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Le misure di prevenzione patrimoniali: fu vera gloria? ¡No me lo creo!

Il sole nascente
Il sole nascente

Buon pomeriggio a tutti!

Innazitutto un grazie sentito a Confindustria Reggio Calabria e per essa al suo Presidente, il Dr. Ing. Domenico Vecchio per l’invito rivoltomi con il garbo e la cortesia, propri di un gentiluomo d’altri tempi.

Mi corre altresì l’obbligo di ringraziare anche lo staff dell’Associazione e per tutti la dr.ssa Francesca Cozzupoli per la cura avuta nell’organizzazione di un evento di così articolata complessità ermeneutica. Devo ancora evidenziare, dulcis in fundo, che questo odierno incontro di studio mi è, altresì particolarmente caro, perché, in questa sede, ho un compagno di viaggio, l’On. Avv. Armando Veneto, figura di eccezionale bravura tecnica, faro professionale di grande luce, autentico riferimento culturale per l’intera avvocatura italiana, il quale, e lo ritengo un privilegio, mi ha sempre gratificato della sua illuminata amicizia.

Aggiungo ancora che l’occasione offertami mi gratifica ulteriormente perché mi consente di esporre una personale analisi sull’oggetto dell’odierno incontro, anche nella mia città. Sono, infatti, ben otto anni che, in tutte le sedi nelle quali sono stato chiamato ad intervenire, in Italia ed in Europa, mi sforzo di rappresentare – peraltro in autentica contrapposizione al mainstream dominante nel nostro Paese - l’evidente patologia strutturale di cui risulta affetto il complesso della legislazione emergenziale che - sulla spinta di considerazioni di illiberale sciovinismo giuridico – continua ad aggredire con conseguenze nefaste i principi ed i valori dello Stato di diritto.

Fatte queste doverose considerazioni passo ad esporre per comodità di ascolto, la metodologia sistemica che darò oggi alla mia analisi anche in forza della profonda convinzione che il compito di dare ragionevole forma alla libertà umana pertiene alla scienza giuridica, atteso che il diritto, nella sua intima essenza costituisce il presupposto principe di essa libertà e non già il suo antagonista. E proprio per questa sua peculiarità, lo stesso non può mai essere ravvisato quale frutto di astratta legalità di stampo formale, bensì deve essere inteso quale momento regolatore, nel contesto di un sistema di garanzie, libera espressione di ambito privilegiato di confronto delle idee.

Alla luce di siffatta mia ferma convinzione - peraltro espressa anche in un mio recente saggio dal titolo “L’insostenibile gravità esegetica dell’ingannevole modello giudiziario della prevenzione penale”[1] - ho inteso evidenziare che primaria ed ineludibile esigenza di uno Stato che si rispetti è quella di assicurare ai cittadini un sistema di giustizia che si possa riconoscere, senza se e senza ma, come effettivamente tale.

L’ANELITO DI UNA GIUSTIZIA GIUSTA

San Tommaso continua, ancora oggi, ad insegnare a tutti noi come la concezione di una idea di giustizia senza misericordia si risolve soltanto in una (inutile) manifestazione di crudeltà soprattutto allorquando la sua espressione applicativa -  come peraltro con inusitata frequenza avviene nell’attuale realtà cronotopica -  appare frutto arbitrario e non razionale di un potere esercito da un apparato che - in forza dell’invero ingiustificato dogma della c.d. emergenza sociale (ormai divenuta assurdamente permanente) - trasforma l’eccezione nella regola che insensibilmente pretermette il sospetto - che così assurge a fondamento dell’intero momento metodologico di prevenzione - alla prova e che consente, ribaltando il principio costituzionale di non colpevolezza, di confiscare beni ed aziende persino in assenza di un giudicato, in nome di un’astratta e spesso demagogicamente supposta lotta alla criminalità organizzata con l’avallo cieco di un nefasto meccanismo burocratico e politico-giudiziario che si sviluppa incoerentemente al di fuori di ogni controllo di legalità e di merito, peraltro, ribadisco non fisiologicamente alimentato da un articolato e pedante  sistema di confische e di sequestri che ha contribuito a delineare il  modello organizzativo di riferimento, nel suo complesso, sempre più giustizialista ed autoritario in ragione del fatto che il connotato del sospetto viene considerato quale paradigma privilegiato di collegamento idoneo a giustificare qualsivoglia limitazione della libertà individuale in nome di una, in verità, assolutamente immaginifica – e spesso più artatamente supposta che reale - retorica dell’emergenza sociale tutta tesa ad inserire quale momento strutturale ed ordinario del sistema giustizia misure provvedimentali eccezionali e contingenti che si possono – e forse neppure - giustificare soltanto in momenti di particolare allarme sociale. E questa bieca narrazione dell’emergenza sociale determina, nell’indifferenza collettiva, un ingiustificato vulnus alle garanzie liberali postulate dallo Stato di diritto che devono, sempre e comunque, essere preservate all’iconico fine di dare risposte univoche e corrette ai principi ordinatori ed alle responsabilità che la Costituzione individua quali paradigmi di riferimento necessari, indispensabili ed ineludibili, ad assicurare la garanzia della giusta valutazione dei risultati ai quali deve teleologicamente tendere ogni funzione pubblica degna di rispetto. Un diritto penale di stampo liberale, infatti, per sua genesi concettuale non confisca ai propri consociati innocenti, ovvero persino assolti, proprietà ed aziende, neppure utilizzando additivamente, come si fa in questi tempi non certo felici sotto il profilo delle garanzie, il principio della sperequazione tra il valore dei beni posseduti e quelli dichiarati quale indizio probante dell’illiceità della ricchezza; il tutto con l’ausilio di distorti e spesso di improbabili algoritmi a supporto e validazione  del ricordato, non condiviso, improprio  ed ectoplasmatico connotato, fermamente da ripudiare, del “sospetto” di una spesso non dimostrata quando addirittura ormai, comprovata per acta, cessata pericolosità.  Per non sottacere, poi, delle nubi (talvolta anche di carattere corruttivo) che hanno visto coinvolte le amministrazioni giudiziarie spesso incapaci, per l’incolore qualificazione dei soggetti indicati quali amministratori, di produrre risultati economici producenti. Non è un caso raro, infatti, che il loro non qualificato ed appropriato pedigree professionale sul piano manageriale conduca - a causa di una gestione tecnicamente ed oggettivamente non adeguata - le aziende sequestrate al fallimento imprenditoriale o alla loro crisi economica.

