più logica strada di agire nel senso di fare il possibile, e con ragionata sicurezza e rapidità, per non compromettere del tutto ed a tempo indefinito la vita economica del Paese obiettivamente pregiudicata dall’azione di un insieme di c.d. “incompetenti al potere”.

L’aspetto più grave, però, e che, sin qui, tale ambaradan normativo non assicura che la pandemia, non soltanto sanitaria, ma anche quella  della mancanza di una organica politica di disciplina dell’assetto territoriale e della progettazione e gestione delle OO.PP. sia gestita attraverso una ordinata, seria e propositiva disciplina regolatoria, bensì attraverso non sempre razionali “divieti”, non considerando che l’ottica di intervento degli apparati dovrebbe, invece, essere orientata nella prospettiva di dettare poche e semplici regole di comportamento e di indirizzo che, fra l’altro, ben possono prevedere anche divieti.

 

Quel che qui intendo mettere in risalto è che l’attuale schema del vietare, andrebbe razionalmente riformato nel senso di giungere alla creazione di un modello in cui lo Stato e le Regioni, dovrebbero adoperarsi a non usare l’arma del divieto sino a quando non si trovino di fronte alla impossibilità di adottare un sistema di regole che permetta un corretto esercizio di attività che strutturalmente siano, ex eis, in grado di contenere significativamente il rischio, qualunque esso sia. Siffatta ipotesi metodologica non soltanto garantirebbe una maggior aderenza al modello proprio della Stato di diritto, ma avrebbe anche la forza di produrre significative e positive risultanze economiche per le categorie di lavoro interessate nonché per lo stesso bilancio dello Stato e delle Regioni. In buona sostanza sostituire la conformazione del divieto tout court con un modello organizzato su un sistema di lineari regole di comportamento avrebbe, invece, il benefico effetto di determinare conseguenze sicuramente meno destruenti nel tessuto economico, allo stato fortemente penalizzato, viepiù che il ricorso (peraltro oggi neppure concretamente attivato) al labile sistema dei ristori (rectius indennizzi), non riuscirà mai a compensare la incapacità di generare ricchezza alle attività imprenditoriali che oggi ne sono incise.

In sintesi, per evitare che la crisi di sistema in atto imploda, occorre intervenire con coraggio e creatività. In ragione del prefato postulato, il Presidente del Consiglio pro tempore, chiunque esso sia, dovrebbe chiedere conto a ciascun ministro proponente divieti di sorta del perché, al posto di una qualunque indicazione di interdizione tout court, non proponga invece un provvedimento contenente regole di comportamento da osservare per raggiungere il medesimo effetto di contenimento degli eventi dannosi. Sono sicuro che i cittadini e le categorie produttive – che sin qui si sono comportati in maniera egregia – capirebbero meglio l’azione di governo. La garanzia dei diritti, infatti, costituisce, il limite insuperabile, il cardine, l’immagine icastica di una democrazia evoluta e solidale e non lo specchio del simbolo di resilienza, ossia di un accomodamento alle mode, del tutto inaccettabile per uno spirito liberale, quale io sono. 

Ciò che differenzia una società libera e liberale, rispetto a quelle c.d. pianificate, risiede nel fatto che nella prima condizione “tutto è permesso a meno che non sia espressamente vietato” mentre nella seconda “nulla è permesso se non esplicitamente previsto”.

L’intervento contingente dell’apparato nel suo complesso, messo in campo per fronteggiare di volta in volta le emergenze della Nazione, dimostra la volontà degli apparati di orientarsi verso la seconda ipotesi di società. Esperienza, questa, non nuova nel Paese che resta, in tempo anteatto all’emergenza, preceduta, fra le tante, dall’aberrazione dell’inversione dell’onere della prova in campo tributario in ragione della quale è paradossalmente il contribuente a dovere dimostrare la propria innocenza e non già l’amministrazione a provare la colpevolezza di quest’ultimo.

Quanto rilevato costituisce l’attestazione e la conferma che ci troviamo davanti ad una classe politica assolutamente inadeguata che per ciò stesso si consegna, per essere eterodiretta, all’apparato burocratico il quale, per sua (in)cultura intrinseca e per mancanza di preparazione specifica, non è in condizione di mettere in campo alcuna seria e producente capacità gestionale, bensì soltanto l’unica triste idoneità di abborracciare, attraverso un processo di insana stratificazione, regole su regole, il più delle volte di dubbia caratura qualitativa.

La situazione oggettiva testé evidenziata oltre che metterci di fronte ad incredibili, sotto il profilo della gravità, emergenze ci pone altresì anche al cospetto di una altrettanto drammatica congiuntura di natura economica che fa emergere, con incombente rilievo, la necessità di dover operare in direzione di un rilancio produttivo del sistema Paese. Programma la cui realizzazione effettuale non va disgiunta dall’altrettanto indifferibile esigenza di prontamente agire ed incidere su un organismo, alla prova dei fatti, inidoneo, così com’è, a porsi concretamente l’obiettivo del raggiungimento della prefata finalità di rimediare all’immanente disastro economico e finanziario, senza, prima o nel contempo, dar vita e corpo ad una concreta ed effettiva rimodulazione dell’intero assetto ordinamentale.

Occorre, infatti che le libertà fondamentali, mortificate dalla ricordata azione di ognuno e tutti i governi sin qui succedutisi, siano ripristinate e che l’intero complesso del sistema economico sia riattivato. Invero se non si ridà fiato e corretto dinamismo alle realtà più operose, abbandonando il sin qui assai arraffazzonato procedere legislativo ed amministrativo, si corre il rischio più che evidente di assistere alla débacle più completa e definitiva dell’intero sistema economico e produttivo del Paese. La descritta opera di riattivazione del sistema Italia necessita, indiscutibilmente, di un’azione di Governo della cosa pubblica veloce, corretta e trasparente; cosa che, in verità, non è stata sin qui fatta in maniera e misura producenti.

Infatti, nelle congiunture importanti, siano esse di interesse nazionale che di carattere internazionale, la formula adeguata per far fronte all’incalzare di eventi eccezionali è, unicamente, quella di avere (e non è questo il caso dell’Italia) o di riuscire ad approntare un asset istituzionale caratterizzato da strutture fondamentalmente agili che consentano al medesimo organismo di adattarsi con intelligente flessibilità al mutamento delle condizioni economiche, finanziarie e sociali che intervengano o che possano succedersi in un tempo di crisi come l’attuale.

Non appare inutile ricordare che la parola crisi, oggi purtroppo tanto minacciosamente ricorrente, anche sui mass media, è sostantivo di etimologia greca. Essa deriva dal verbo krino (dividere, separare), ed è espressione concettuale propria delle situazioni di difficoltà e che ha quale paradigma di riferimento il complesso sistema dei valori e delle relazioni istituzionali, oltre che di quelli di natura soggettiva ed individuale, e non già, come talvolta si vuole fare apparire, di natura meramente lessicale.