Non è, poi, ancora pleonastico rimarcare l’obiettiva e non contestabile evidenza del fatto che il ricorso, ormai con tanto facile frequenza disposto dall’A.G.O., all’amministrazione giudiziaria mette altresì – e questo è momento di non poco conto, proprio sul piano della sostanza giuridica – in crisi il già sopra ricordato principio costituzionale della presunzione di innocenza, con la conseguenza, che allorquando si assumono provvedimenti giustiziali che vanno ad incidere sul patrimonio dei cittadini, senza che sia stata definitivamente provata la loro colpevolezza, si assiste al rovesciamento artato dell’onere della prova, con l’aberrante effetto che, in simili evenienze, grava sul sospettato  dimostrare la legittimità del proprio operato e non già all’A.G.O. di dimostrare il contrario.

In buona sostanza – utilizzando anche all’attualità il meccanismo metodologico della gogna mediatica denunciato dall’impareggiabile saggio della “storia della colonna infame” di manzoniana memoria - si giunge all’insana conclusione di far assurgere, in modo metagiuridicamente automatico, il sospetto al rango di prova. E ciò, in termini di assoluta evidenza non ha nulla a che spartire con i principi ed il sistema di garanzie propri del diritto penale di una democrazia matura! 

 Alla luce di siffatto mio pensiero procedo a sviluppare l’odierna mia riflessione sulle seguenti matrici di analisi:

1. l’inquadramento dogmatico dell’istituto nell’attuale quadro sistemico;

2. l’inopportunità tecnica di ricorrere all’adozione del prefato istituto;

3. I rilievi della CEDU e l’ectoplasmatica risposta data dall’Avvocatura Generale dello Stato;

4. L’adombrata novità di diritto interno rappresentata dalla proposta di legge Pittalis.

                                                                                                                                                                               

L’INQUADRAMENTO DOGMATICO DELL’ISTITUTO NELL’ATTUALE QUADRO SISTEMICO. COSA SONO LE MISURE DI PREVENZIONE ED IN FORZA DI QUALE ARCANO MISTERO ESSE ABBIANO SUPERATO IL VAGLIO DI COSTITUZIONALITA’

Come è noto le misure di prevenzione costituiscono un paradigma della c.d. “penalità”; grafema concettuale, che, però, ex se, si presenta, ontologicamente diverso tanto dalla pena che dalle c.d. misure di sicurezza e la cui fisionomia identificativa, oserei dire, assume una connotazione talmente peculiare da poter essere obiettivamente meglio definita all’interno del panorama giuridico come figura del tutto eccezionale.

Infatti ad un’analisi ermeneutica corretta, detto istituto, unitamente alle misure di sicurezza, fonda la propria ragion d’essere non già sul concetto di responsabilità per un’azione delittuosa commessa in precedenza, bensì su una ipotesi concettuale legata al “pericolo” dell’evenienza di un reato che potrebbe essere commesso nel futuro.

In buona sostanza, nell’attuale quadro sistemico, le misure di sicurezza e quelle della prevenzione divergono dalla pena perché, a differenza di quest’ultima, entrambe sono palmare espressione del presupposto giuridico fondamentale secondo il quale esse attengono non già ad una ipotesi di responsabilità del destinatario, bensì alla supposta sua pericolosità. Il dato peculiare e distintivo, poi, delle misure di prevenzione - situazione per quanto in questa sede di analisi - proprio per fondare la loro genesi nella pericolosità dell’inciso prescindono dall’accertamento del fatto.

Non è, altresì, inutile riferire che esse proprio per la circostanza che fondano la loro ragion d’essere sulla pericolosità, in uno con il mancato accertamento del fatto, posizionano dogmaticamente siffatte misure addirittura al di là del limite proprio della penalità, e persino ben oltre al perimetro delle misure di sicurezza le quali, ancorché fondate sul principio della pericolosità non possono mai prescindere dall’accertamento del fatto reato. 

Non è comunque pleonastico, a scanso di equivoci, pensare che possano sussistere dubbi di sorta sotto il profilo della legittimità costituzionale dichiarata, del pieno ed assoluto riconoscimento di cui dette misure di prevenzione godono nell’ordinamento interno anche se, per vero – e ciò non va mai dimenticato - le ragioni che hanno condotto il Giudice delle leggi, a salvare dette misure di prevenzione, dal sindacato di illegittimità costituzionale, sono esclusivamente incentrate sulle finalità “politiche” che ne costituiscono il fondamento piuttosto che la considerazione delle conseguenze reali che si riverberano sulla vita delle sfere giuridiche soggettive che, a torto o a ragione, ne sono incise.

Invero, non è inutile, a tal proposito, ricordare come ormai troppo spesso (almeno da venti anni a questa parte) anche la Consulta sta svolgendo un ruolo che obiettivamente non è previsto per essa dalla Carta, e cioè quello di operare le sue valutazioni sulla scorta del c.d. “bilanciamento dei diritti”; tecnica questa che è ormai divenuta pratica comune alle sentenze della Corte, allorquando si discute di interventi che afferiscono a questioni che coinvolgono l’interesse dei singoli. Esso Giudice delle leggi, infatti, oggi esercita (a mio avviso impropriamente) la sua valutazione con lo scopo di mantenere in equilibrio i c.d. “interessi costituzionalmente rilevanti”, con la ulteriore non fisiologica implicanza di giungere ad attribuire ai prefati interessi una più pregnante importanza rispetto ai diritti; operazione questa che – come nel caso della legislazione emergenziale - dissimula, però, stricto jure, una non corretta soluzione di opportunità politica.  

Non sfugge, infatti, ad una sana e rigorosa ermeneusi come il bilanciamento di qualsivoglia diritto fondamentale sia da considerarsi – tanto sotto lo spaccato giuridico che sotto il profilo ontologico - operazione tecnica impossibile, atteso che nessuno dei diritti riconosciuti universalmente come fondamentali, può essere mai, in alcun modo e misura, gerarchizzato o compresso rispetto a qualsivoglia altro diritto di eguale rilevanza. Pertanto quanto oggi accade con le decisioni del Giudice delle leggi in materia di legislazione emergenziale costituisce una più che evidente invasione di territori che non gli appartengono, perché il medesimo non può, di certo, autonomamente spogliarsi del ruolo giurisdizionale assegnatogli dalla Carta per divenire quasi un terzo organo legislativo. 

 

LA NATURA RIPRISTINATORIA DI TALI MISURE

Invero, anche la natura c.d. “ripristinatoria” che astrattamente connota la misura, non può essere considerata effetto disgiunto dal connotato di afflittività viepiù che tale condizione di concreto avvilimento presenta una non irrilevante incidenza sui valori in gioco, soprattutto nell’ipotesi, spesso non peregrina, in cui l’accertamento giustiziale (sentenza) rileva l’assoluta assenza di reato alcuno.

Purtuttavia ed al di là del verificarsi della superiore considerazione (assoluzione dell’inciso), va, comunque, sottolineato che è proprio il carattere di legittimità che accompagna l’istituto a indicare il reale livello di guardia entro il quale va contenuta la misura di prevenzione che per sua intrinseca ed estrinseca connotazione dogmatica non può di certo esondare rispetto appunto alla eccezionalità del suo carattere e che, quindi, non può prevedere nel modo più assoluto di tralignare, sempre e comunque sino al punto, da giungere all’apodittico risultato dell’estensione della confisca  a tutte le tipologie di soggetti c.d. pericolosi, anche perché la misura di prevenzione che si dovesse concretizzare con un provvedimento di confisca afferisce non soltanto alla sfera patrimoniale tout court  ma si estende anche all’aspetto riconnesso all’attività lavorativa nonché - cosa eticamente ancor più rilevante - alla dignità personale e sociale dei soggetti coinvolti.