Crisi significa sofferenza di un modello di vivere che, comunque, ha già in sé gli anticorpi necessari per rinnovarsi e divenire un quid novi. Crisi significa, altresì, dovere scegliere quali bisogni e quali necessità soddisfare, e quali, invece, dover sacrificare. Crisi indica ancora mutamento di rotta, nel senso che i valori che hanno funto sino ad una certa data da bussola o da radicamento, sono in forte sofferenza, per cui occorre avere la forza e la capacità di determinare un nuovo orientamento al fine di procedere al ripristino ovvero al superamento proprio di quei valori nell’ottica del perseguimento di migliori e più funzionali traguardi[2].  

L’attuale realtà cronotopica, riflette, invece, un’idea ed un modello di organizzazione dal quale si evince ormai a chiare note che lo Stato, con l’insieme del suo apparato amministrativo e politico, si è, sin qui, via via snaturato rispetto al modello costituzionale, tanto – e ciò è molto grave - da dimostrare, con strabica supponenza, di riflettere una totale o comunque gravissima assenza di fiducia nei confronti dei cittadini e tanto da considerare, in nome di ideologie pauperistiche oggettivamente prive di senso logico il profitto imprenditoriale come disvalore assoluto.  In ragione di siffatto improprio e distorto retropensiero, il sistema istituzionale del nostro Paese – anche con l’ausilio del ricorso all’imposizione di un sistema burocratico nel suo complesso immanentemente ossessivo – interpone una paratia, anzi una vera e propria diga organizzativa fondata su una del tutto incomprensibile, sciagurata ed illogica ostilità nei confronti dei cittadini, delle imprese e del profitto imprenditoriale. Siffatta, in verità, impropria ed insensata azione di apparato – fra l’altro malauguratamente realizzata, con una visione decisamente e drammaticamente d’antan - mortifica qualsiasi ragionevole sviluppo delle attività produttive degli italiani.

Per verificare l’attendibilità di siffatta e purtroppo amara considerazione è sufficiente far mente locale a tutto un percorso artificiosamente costellato di forche caudine messo in campo dal potere burocratico e che si sostanzia: nella configurazione di una fiscalità eccessiva; in un paradossale modello sistemico che rende difficile l’accesso al credito; nella richiamata farraginosa produzione legislativa e regolamentare, la cui preoccupazione pare soltanto essere quella di imbastire lacci e laccioli per rendere infernale la vita dei cittadini; in un modello di giustizia esasperatamente lento nella sua applicazione concreta tanto che i suoi decisa appaiono comunque tardivi ed inefficaci, oltre che strutturalmente inidonei a soddisfare in tempi utili qualunque lecito interesse sottoposto al suo sindacato; in una giurisdizione ed in una giurisprudenza pateticamente aggressive; in un complesso di attività di controllo sulla qualità e sulla quantità delle prestazioni lavorative sostanzialmente evanescente a causa delle norme sulla privacy; nel fatto che sono pressoché indefiniti, nel numero e nella loro singola storia, gli atti abilitativi all’esercizio di attività soggette a concessione e/o autorizzazione; in procedimenti amministrativi ciascuno dei quali connotato dalla propria endemica e defatigante complessità; in una miriade di adempimenti, termini e scadenze spesso inutili e che producono, fra l’altro, un enorme costo di gestione; e l’elenco potrebbe ancora continuare.    

Al cospetto di tale obiettiva situazione di fatto e di diritto svanisce nel nulla la primigenia e di scuola concezione di burocrazia intesa quale “insieme di apparati e di persone al quale è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione di uno Stato o anche di enti non statali”  sorretta dalla lodevole intenzione di semplificare il rapporto tra i cittadini e le leggi, perché è ormai evidente che la medesima nella sua realità effettuale non è diventata altro che obbligato percorso ad ostacoli per i consociati dal momento che, come sostenuto con paradossale brillantezza da Prezzolini, nel nostro Paese “nulla si può conseguire per vie legali, neppure le cose che sono legali”.

In buona sostanza l’attuale apparato burocratico attraverso la subdola ed ideologica nel tempo archiviazione dei metodi, delle procedure e dei criteri semplici e propri della democrazia liberale, non fa altro che svilire sino al punto da rendere evanescenti tutte le liturgie democratiche del sistema Paese pur tenendo, ipocritamente, le stesse formalmente in vita. Ed in ragione di questo suo anomalo atteggiarsi che il medesimo apparato si dimostra irrispettoso delle libertà e del tutto incapace di reagire tanto alla crisi economica che al modello costituzionale che sostanzialmente ha eviscerato con diabolica perseveranza.

A ben riflettere il sistema nel suo complesso (politico, legislativo, amministrativo  e giudiziario) appare oggi come un idolo pagano (Moloch) che con studiato sadismo si occupa ipocritamente di assicurare lo sviluppo di un criterio di uguaglianza non di partenza, come dovrebbe essere in un normale Stato di diritto, bensì di arrivo, limitando l’esercizio delle libertà che permettono ai consociati (cittadini) di distinguersi e di realizzarsi, inadatto com’è, per congenita ed intrinseca incapacità di dare forma logica al proprio pensiero gestionale e ripiegando, peraltro abbastanza confusamente, sui principi informatori dello Stato etico che nel pensiero filosofico sono riconoscibili dalla sintesi tra una tesi, rappresentata dal diritto, e da un’antitesi, impersonata dalla moralità - peraltro quasi sempre (e l’odierno episodio del Qatargate in Europa ne è paradigmatico esempio)  di maniera. In pratica il modello italiano, così come scriteriatamente dipanatosi negli anni, si manifesta, oggi più che mai, quale informale riedizione, abbastanza pasticciata, di un apparato che diviene arbitro assoluto del bene e del male, fondato sulla declinazione apparentemente legittima di un astratto e peraltro non corretto postulato: educare il popolo per realizzare un giusto sistema sociale. In questo disegno la compressione delle libertà, la gamma di restrizioni e le correlative sanzioni assumono un ruolo simbolicamente decisivo e consentono allo Stato di affermare la propria supremazia nonché di dimostrare la giustezza etica delle proprie azioni. In questa arraffazzonata logica diventa normale la tassazione di rapina, le montagne di scartoffie, i regolamenti kafkiani, l’ostilità alle partite IVA.

La stessa assurda strutturazione tecnica dell’attuale legislazione antimafia concepita e messa in campo sulla scorta dell’illusoria e demagogica considerazione di impedire i disdicevoli effetti della corruzione, alla prova dei fatti si rivela, nella migliore delle ipotesi, una normazione fondata su astratte supposizioni, il più delle volte non corroborate da prove, e fatta di verifiche spesso inefficaci atteso che quasi mai, se non apoditticamente, riesce a rilevare l’effettività delle infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto sociale. La compressione immotivata degli emolumenti, della rivalutazione delle pensioni e dei diritti, la forte ostilità nei confronti delle autonomie, ciascuna delle quali e tutte insieme, costituiscono una severa ed ingiustificata condanna per tutti, soprattutto per il Sud.