 

LA PRUDENZA ERMENEUTICA NELLA LORO APPLICAZIONE

La prudenza ermeneutica impone, agli operatori del diritto - siano essi giuristi, magistrati o avvocati nell’esercizio della quotidiana e puntuale analisi delle spesso non semplici fattispecie concrete di esame - di non dimenticare mai che le ricordate misure di prevenzione sono pur sempre strumenti di gestione della patologia, comunque di carattere eccezionale, che vanno maneggiati con cura, con coscienza civile e senza il ricorso a demagogiche applicazioni. Infatti non appare inutile, a mio avviso, porre in risalto che spesso la loro irrogazione risulta del tutto svincolata da una vera e propria esigenza sociale, ma si pone piuttosto quale espressione di una non rara ed irriflessa esigenza degli organismi cui la legge attribuisce in via esclusiva il cd. potere punitivo che strumentalizza, quale momento talvolta fuor d’opera, forme di controllo che si sostanziano prima ed al di là dei reati; il tutto facendo riferimento ad astratti principi formali e processuali, obliando di considerare che tanto il concetto di legalità quanto quello del processo non costituiscono, come è noto, ex eis garanzia di alcunché. E ciò perché gli elementi indiziari che vengono impiegati per formulare l’astratto criterio di pericolosità, sia essa di tipo generico che di tipo specifico, sono tutti fortemente se non esclusivamente incentrati sul sospetto della commissione di un reato a cui si aggiunge additivamente il necessario e non eludibile requisito della pericolosità sociale meglio e più opportunamente definito quale giudizio di certa attualità della ricordata pericolosità.

Va, inoltre, altresì ermeneuticamente considerato che la situazione indiziaria, di per sé, non si traduce necessariamente ed automaticamente in fattispecie configurabili ipotesi di reato, di guisa che un’attenta analisi – non guidata da furia iconoclasta di sorta – non può prescindere dalla non secondaria considerazione che non si può condurre lotta alcuna alle pulsioni malavitose conculcando i principi (inviolabili) dello Stato di diritto e non rispettando la libertà dei cittadini, viepiù in ragione dell’assioma che non sussiste, sotto il profilo della realità, alcun bene che ex se non possa produrre comunque effetti (profitti) leciti, anche  attraverso la gestione affidata ad amministratori giudiziari. Opinare in senso contrario significherebbe produrre o quantomeno avallare la nefasta conseguenza di impedire di far conseguire ai beni stessi l’intrinseca, ineludibile loro programmatica esigenza di assolvere ad una funzione sociale che, incontestabilmente, è, in radice, nelle loro corde.  

La questione non è di poco momento atteso che se siffatto giudizio dovesse risultare assente le misure di prevenzione si verrebbero a connotare come un succedaneo del diritto penale sostanziale, ovvero si applicherebbero all’inciso sanzioni a fatti rispetto ai quali mancherebbe la prova. La pericolosità senza la correlazione all’essenziale requisito dell’attualità attenua, anzi mette addirittura in crisi il complessivo sistema delle misure di prevenzione.

Infatti se  tale requisito della pericolosità risulta del tutto assente in termini di tutta evidenza si deve giungere alla conclusione che le misure di prevenzione de quibus non andavano, non vanno e non possono essere applicate, a meno di non considerare (del tutto erroneamente) il fatto che le medesime possano assurgere (e ciò è tecnicamente impossibile) al rango di sanzioni correlate a fatti non provati, con l’ulteriore ontologicamente impropria implicazione di ammettere la  conseguenza (vietata dalla legge) di ritenere possibile – si ribadisce   contra jus – colpire anche soggetti  rispetto ai quali non si è in grado di provare alcuna delle astrattamente ed impropriamente dichiarate responsabilità.

 

PER LA CONFIGURAZIONE ERMENEUTICA DEL GIUDIZIO DI PERICOLOSITA’

Il giudizio di pericolosità, infatti non può essere declinato soltanto in modo disancorato dalla realità, atteso che per la sua configurazione sono indispensabili: a) l’accertamento di un fatto; b) la pericolosità teorica; c) la c.d. precedente attività delittuosa, rectius la comparazione tra precedenti e fatto accertato. Da quanto evidenziato si deduce agevolmente che i punti problematici riconnessi alla legittima possibilità di esistenza della pericolosità e della sua attualità sono sostanzialmente due: 1) il modo in cui sono utilizzati i precedenti; 2) la mancanza di accertamento di un fatto.

Alla luce delle superiori considerazioni si ricava dunque - con agevole linearità e senza possibilità di ermeneusi di segno contrario - che le valutazioni dei ricordati precedenti inducono ad individuare il momento centrale per la determinazione del giudizio di pericolosità, ai soli precedenti indispensabili per sostenere il sospetto, atteso che questi ultimi non possono non attenere che a fatti già accertati, i quali, in qualche modo e misura, in termini reali ed effettivi, danno sostanza al simulacro qualificante il sospetto a cui, non si dimentichi, va additivamente aggiunto l’ineludibile paradigma oggettivo in forza del quale l'azione di prevenzione criminale, deve comunque essere necessariamente e coerentemente supportata, pena la sua illegittimità, anche sul piano delle garanzie procedimentali.

E ciò perché anche in un tempo tanto infelice come l’attuale, connotato da tutele obiettivamente attenuate, non è consentito al giudice, sia esso penale che amministrativo (in materia di interdittive), l’esercizio di alcun sindacato giustiziale che possa prevedere l’applicazione della misura di prevenzione nei confronti dell’inciso in forza di semplici congetture motivate su ipotesi di mera ed astratta possibilità. Evidenza ne è che, anche di recente, la Suprema Corte di Cassazione (Sez. I penale con sentenza dell’11.4.2023 n°15156) ha paradigmaticamente stigmatizzato quale “esempio di fallacia per generalizzazione” l’irrogazione giustiziale di misure di prevenzione non supportata da concrete considerazioni fattuali, sicché ogni decisione assunta in spregio a tale obbligo ermeneutico va senza indugio disattesa e respinta, perché non ammissibile per la sua assoluta dogmatica implausibilità.

Da qui l’assoluto ed indefettibile obbligo del giudice di dover motivare la propria attività provvedimentale non soltanto sotto lo spaccato della pericolosità sociale, bensì anche sotto il profilo dell’attualità di tale declinato status di pericolosità.

Va, ancora, altresì, soggiunto che l’accertamento della pericolosità sociale nel procedimento per la proposta della misura patrimoniale va considerato elemento fondante ed imprescindibile, al fine di verificare - nell’arco temporale preso in considerazione - la reale e non generica sussistenza e dimostrazione dei singoli fatti e degli atti di incremento patrimoniale ritenuto frutto di illiceità; fatti ed atti i quali non possono giammai essere ritenuti supposti ma vanno puntualmente identificati, indicati ed analiticamente dimostrati come operazioni suscettibili della valutazione di illecita provenienza dei beni stessi, sia con riferimento alla c.d. pericolosità generica  che a quella definita come qualificata, atteso che entrambi i ricordati profili di pericolo presuppongono comunque e senza possibilità di ermeneusi di segno contrario, la determinazione della loro collocazione nel tempo, soprattutto con espresso riferimento alla indispensabile individuazione del termine finale di manifestazione concreta della ricordata pericolosità.  

La superiore specificazione concettuale si rende viepiù necessaria anche in considerazione dell’obiettiva evidenza  che molto spesso nei decreti delle Sezioni Misure di Prevenzione dei Tribunali italiani la proposizione motivazionale adottata appare espressa in termini di palese contraddittorietà, laddove si evidenzia, purtroppo con estrema e lacunosa genericità che la condizione di pericolosità si evince “… dall’intero percorso esistenziale di vita dei proposti … nonché dal prospetto sperequativo espresso dall’Organo proponente”.

 

L’AZIONE DEI TRIBUNALI

Invero malgrado i Tribunali spesso abbiano correttamente, richiamato la pronuncia delle SS.UU. della Cassazione n°40778/2021 e cioè il principio dicotomico secondo il quale va distinto il rapporto di pericolosità qualificata da quello della pericolosità sociale, purtroppo, con altrettanto non entusiasmante frequenza, detti Organi giustiziali non si sono peritati e purtroppo continuano a trascurare, nelle fattispecie sottoposte al loro esame, di evidenziare le differenze (sostanziali) tra i due momenti dogmatici, ma apoditticamente fanno prevalere l’aspetto non meglio definito “del c.d. percorso esistenziale degli incisi” assumendo quale elemento additivo della loro decisione il presupposto della sussistenza del momento sperequativo anch’esso in realtà, in tante occasioni soltanto supposto ma non concretamente verificato. A tal proposito non appare inutile ricordare come anche questo secondo leitmotiv della sperequazione il più delle volte, se non nella totalità dei casi, si appalesa stricto jure come un fuor d’opera, in considerazione dell’obiettiva evidenza che la delineata configurazione strutturale di siffatto, in termini generici, richiamato costrutto non appare altro che il frutto di un’astratta ed impropria operazione aritmetica privo di pregio giuridico alcuno a cui viene strumentalmente riconnesso un effetto aggregativo insussistente, sia avuto riguardo alla realtà delle cose, sia anche alle improprie considerazioni statistiche sulle quali pretenziosamente fa leva.