Il termine burocrazia, o meglio il suo oggi più che evidente eccesso di funzione, viene percepito ed identificato dalla pubblica opinione quale sinonimo di cattiva amministrazione, sia sotto il profilo soggettivo (impreparazione, incapacità ed inadeguatezza dei dipendenti delle P.A.), sia sotto il  ben più importante aspetto oggettivo (ipertrofico numero di norme e di procedimenti, disorganici, farraginosi, contraddittori e spesso incomprensibili e, comunque, di difficile applicazione), all’interno dei quali il potere assume la forma dell’atto, con conseguente ed additivo aumento di responsabilità personali, di meccanismi di controllo e di soggetti controllori.

E anche se per vero non occorreva l’attuale e più che palpabile e generalizzata situazione di crisi per rendersi conto dello stato comatoso in cui versa l’insieme degli apparati burocratico-amministrativi del nostro Paese, va comunque evidenziato che, il presente momento, fra l’altro, intriso di profonde difficoltà di natura economica, sociale ed istituzionale rende ormai non più procrastinabile l’esigenza dell’intervento, oltre che di straordinarie misure economiche, finanziarie e fiscali, anche di una altrettanto massiccia opera di affrancamento dalle pastoie del vuoto formalismo imperante, allo scopo, questo sì  nobile, di consentire una catartica liberazione dallo stanco, bizantineggiante e ridondante sistema organizzativo oggi predominante, così da permettere - sempre all’interno della cornice di garanzia e di tutela dell’interesse pubblico - la piena e reale valorizzazione di tutte le energie imprenditoriali presenti nel Paese, di interventi di incondizionato supporto ai nuovi investimenti nonché di un’opera di marcato sostegno alla facilitazione dei consumi.  

In buona sostanza appare di primaria necessità dar vita a delle istituzioni pubbliche che nel loro complesso siano nella condizione oggettiva di esprimere un corpus disciplinare capace di disboscare l’incolto terreno delle amministrazioni dall’attuale inestricabile e pletorico groviglio di norme, di inveterati divieti e di non logici comportamenti, al fine di assicurare ai consociati strumenti efficaci ed efficienti atti a garantire stabilità, semplicità, certezza e fiducia alle imprese ed ai cittadini di questo nostro martoriato Paese.                 

In ragione della descritta esigenza non appare revocabile in dubbio come vada ulteriormente stigmatizzato l’insopportabile fardello di tale già rilevata oppressione burocratica il cui peso si riflette esizialmente nel  mondo economico e sociale, atteso che  tale stato di asfissia che ci soffoca ed affligge non costituisce altro che la tomba di qualsivoglia opportunità; virus (burocrazia) che non si trasmette con le goccioline, ma con la deprimente consuetudine, il parassitismo e l’assuefazione e nei cui confronti non c’è immunizzazione che tenga, anzi non esiste proprio vaccino.

Non sfugge a nessun essere minimamente raziocinante che l’ansia irrazionale ed astratta di fronteggiare la corruzione nella e della P.A., assieme alle altrettanto giuste esigenze di contrastare i rischi di infiltrazione mafiosa ovvero i rischi ambientali e di dissesto dei territori, sostanziano, nell’attuale assolutamente e concettualmente imperfetto quadro normativo, le prime e principali cause dell’ingessamento del nostro Paese[3]. A questo va, altresì additivamente associata l’obiettiva evidenza che non è soltanto l’attuale infelice normativa a creare complicazioni, quanto, spesso – ed è quello che qui voglio a chiare note evidenziare – anche l’incombente rischio di una ermeneusi giurisprudenziale delle stesse, arzigogolata e punitiva, che, attraverso l’uso indiscriminato di cavilli e norme di dubbia qualità ed efficacia, avalla, paralizza e penalizza il corretto facere delle Amministrazioni. Non è inutile ancora sottolineare, al fine di ulteriormente evidenziare il tumultuoso marasma in cui versa l’intera impalcatura della macchina burocratica, che la stessa fase di amministrazione attiva, attraverso i suoi funzionari, risulta, quasi sempre, avviluppata ed attanagliata dal timore, di essi agenti, di soggiacere alla possibile contestazione dell’ipotesi di danno erariale nonché a quella di abuso d’ufficio; condizione psicologica e di fatto che si spera  l’azione di questo nuovo Governo e per esso del Ministro Nordio riesca finalmente a cancellare ed a ricondurre nel giusto alveo.

La descritta reale situazione è, purtroppo, il riflesso dell’obiettiva evidenza che il legislatore ha sin qui abdicato, in nome di immaginifiche, supposte emergenze, a quello che è, o comunque dovrebbe essere il suo peculiare compito, ossia l’obbligo di disciplinare la realtà in coerenza con i valori ed i bisogni della comunità e non già di umiliare l’assetto civile.

È, dunque, giunta l’ora di dire basta ad un’attività legislativa, riflesso condizionato della poco limpida figura del c.d. intellectuel engagé e che continua a sguazzare sempre nel familismo più truce a causa della triste abitudine di sciorinare novità che si conoscono da sempre ed alle quali non si ha né la forza né il coraggio di porre rimedio come ad esempio alla babele delle condizioni diversificate che ciascun istituto di credito applica alle commissioni sui pagamenti digitali. 

In ragione di tale difficilmente contestabile, discratica situazione legislativa e comportamentale, entrambe obiettive conseguenze dell’isteria contagiosa rappresentata dalla pervicace ossessione di combattere attraverso misure illiberali ed insensate, invece che con le regole proprie dello Stato di diritto, il (detestabile) fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nel corpo del sistema politico ed economico del Paese, si è irrazionalmente giunti – sulla base di strombazzate, apodittiche, mitizzate  e supposte denunciate - con stentoreo tono di grave allarme sociale - situazioni di pericolo emergenziale a paralizzare il sistema nel suo complesso attraverso l’imposizione di una rete di allucinante oppressione fatta di inestricabili lacci e laccioli dalla quale risulta materialmente impossibile divincolarsi.