A tutto ciò non è pleonastico aggiungere, e non soltanto sotto il profilo strettamente dogmatico ma anche sul piano dell’evidenza del reale – al fine difensivo legittimo di disarticolare l’insieme dell’improprio costrutto attraverso il quale, in sede di applicazione della misura di prevenzione, si presume di sorreggere la pretesa provvedimentale – come la confisca di prevenzione reca ex se il non dissociabile connotato dell’ablatorietà correlato alla sussistenza della (non soltanto supposta) presunzione che i beni presi in considerazione nell’ambito di “un processo al patrimonio” siano frutto di azioni illegittime o illecite.

 

IL CONNOTATO DELL’ABLAZIONE NON COSTUISCE MAI UNA SANZIONE

Va, poi, ancora soggiunto, per completezza di pensiero, che il connotato dell’ablazione sopra richiamato, anche se sul piano astratto non si caratterizza quale ipotesi sanzionatoria, si sostanzia pur sempre quale provvedimento penale sui generis che si configura, al più, quale naturale - che però, attenzione, va compiutamente e puntualmente dimostrata - conseguenza dell’ipotesi di illecita acquisizione di beni. 

Non appare inutile ricordare – e ciò dovrebbe rientrare nel patrimonio culturale anche del meno sofisticato dei giuristi – e, quindi, giungere alla non contestabile conclusione ermeneutica, che perché sia giuridicamente possibile l’applicazione della misura di prevenzione, oltre al presupposto soggettivo della pericolosità sociale di coloro che vengono incisi e dell’accertamento, in capo agli stessi, occorre accertare anche la concreta e reale sussistenza dei presupposti c.d. oggettivi (così come delineati e postulati dagli artt. 20 e 34 del D.lgs n°159/2011 e ss.mm.ii., e cioè: a) la disponibilità dei beni da parte del preposto, b) la sufficienza, quantomeno indiziaria, della provenienza attendibilmente illecita dei beni. Requisiti che il più delle volte mancano o sono insufficientemente evidenziati nella maggior parte dei provvedimenti di applicazione delle misure di prevenzione.

 

L’INOPPORTUNITA’ TECNICA DI RICORRERE ALL’ADOZIONE DELL’ISTITUTO SOPRA ANALIZZATO

Secondo quanto già prospettato nel superiore paragrafo di questo mio intervento relativo all’inquadramento dogmatico dell’istituto misura di prevenzione, ritengo utile segnalare che nell’attuale realtà cronotopica  siamo di fronte ad un modus operandi connotato,  e non con ragione - sia in ambito amministrativo che sotto lo spaccato meramente giudiziario - dalla volontà di affrontare il tema del contrasto al fenomeno criminale o criminogeno che dir si voglia, utilizzando a piene mani, se non anche pressoché esclusivamente, istituti che si configurano quale riflesso diretto di una legislazione di carattere marcatamente emergenziale, peraltro, reso assurdamente indefinito nel tempo (cfr. D.Lgs n°159/2011 e ss.mm.ii.).

La tendenza dilagante  riconnessa alla c.d. panpenalizzazione degli illeciti, unita alla obiettivamente non fisiologica assimilazione (in termini di afflittività) di un - in realtà più supposto che reale - postulato tristemente tipico di un’emergenza legislativa che si snoda infelicemente tra sanzioni amministrative, misure preventive e sanzioni penali, ha raggiunto livelli nei quali la certezza (rectius l’attendibilità) del diritto risulta sempre più minacciata  ed i casi di errori di valutazione giustiziale a danno di sfere giuridiche soggettive non correttamente incise rischiano di crescere in modo e misura irragionevolmente esponenziale, peraltro senza alcuna utilità sociale.

 

ALCUNI INTERROGATIVI FISIOLOGICI

Si può mai, però, domando e mi domando, nel giudizio di prevenzione, ignorare che la prova sia pure indiretta ovvero indiziaria non debba essere ragionevolmente sorretta dai caratteri della gravità, precisione e concordanza postulati dall’art. 192 c.p.p. (valutazione della prova) e che possa, comunque, andare esente dai necessari riscontri individualizzanti?  E’ mai possibile dar credito ad una simile, innaturale e metagiuridica stortura?

 

AGGRESSIONE DEI PATRIMONI ANCHE SOLO SUPPOSTAMENTE ILLECITI SENZA ALCUNA GRANZIA PROCEDIMENTALE  

In verità, questo strumento operativo che sul piano effettuale nasce come già detto, in altra parte di questa ormai lunga mia riflessione, quale ipotesi applicativa di carattere preventivo e peraltro del tutto residuale rispetto al momento di penalità, in buona sostanza si pone quale comodo, ancorché privo delle normali garanzie procedimentali, éscamotage giuridico per aggredire i patrimoni anche solo suppostamente ritenuti illeciti.

In realtà, in questa non lineare operazione tecnica si giunge addirittura all’assurdo di fare a meno della valutazione, anche solo prognostica, persino del connotato di pericolosità futura del soggetto destinatario del provvedimento di prevenzione. Non è inutile riferire, però, che così intervenendo la misura stessa – e ciò è persino contraddittorio con il quadro normativo di riferimento perché genera un patologico ed ibrido percorso di disallineamento ordinamentale anche rispetto ai principi ed ai valori costituzionali  - viene a perdere la sua funzione tipica e peculiare, che è quella del carattere eccezionale e preventivo, cui la medesima è, nella ratio legis, preordinata, per tralignare nell’ambito di caratteri e connotati più marcatamente sanzionatori del tutto non riconnessi, e comunque, ictu oculi, tecnicamente non riconducibili, alla sua configurazione dogmatica. E ciò va, senza reticenza alcuna, sottolineato non è obiettivamente normale e non conferisce dignità e prestigio a chi da giurista è chiamato all’assunzione di siffatta attività di tipo provvedimentale.

Riprova ne è che l’aver consentito di procedere alla confisca in modo disgiunto dalla misura di prevenzione personale ha sostanzialmente trasformato la confisca medesima in una occasione certamente non fisiologica per reprimere l’illiceità vera o presunta dei profitti.

Siffatto procedere è, in termini di tutta evidenza, impropriamente funzionale alla regressione del processo penale (la regola) a vantaggio di quello che dovrebbe, invece, essere considerato (misura di prevenzione) un surrogato, sia pur nobile nelle intenzioni, utile per comunque giungere a recuperare le conseguenze patrimoniali del processo attraverso la conclamata asistematicità dell’azione di prevenzione che, intuitivamente, non si fonda sulla intangibilità dell’accertamento della reale pericolosità degli incisi, bensì sulla sostanziale instabilità del giudicato e sull’in verità improprio riconoscimento che addirittura consente l’esercizio dell’azione di prevenzione anche soltanto su nuovi e spesso incerti ed incoerenti, presupposti di fatto per i motivi tutti ampiamente evidenziati.

 

I RILIEVI DELLA CEDU DEL 10 LUGLIO 2023, PUBBLICATI IL 28 AGOSTO 2023 E LA LABILE RISPOSTA DATA DALLO STATO ITALIANO IL 30 NOVEMBRE 2023

Sull’improvvido sistema così delineato delle misure di prevenzione antimafia di cui al d.lgs n°159/2011, è intervenuta, a mo’ di maglio,  una incognita di non poco momento, giacché a seguito del ricorso n°29614/2016, pendente davanti alla prima sezione della Corte Europea, il nostro Governo è stato onerato di fornire una risposta ai puntuti quesiti sollevati dalla CEDU a seguito del prefato ricorso, peraltro già giudicato ammissibile, interposto davanti allo stesso Organismo giustiziale europeo dai signori Cavallotti i quali, malgrado la  intervenuta loro  ampia e definitiva assoluzione, nell’anno 2010, dall’accusa  di 416-bis dalla Corte di Appello di Palermo si  sono visti irrogare dalla Cassazione,  nell’ambito di un procedimento di prevenzione, la confisca definitiva dei loro beni, ivi comprese diverse società di proprietà anche di propri familiari, sull’evidente improprio presupposto  che la confisca de qua, così come postulata nell’uso ormai divenuto tristemente corrente della giurisdizione italiana, non rientrerebbe, nell’ambito della materia penale, obliando, però, con non elegante sottolineatura imbibita di sterile furbizia, di ricordare che se così fosse si dovrebbe giungere alla conclusione non peregrina che, comunque, la cornice entro la quale andrebbe – e non soltanto semanticamente - inquadrata la misura di prevenzione non può che trovare ragionevole e fisiologica collocazione che con esclusivo riferimento al tempo futuro della vita del soggetto inciso, al commendevole scopo di inibire allo stesso ogni possibilità di reiterazione di manifestazioni di pericolosità sociale.  Ma se quel soggetto non è più pericoloso perché assolto in sede penale o se addirittura risulta defunto (non sono pochi i casi) mi sembra del tutto azzardato che nei confronti del medesimo si possa ipotizzare una prossima e del tutto eventuale dissacrazione dei principi propri della legge attraverso l’applicazione della misura della confisca. E se anche si tentasse, come ha sin qui fatto lo Stato italiano con l’ectoplasmatica risposta dell’Avvocatura Generale di sostenere l’autonomia e la differenza funzionale tra i due procedimenti (penale e di prevenzione), non è giuridicamente  plausibile, in  alcun caso, pretendere di legittimare la  “bestemmia giuridica” di giungere, per altra via e sotto altra ottica, a rivalutare i fatti di un procedimento penale che si è concluso con una assoluzione perché, così procedendo, si verrebbe a determinare una sostanziale violazione del giudicato penale con l’ulteriore conseguenza di originare un più che palese conflitto con le garanzie proprie del giusto processo che costituisce uno dei cardini essenziali anche della normazione europea.