Le interdittive antimafia; lo scioglimento per decreto dei Consigli degli Enti locali; le strutturali lentezze delle procedure di Consip; il Codice degli appalti, espressione normativa intrisa di obiettivi nonsense e di paralizzanti criticità la cui plastica inutilità pratica resta dimostrata dal fatto che senza il “gabbio” delle sue norme e dei suoi non felici postulati si è potuto ricostruire, nel giro di poco più di un anno, a Genova, il nuovo ponte progettato da Renzo Piano in sostituzione del crollato ponte  “Morandi”, nonché realizzare, nel giro di qualche settimana l’ospedale di emergenza in Fiera a Milano (idea progettuale, fra l’altro, specularmente riprodotta, anche nelle modalità di esecuzione a Berlino, dai tedeschi) e l’ospedale pandemico di Civitanova Marche; la previsione delle SUAP,  e delle Conferenze dei servizi; l’assurda postulata raccomandazione di privilegiare procedimenti in parallelo piuttosto che quelli in serie; l’esigenza di rendere finalmente inutile la richiesta di documenti ed informazioni già in possesso della P.A.; il deliberato mancato abbandono della sopravvivenza dell’assurdo criterio del massimo ribasso nelle gare che reca con sé l’ignobile fardello di consentire OO.PP. talvolta neppure  portate a compimento, e, fra l’altro di discutibile sicurezza strutturale, poste in esecuzione attraverso una rete – essa sì da colpire – di indegne connivenze; il mancato controllo da parte della mano pubblica e/o l’assenza di monitoraggio continuo sugli standard di sicurezza delle opere nel tempo, al fine di evitare eventi negativi  di significative proporzioni (come ad esempio è avvenuto nel caso del viadotto della Valpocevera,, del ponte “Morandi” o, di recente, dell’accartocciamento del ponte di Caprignola che collega la provincia di La Spezia a quella di Massa); la creazione dell’ANAC (intesa quest’ultima autorità addirittura non già come Ente di consulenza e di analisi di dati a vantaggio e supporto delle P.A, bensì quale ennesima, non necessaria ed ulteriore soffocante presenza nel già più che pletorico novero degli organismi di controllo) ne costituiscono palmare riprova.

L’insieme del complesso di questi organismi – in uno con la sovrapposizione nel tempo di norme regolamenti, procedure ed adempimenti – determinano l’incertezza del diritto, dei diritti e dei doveri, nonché una sempre maggiore complicazione dell’attività amministrativa ed economica e, fra l’altro, fungono ognuno e tutti, da alibi e da comodo usbergo per amministratori e funzionari pavidi, i quali invece di esercitare con onore le proprie funzioni si accucciano dietro siffatto paravento, aspettando, comunque, di avere contezza della consulenza di questi c.d. illuminati organismi decisori prima di assumere  qualunque risoluzione provvedimentale, dalla più insignificante alla più importante, facendo così perdere, nella migliore delle ipotesi, del tempo prezioso nel provvedere.

Tempo che come si sa (e come mirabilmente indicato da Elli Michhler), oltre che essere un bene fra i più preziosi se non il più prezioso dell’agire umano è anche connotato essenziale di ogni funzionale scelta strategica, sia essa di natura giuridica che economia, delle P.A.

E per dare il giusto valore al tempo non è dubbio che occorra intervenire in maniera tranchant ossia con l’accetta su norme e burocrazia!

Che senso ha, infatti, se non  determinare inutili perdite di tempo (anni) presentare una serie di progetti prima di pervenire a quello definitivo e poi ancora a quello esecutivo per giungere infine all’appalto, a cui vanno aggiunti le impedenze metereologiche ed il rischio di un ulteriore rallentamento dei tempi stessi rappresentato dall’incombente e non peregrina eventualità di esperimento, da parte dei non aggiudicatari, di gravami giurisdizionali davanti agli organi della Giustizia Amministrativa (TAR e Consiglio di Stato). 
 

Qualche riflessione anche sul testo del Codice degli appalti appena licenziato dal Consiglio dei Ministri

La stessa ultima stesura del nuovo Codice degli appalti, quella per intenderci appena licenziata dal Consiglio dei Ministri, appare, a mio giudizio, l’ennesima occasione perduta, anche se per vero introduce qualche novità di non trascurabile momento.

Infatti  l’Esecutivo  mette in campo un corposo ancorché pletoricamente ridondante schema di normazione,  la cui caratteristica peculiare (questa sì positiva) è quella della sua connotazione autoapplicativa – ossia una volta entrato in vigore non avrà la necessità di  successivi decreti attuativi per essere operativo (in considerazione del fatto che questi ultimi saranno sostituiti da allegati di contenuto e valore regolamentare) - con il quale si prefigge l’obiettivo di giungere ad una, in verità troppo elaborata – se confrontato con il sopra indicato mio radicale convincimento - ipotesi di riscrittura del nuovo Codice dei contratti (che dovrà entrare in vigore a far tempo dell’1 luglio 2023).

Invero - ancorché le risultanze concrete non appaiano del tutto assonanti con l’obiettivo sbandierato di sburocratizzare e di semplificare - non può, comunque sottacersi che,  tanto le recenti decisioni del Ministero delle Infrastrutture di sbloccare l’apertura di cantieri di ANAS e di RFI per la messa a terra di opere per complessivi trenta miliardi di euro  che  le intenzioni espresse nella nuova stesura dell’articolato,  costituiscano, comunque, una novità di sicuro interesse in considerazione dell’oggettiva e non secondaria evidenza che tale ricordata operazione di riscrittura del Codice dei contratti si muove in ragione di due elementi  cardine e di sicuro effetto concettuale:

a) il principio del risultato, ossia dell’interesse primario della mano pubblica di affidare tanto il contratto che la sua esecuzione, in tempi rapidissimi, coniugando in un mix, probabilmente non del tutto perfetto, la logica finalità del conseguimento del migliore equilibrio possibile tra qualità e prezzo nelle gare nel rispetto dei principi di legalità, concorrenza e trasparenza. In realtà tale ricerca del dichiarato equilibrio la si tenta di raggiungere con un metodo, a mio avviso concettualmente contraddittorio: da un lato controbilanciando – se non si dovesse, come a me appare auspicabile consolidare il più giusto sistema dell’offerta complessivamente più vantaggiosa (in senso globale e non dal solo punto di vista economico) -  l’iniquo ed assurdo criterio del massimo ribasso in sede di aggiudicazione con il ricorso successivo alla revisione del prezzo (all’80%), utilizzando il percorso delle varianti in corso d’opera nelle ipotesi di superamento della soglia del 5% dei costi. In realtà, però, ritengo che siffatta declinata ipotesi di riequilibrio, non sia idonea a valorizzare appieno quello che a mio avviso dovrebbe costituire l’elemento decisivo e dirimente, in termini di sostanzialità, di fruire, sin da subito, di una progettazione di effettiva qualità correlata all’opera da realizzare;

b) il principio della fiducia con riferimento alle situazioni di accesso al mercato, di buona fede, di tutela dell’affidamento, di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale anche nei confronti del Terzo Settore, nonché di auto organizzazione amministrativa; prospettazioni queste tutte preordinate all’obiettiva e concreta finalità di ottenere la garanzia che le azioni delle P.A. e dei loro funzionari risultino del tutto ispirate e caratterizzate dall’imprescindibile connotato della massima correttezza.

Lo sforzo compiuto, in termini di apprezzabilità, dall’Esecutivo nella circostanza va correttamente valutato in ragione del dato di consapevolezza paradigmatica che tanto più si rende breve, fluido e rapido l’iter burocratico, tanto più difficile appare la possibilità di generare fenomeni corruttivi oggettivamente presenti nell’attuale scriteriata realtà di gestione degli appalti.

Alla luce di quanto espresso non appare revocabile in dubbio l’ulteriore e dirimente esigenza  che finalmente la “politica” si riappropri del potere decisionale che le spetta, se vero che la stessa si assumerà anche l’onere di porre un freno qualificato alla possibilità di ricorrere in sede giustiziale sulle opere programmate e da eseguire non essendo logicamente ammissibile che anche i piccoli contenziosi (ultimo esempio le filovia di Pescara) possano ostacolare quando non anche impedire la realizzazione persino di OO.PP. strategiche per il Paese (ferrovie, autostrade, ponti, porti,  rigassificatori, etc).

A tal fine, sempre in ragione della tutela del diritto al dibattito pubblico è altresì previsto, nel testo approntato dal CdM, l’adozione di un (per certi versi non semplice anche perché obiettivamente non perfettamente delineato) meccanismo decisionale che consenta il corretto superamento delle ipotesi di dissenso qualificato per tutto ciò che attiene alla programmazione delle infrastrutture c.d. prioritarie le quali, peraltro, vanno inserite immediatamente e direttamente nel Documento di economia e finanza (c.d. DEF); la previsione espressa del coinvolgimento diretto delle Regioni nella programmazione delle opere ritenute strategiche; la riduzione dei termini del procedimento amministrativo per la resa dei pareri di competenza (da 45 gg. a 30 gg. per il Consiglio Superiore dei LL.PP. e da 60 gg. a 45 gg. per l’esperimento della Conferenza dei Servizi); l’attivazione di un procedimento parallelo in ordine alle verifiche preventive per le aree di interesse archeologico (atto a garantire il corretto e fondamentale bilanciamento tra la necessità di ammodernamento infrastrutturale e la non meno importante esigenza di tutela del patrimonio archeologico), che comunque deve, sempre ed in ogni caso, porsi in linea e non in contrasto con i tempi determinati per realizzazione dell’opera da realizzare; nella istituzione da parte del Consiglio Superiore dei LL.PP. di un Comitato speciale specificamente dedicato all’esame dei sopraindicati progetti di OO.PP. 

Non appare altresì inutile rimarcare anche la previsione, concettualmente condivisibile, di implementazione del processo di digitalizzazione al fine di rendere più moderno e funzionale l’intero sistema dei contratti pubblici e dell’intero andamento vitale degli appalti attraverso la previsione di un c.d. “ecosistema nazionale di approvvigionamento digitale” il cui fulcro essenziale è ravvisabile nella Banca nazionale dei contratti pubblici, nel fascicolo virtuale dell’operatore economico (reso operativo dall’ANAC), nelle piattaforme c.d. di viatico digitale oltre che nella utilizzazione di procedure automatizzate all’interno del ciclo vitale di operatività del contratti pubblici. E’, inoltre prevista l’ipotesi di realizzazione di una digitalizzazione integrale con espresso riferimento alla materia dell’accesso agli atti peraltro del tutto correlata ed armonizzata con la procedura di digitalizzazione   dell’affidamento e dell’esecuzione dei contratti pubblici, nonché nel riconoscimento in favore dei cittadini dell’esercizio del c.d. accesso civico generalizzato (ovviamente nei limiti consentiti dall’ordinamento) alla documentazione di gara.

Viene reintrodotto e liberalizzato l’istituto dell’appalto integrato di modo che i Comuni, soprattutto quelli medi e di più modeste dimensioni, potranno avvalersi di questo strumento per la progettazione attuativa e per l’esecuzione dei lavori pianificati ed approvati sulla scorta di puntuali progetti di fattibilità tecnico-economica approvati, con la sola eccezione per gli appalti di manutenzione ordinaria.

È, ancora previsto l’aumento (da € 150.000,00 ad € 500.000,00) della soglia minima europea per l’affidamento diretto e per le procedure negoziate postulate dal D.L. 16 luglio 2020 n°76 (semplificazioni Covid 2019); soglie sotto le quali anche i piccoli Comuni (che poi sono la più gran parte delle Amministrazioni locali d’Italia), potranno appaltare lavori in piena autonomia. E’, invece, espressamente prevista l’eccezione e, quindi, l’applicazione delle procedure ordinarie preordinate per il c.d. “sopra soglia”, in caso di affidamento di contratti che presentino chiari e certi interessi transfrontalieri.

Viene opportunamente altresì fissato, anche se non meglio specificato e dettagliato il principio c.d. di rotazione in ipotesi di procedure negoziate con conseguente divieto di diretta assegnazione di appalto nei confronti di contraente uscente. E’, inoltre del tutto esclusa, negli affidamenti di contratti sottosoglia, la possibilità della dilatazione dei termini, siano essi di natura procedimentale che processuale.

Viene reintrodotta la figura del “general contractor”. Con tale tipologia contrattuale l’operatore economico “è tenuto a perseguire un risultato amministrativo, attraverso le prestazioni professionali e specialistiche previste, in cambio di un corrispettivo determinato in relazione al risultato ottenuto ed all’attività normalmente necessaria per ottenerlo”. Non è inutile riferire che il riconoscimento in capo al contraente generale della matrice pubblicistica nelle ad esempio ipotesi operative di materia espropriativa consente di riconoscere nell’istituto de quo una delle ipotesi tipiche di manifesta applicazione della collaborazione (un vero e proprio crocevia nel dipanarsi delle attività d’interesse generale), tra le P.A. e gli operatori privati.

Viene, altresì obiettivamente semplificato – anche se, non in modo e misura esaustiva - il quadro normativo di riferimento onde rendere più facile la partecipazione degli investitori istituzionali alle gare per l’affidamento di progetti di partenariato pubblico-privato (c.d. PPP) anche attraverso la previsione di particolari garanzie a favore dei finanziatori dei contratti oltre alla conferma del diritto di prelazione a vantaggio del o dei promotori.

Viene contemplata una più ampia flessibilità ed una più pregnante peculiarità in ordine ai c.d. settori speciali in perfetta consequenzialità con la natura essenziale dei servizi pubblici gestiti dagli enti aggiudicatari (acqua, energia, trasporti etc.). Inoltre viene analiticamente prevista una elencazione di “poteri di autorganizzazione” alle imprese pubbliche ed ai privati titolari dei ricordati diritti speciali o esclusivi.  Ed ancora ancora la possibilità in favore delle stazioni appaltanti di determinare tanto le dimensioni dell’oggetto dell’appalto che dei lotti in cui esso viene suddiviso senza alcun obbligo di motivazione aggravata.

Viene altresì pensata e disposta la possibilità del subappalto c.d. a cascata in aderenza alle disposizioni della normativa e della giurisprudenza europea attraverso la previsione di criteri di valutazione discrezionali da esercirsi, di volta in volta da parte della stazione appaltante.

In presenza di concessionari selezionati senza gara, viene fissato l’obbligo di appaltare a terzi soltanto una parte (tra il 50% ed il 60%) dei lavori, dei servizi e delle forniture. Tale obbligo non è previsto per i ricordati settori c.d. speciali (ferrovie, aeroporti, gas e luce).

Viene ancora prevista l’applicazione della revisione prezzi al verificarsi di una variazione di costi superiori alla soglia del 5%, con il riconoscimento in favore dell’impresa dell’80% del maggior costo determinatosi.

Per ciò che attiene all’esecuzione delle opere viene riconosciuta all’appaltatore la facoltà di richiedere, prima della conclusione del contratto, la sostituzione della cauzione o della garanzia fideiussoria con ritenute di garanzia sui singoli stati di avanzamento. Inoltre nelle situazioni di liquidazione giudiziale dell’operatore economico post aggiudicazione non è prevista alcuna ipotesi di automatica decadenza, ma si ipotizza che il contratto potrà essere stipulato con il curatore autorizzato all’esercizio dell’impresa, ovviamente previa autorizzazione del giudice delegato.

Ai fini dell’insorgenza della responsabilità amministrativa ed al correlativo scopo di scongiurare la c.d. paura della firma per gli agenti della P.A. la nuova normazione stabilisce che non sostanzia l’ipotesi della colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento agli indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle Autorità.  

Viene altresì previsto il riordino delle competenze dell’ANAC con un rafforzamento delle funzioni sanzionatorie e di vigilanza ad esso Organismo riconnesse. Va altresì evidenziato che attraverso l’integrazione nel Codice della disciplina di attuazione viene disposto il superamento delle linee guida adottate dall’Autorità.

Viene introdotto, molto opportunamente nei procedimenti davanti alla giustizia amministrativa, il principio che il G.A. conosca anche delle azioni risarcitorie nonché di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante contro l’operatore economico che, con il proprio comportamento illecito, abbia concorso a determinare un esito illegittimo della gara. E’ancora ammesso il ricorso alla procedura arbitrale anche nelle controversie relative “ai contratti” nelle quali siano coinvolti siffatti operatori.

A fronte del declinato e per certi versi commendevole anche se non compiuto perché obiettivamente ancora troppo macchinoso sforzo legislativo, ritengo però ancora più opportuno orientare la programmazione della ricordata attività legislativa verso la formulazione di un testo meno pachidermico e ben più agile di quello oggi pensato e messo su carta in sede di Consiglio dei Ministri.

Il fatto che il testo di riferimento licenziato dal Consiglio dei Ministri esprima una maggiore sistematicità rispetto al precedente elaborato sugli appalti - connotato da un disarticolato pot-pourri di norme primarie, di regolamenti, decreti cui si sono aggiunte nel tempo anche le decine di linee guida di provenienza ANAC, le quali, peraltro, hanno sin qui oggettivamente reso impossibile ogni forma di organica e corretta gestione della regolazione della materia: maggiore sistematicità ottenuta eliminando l’abnorme fenomeno della c.d. soft law  e riconducendo la disciplina all’unico strumento rappresentato dalla legge e da un insieme di allegati -  è elemento, a mio avviso, non sufficiente a determinare, sul piano concreto ed effettuale, la compiuta e sbandierata, forse con troppa enfasi, opera di semplificazione.

Invero, al di là della inopportunità concettuale di ritenere che detta semplificazione passi esclusivamente attraverso la riduzione del numero degli articoli e della riscrittura nel senso di una migliore e funzionale caratterizzazione lessicale del testo degli stessi, non ritengo sia cosa particolarmente utile soprattutto in considerazione che alla semplificazione lessicale non fa da sponda la reale e concreta semplificazione degli oggetti di regolazione.

Al di là dell’unico obiettivo sicuramente centrato ed afferente alla composizione delle commissioni di gara attraverso la disposizione che di dette commissioni debba far parte anche il RUP, va segnalato che inopinatamente alcuno degli altri aspetti problematici del vecchio codice appare superato.

La stessa ipotesi, per certi versi velleitaria ed incongruente, di obbligare le aziende a produrre una complicatissima ed elefantiaca mole di documenti “per assicurare opportunità di impiego a giovani, donne e categorie svantaggiate” rimane contraddittoriamente frustrata dalla compresenza di norme che consentono alle P.A. di poter esonerare le aziende medesime in forza di motivate circostanze.

Lo stesso principio “della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta della P.A. e dei suoi funzionari e degli operatori economici” se non ulteriormente meglio qualificato e delineato corre il rischio di essere considerato quasi una forma di deregulation se non addirittura una rinuncia ad un’effettiva programmazione delle opere nonché alla desistenza della necessità di assicurare una corretta dinamica concorrenziale.

Del tutto ingiustificata, mi sembra, poi, la preoccupazione palesata dall’ANAC a seguito della prevista modifica delle regole a salvaguardia dei conflitti di interesse nella ipotesi in cui i funzionari della P.A. che intervengono nell’appalto possano essere portatori di un interesse proprio, sia esso di carattere economico finanziario che personale: perché il conflitto di interesse per essere sollevato deve essere oggettivamente rilevabile. e non soltanto immaginato o semplicemente supposto (imparzialità ed indipendenze devono necessariamente essere provati), e perché bisogna anche ammettere che i controlli dell’ANAC non hanno pressocché mai funzionato, visto e considerato che gli stessi si sono connotati sin qui come attività ex post e non già interventi a carattere preventivo, atteso altresì anche l’obiettiva evidenza che i funzionari e gli amministratori non hanno, sin qui, avuto e non hanno potere di interdizione di sorta. 

Inoltre altrettanto priva di misura e di senso appare la perniciosa e perenne ossessione di vedere infiltrazioni mafiose ed ipotesi di corruzione in ogni dove. Infatti tale assillo che porta le organizzazioni sindacali a criticare l’ipotesi di subappalto a cascata, oblitera di considerare il dato che la Commissione europea ha, sin dal 24 gennaio 2019, attivato nei confronti dell’Italia una procedura di infrazione (n°2018/2273), con la quale ha ritenuto non conforme alle direttive europee il divieto (sin qui) posto dal legislatore nazionale al subappaltatore di subappaltare a propria volta le opere.


Considerazioni conclusive

Analizzate, sia pur sommariamente, le possibili criticità dell’azione dell’Esecutivo rilevate dai più tenaci assertori di una ortodossia di proposizione ermeneutica oggettivamente inutile ed obiettivamente non propria, e riservando ad un esame più analitico e completo del testo, comunque ancora perfettibile, all’esito dell’approvazione definitiva del codice, riaffermo – quanto  ho già riferito in precedenti miei scritti e nelle occasioni scientifiche nelle quali mi è stato richiesto di intervenire -  il mio radicato convincimento e, cioè, che il codice degli appalti non vada riscritto (come nella visione operativa postulata dall’attuale Governo), ma vada eliminato e sostituito, come è avvenuto per Genova, con il lasciapassare all’utilizzazione delle direttive europee in subiecta materia; pass che esprime un più efficace e producente modello sistemico, alternativo e consequenziale che può ben essere replicato tout court in ogni parte d’Italia e che riduce radicalmente il numero di adempimenti, di procedimenti e di vincoli, regole e regolette consentendo il felice espletamento di un numero maggiormente cospicuo e produttivo di gare.

In quest’ottica e con questo metodo di apertura al fare, obiettivamente e profondamente innovatore rispetto al deprimente status quo ante, ritengo, che, quale indefettibile obiettivo primario, vadano mobilitate tutte le opere pubbliche già autorizzate nei bilanci di competenza di Stato, Regioni ed Amministrazioni locali, insulsamente bloccate dalle sin qui farraginose procedure e riguardanti i settori dell’edilizia scolastica, della difesa del suolo, delle infrastrutture viarie, del recupero idrogeologico dei territori fragili, delle opere urgenti, comprese quelle di manutenzione, afferenti ponti e strade tanto ad opera di imprese pubbliche, come ANAS, e private, quali ad esempio Autostrade per l’Italia, dei piani per l’alta velocità ferroviaria anche per il Sud e per la valorizzazione delle reti ordinarie, dei progetti di lavori del sistema portuale del Paese, dei programmi di rifacimento e di riparazione degli innumerevoli acquedotti ammalorati.  

Di fronte a tale delineato ed evidente disastro legislativo ed organizzativo che non fa altro che determinare sconfortanti risultati operativi e, che, irragionevolmente e senza scusanti, destabilizza e violenta i principi propri dello Stato di diritto e gli altrettanto meritevoli di tutela diritti fondamentali dei cittadini nonché determina, in nome di un supposto principio di legalità - peraltro assurdamente distinto da quello di libertà (Piero Calamandrei infatti ci ha insegnato: “non può esservi legalità senza libertà”) - mal interpretato ed altrettanto peggio normativamente espresso,  la cancellazione dal mondo del lavoro di imprese e lavoratori laboriosi ed indefessi, con il risultato di  pressoché azzerare o comunque gravemente compromettere l’economia delle stesse imprese e della Nazione, ritengo sia indispensabile provare, tutti insieme, ad accendere tutte le luci possibili dell’intero firmamento della civiltà giuridica, per dare nuova linfa e nuova vigoria alla fonte dei principi costituzionali ai quali ci siamo tutti orgogliosamente abbeverati e formati.

Occorre aver il coraggio, come cittadini e come istituzioni, di dire basta, una volta per tutte, alla supina soggiacenza all’attuale reso immunodepresso sistema Italia, gestito da soggetti sin qui senza  patria  che hanno fatto e fanno del giustizialismo, della negazione della conoscenza, dell’oscurantismo e della negazione delle libertà la propria ragion d’essere, di impegnarsi a far rinascere il senso ed il valore liberatorio della giustizia così da consentire di affrontare efficacemente ogni emergenza, compresa l’attuale, peraltro, ictu oculi, impropriamente legittimata dal manto di fragili argomentazioni contingenti, di natura confusamente etica  - intrisa di non commendevole giustizialismo abbinato all’idea distorta di una giurisdizione esclusivamente orientata a ravvisare comunque, costi quel che costi, un colpevole da sanzionare, sulla scorta del non fisiologico, anzi aberrante pregiudizio secondo il quale è l’effetto della punizione a giustificare l’esistenza del  precetto normativo - piuttosto che giuridica (Stato di diritto); e di spingere con dignitoso orgoglio per l’avvio immediato di un’articolata e decisiva riforma legislativa che preveda lo snellimento concreto della macchina burocratica nel suo complesso mediante procedure amministrative più flessibili e meno adempimenti formali nonché attraverso  l’eliminazione della gran parte di tutte le complicazioni (legislative e burocratiche) che oggi appesantiscono l’efficacia dell’agire delle P.A. e finalmente riuscire a mandare in soffitta il cappio di irragionevole sospetto che opprime e sottrae capziosamente ad ogni cittadino l’esercizio pieno dei propri diritti fondamentali.  

In tale ottica per un serio progetto di ricostruzione economica e per recuperare il gap competitivo del Paese e la capacità di attrazione dei singoli territori, si impone la drastica riduzione della pressione fiscale, la necessità di addivenire alla semplificazione delle norme e delle procedure amministrative attraverso la riduzione, in un quadro unitario di riferimento, della complessità delle leggi e la realizzazione di procedure certe anche nei tempi del loro esperimento; la concreta valutazione ex ante dell’impatto delle nuove norme nonché un più agile accesso alle informazioni necessarie all’auspicato processo di adeguamento; una migliore digitalizzazione dei servizi; l’alt alla continua  richiesta di sempre ulteriore documentazione da parte delle P.A.; l’applicazione oltre che dell’autocertificazione anche del concetto della c.d. decertificazione per alleggerire l’assurdo peso degli adempimenti; la drastica riduzione del numero delle autorizzazioni e dei permessi per l’apertura di qualsiasi azienda o esercizio; la previsione di procedure urbanistiche ed edilizie più celeri e con meno commistione di adempimenti; la limitazione della sovrapposizione di competenze; un piano di controlli formali meno assillanti; ed infine  l’obbligo di sanzionare la mancata assunzione di responsabilità da parte dei funzionari.

Occorre in buona sostanza costruire un sistema di adempimenti che esalti le libertà invece che opprimerle.

Sarebbe la più bella delle vittorie poter godere della caduta del muro dell’attuale e pervasivo potere burocratico insensatamente fondato sulla dissuasione e sui paralizzanti “non posso pendermi la responsabilità, manca una firma, è competente un altro ufficio, il funzionario è in ferie”.

Ancora oggi, purtroppo, è la mancanza di oggettiva e producente visione di risoluzione operativa, in termini di concreto alleggerimento del sistema, a far sfumare o meglio a frenare ancora una volta il plastico ordine dell’ipotesi di normalità sognata e dianzi prospettata. Gli  stessi interventi sin qui di recente concepiti, a partire da quel monstrum giuridico definito fantasiosamente “Decreto rilancio”[4], la cui abnorme prolissità contenutistica sia in pagine che in articoli  riflette paradigmaticamente  l’odiosa cultura della diffidenza  verso il libero agire dei cittadini e delle imprese e che si compendia nel leitmotiv di sempre: il potere burocratico ed il suo devastante funzionarismo vanno gelosamente preservati per il loro ruolo di “motore immobile”, di sentinella occhiuta dello stare decisis.

Né a più producente risultato è approdato altrettanto troppo pretenziosamente definito “Decreto semplificazioni”[5] giacché – al di là dell’arcinoto e tanto caro all’attuale establishment effetto “annuncite” lo stesso contenutisticamente, proprio in quanto espressione paradigmatica dell’opera di un ceto politico obiettivamente inadeguato, riflette una filosofia di fondo ispirata non già alla concreta esigenza di dar corpo alla ragione della propria azione normativa, bensì all’astratta e vuota comunicazione del dire di fare,  in evidente disprezzo all’icastico ed antico adagio “la fretta è sempre una cattiva consigliera” che opportunamente stigmatizza l’inutilità di operare scelte normative senza appropriata meditazione.                                        

E’ sufficiente, infatti, scorrere i testi legislativi de quibus, ivi compreso il nuovo codice degli appalti, per avere lapalissiana contezza come con il richiamato e raffazonato modus operandi si è provocato ancora maggiore confusione ed alimentato, in termini assolutamente esponenziali, un insieme di complicazioni ulteriori al non esaltante sistema burocratico in essere attraverso l’introduzione di demagogici costrutti del tutto irrazionali e spesso  inconcludenti ed incongruenti rispetto alla reale finalità di semplificazione soltanto nominalmente sbandierata.

E se a ciò si aggiunge additivamente anche l’altrettanto obiettiva evidenza del mancato approntamento attuativo delle scelte disciplinari, peraltro per lo più astrattamente ipotizzate, si perviene, senza tema di smentita, al non funzionale risultato di determinare una distonia comunicativa inutilmente perniciosa per l’obiettivo di trasformare finalmente le P.A. in strumenti reali al servizio dei cittadini sicché anche in presenza delle sopra ricordate ultime iniziative legislative, i punti di crisi anche in questo scritto denunciati continuano a permanere in tutta la loro pregnanza del tutto irrisolti.

La stessa manipolativa e pletorica riscrittura del codice degli appalti (229 articoli e 35 allegati) pur nel rispetto delle lodevoli intenzioni di chi tale articolato ha stilato, non dà l’impressione di sostanziare l’agognato, dirimente ed auspicato ben assestato calcio all’attuale sistema burocratico italiano. E ciò perché, in realtà, con l’attuale riscrittura non si è realizzato come che ci si attendeva il goal della vittoria, bensì si è solo, ancora una volta, scagliata la palla in tribuna.

Nella cornice di insieme testé delineata e senza scadere nella retorica del vittimismo o scomodare ad ogni piè sospinto lo spauracchio del fenomeno della criminalità organizzata che pure gioca un ruolo negativo di non indifferente entità nel territorio dello Stato e delle Regioni, va con forza affermato che il piangerci addosso e la paura di osare non portano ad alcun risultato utile, senza dimenticare, poi, che la nostra Nazione, proprio perché gode di una posizione geografica di assoluto rilievo, rappresenta un’area di eccezionale valore ed importanza strategica per gli operatori commerciali di tutto il mondo ed in particolare di quelli che gravitano nel bacino del mediterraneo. Operatori economici che si pongono naturaliter l’obiettivo di riversare ingenti investimenti tanto nel nostro Paese che in quest’area storicamente ed economicamente importante. E poiché lo sviluppo commerciale rappresenta un indiscusso fattore di pace e di stabilità, è indubbio che tale assetto di tranquillità vada perseguito prevalentemente mediante l’assicurazione di situazioni giuridiche e di regole certe nonché di un efficiente sistema di giustizia commerciale che salvaguardi gli scambi e gli investimenti. Occorre migliorare e rafforzare la posizione competitiva delle P.A. anche regionali, delle imprese sul mercato, anche attraverso il ricorso alle necessarie discontinuità innovative rispetto all’esistente. Occorre trasformare con sapienza in patrimonio organizzativo l’insieme delle conoscenze, delle esperienze e dei valori indispensabili per poter competere nel tempo e reggere il peso della concorrenza con successo.

In poche parole, il nostro Paese deve attrezzarsi per diventare e costituire il vero, grande crocevia della cultura, del commercio e dell’imprenditoria di qualità nel mondo con particolare attenzione al bacino del Mediterraneo.

Per raggiungere tale obiettivo occorre dare un forte scossone alla nefasta e mediocre burocrazia di tutti questi anni, spingendo il sistema gestionale pubblico verso una rinascita delle amministrazioni mediante il ricorso a concreti criteri di razionalità ed efficienza. Ridurre drasticamente gli sprechi e concentrare con sagacia l’utilizzazione dei flussi economici di provenienza europea; porre finalmente mano ad una indispensabile, complessiva e tecnicamente pregevole riforma del settore sanitario che eviti ogni spreco compreso quello della mobilità passiva tra le Regioni; valorizzare con l’attenzione dovuta il settore dell’imprenditoria sana; ricercare le condizioni per modernizzare  o meglio ancora dotare l’intero territorio un nuovo e più completo sistema di infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, rete ferroviaria, strade); determinare il ricorso alla innovazione tecnologica; riuscire ad organizzare in maniera funzionale gli strumenti di tutela del mare e delle splendide nostre coste; potenziare in termini di assoluta serietà l’essenziale settore recettivo turistico ed anche dei beni culturali che costituiscono il vero motore dello sviluppo della economia nazionale e delle Regioni.

Per raggiungere l’insieme di tali finalità occorre avere il coraggio politico e la capacità tecnica di ridisegnare, senza riserve mentali, l’intero asset dell’apparato ordinamentale statuale e regionale -deflettendo finalmente dall’insano e controproducente processo normativo ostaggio del conformismo di fazione capziosamente sin qui veicolato dal mainstream imperante - e, per l’effetto, dare, con forza, scienza e coscienza, un ben assestato calcio negli stinchi ad una sin qui non esaltante storia del funzionarismo burocratico e gestionale del nostro Paese.

Note

[1] Delfino L.M. “Un sogno liberale: evellere il funzionalismo della burocrazia” in Filodiritto editore, rivista on line www filodiritto.com., giugno 2020; ed in “Milanopuntozero Manifesto d’intenti - Guardare al futuro con occhi puliti” di Berni Ferretti G.P.G. - Casa Editrice Kimerik 2020

[2] Delfino L.M. “L’importanza degli studi classici nella formazione universitaria europea” in Racconto di un anno, Figure ed eventi. Celebrazione del bicentenario della fondazione del Liceo Classico “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, pp. 75 e ss. - Rubettino editore 2018

[3]  Delfino L.M. “L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia” in Filodiritto editore, rivista on line www filodiritto.com., gennaio 2016

[4] D.L. 19.5.2020 n:34

[5]  D.L. 16.7.2020 n°76