Non è inutile riferire, però, che tale invero paradossale declinazione tutta volta a preservare una più che evidente anomalia del sistema interno sfugge persino a qualsivoglia copertura costituzionale in ragione dell’ineludibile assioma costituito dal principio di legalità, e dai conseguenziali relativi corollari della irretroattività della legge penale, delle riserve di legge e di giurisdizione, nonché dell’immacolato riferito icastico fondamento del giusto processo, viepiù che appare del tutto estranea a qualsivoglia processo logico di sana natura ermeneutica negare il connotato di indubbia afflittività, indiscutibilmente ed inscindibilmente riconnesso - quale intrinseco elemento caratterizzante –  a detta misura, per fantasiosamente ipotizzare di enucleare la stessa all’inequivoco perimetro proprio della materia penale.

L’éscamotage di pretendere di decampare dall’ambito penalistico, però, non ritengo sia rimedio particolarmente perspicace stante il non esaltante, attuale grado di qualificazione del livello tecnico della legislazione e della risposta del sistema giustiziale italiano; entrambi tesi a dar testardamente corpo al mantra spesso surreale, ancorché sorretto dalla nobiltà, sul piano delle intenzioni, della lotta alla criminalità organizzata.

Siffatto metagiuridico espediente, espresso dalla nota dell’Avvocatura Generale dello Stato, in realtà, appare paragonabile al c.d. riflesso del cane di Pavlov, ossia al riflesso acquisito che viene provocato da uno stimolo aspecifico associato - con presupposta, reiterata e costante cadenza - ad una sollecitazione naturale.

Addirittura nella risposta alle sollecitazioni della CEDU, il predetto Organismo tenta, a mio avviso maldestramente, di sostenere - assimilandola alla confisca urbanistica - che la confisca di prevenzione possa essere ritenuta non già una pena, bensì una sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio,  ma addirittura anche ad ipotizzare che detta ablazione si possa definire una misura di prevenzione in senso stretto, nonostante il legislatore abbia espressamente collocata detta previsione normativa nel contesto delle disposizioni patrimoniali. In questo suo arzigogolato tentativo dialettico, però, detta Avvocatura dello Stato, oblitera di considerare che anche la sanzione amministrativa della confisca urbanistica viene considerata dall’Europa soltanto ed esclusivamente quale pena.

La riprova di quanto qui evidenziato sta nel dato paradigmatico e non contestabile che con l’irrogazione delle misure di prevenzione patrimoniale, comminata anche dopo un’assoluzione senza se e senza ma, all’esito del processo penale, l’inciso dalla confisca resta deprivato in toto del proprio patrimonio e derelitto per l’impossibilità di condurre una seria gestione della propria vita economica e sociale, viepiù che l’ipotesi di una eventuale e per di più improbabile riabilitazione non potrà che avvenire a “babbo morto” e solo dopo non certo pochi anni “di purgatorio”.

A fronte di tale indiscutibilmente del tutto irragionevole sistema legislativo e giudiziario offerto dal nostro Paese, la giustizia europea – su, articolata ed argomentata sollecitazione di parte (Cavallotti) -si è attivata nei confronti della Stato italiano atteso che quest’ultimo Organismo ha dilatato, a mio avviso, in totale assenza di fondate ragioni ermeneutiche, la configurazione dell’istituto della confisca di prevenzione “antimafia” del tutto al di fuori del tradizionale e suo naturale alveo applicativo.

L’intervento della CEDU si presenta, infatti, come dato di sicuro e non sottacibile rilievo, attesa l’obiettiva evidenza che la indiscussa necessità di modificare l’incredibile assetto concettuale in essere per riconoscere la natura penale delle misure di prevenzione, farebbe fragorosamente crollare l’intera impalcatura su cui artificiosamente si è sin qui retto il surreale modello italiano, anche in considerazione del fatto che si renderebbero applicabili anche a siffatto peculiare e improprio archetipo metodologico nostrano il sistema delle garanzie postulate dagli artt. 6 (equo  processo) e 7 (principio di legalità riconnesso alle previsioni di reato e delle pene, nonché ogni divieto di applicazione retroattiva delle stesse) della Convenzione europea dei diritti umani, nonché l’art. 4 (divieto del ne bis in idem) del protocollo 7, che, fra l’altro, non ammettono l’ipotesi di qualsivoglia sistema di misure di prevenzione privo di garanzie, comminato senza prove e spesso addirittura senza supportazione alcuna dei fatti come sciaguratamente avviene nel nostro Paese.  

In particolare la CEDU, con provvedimento interlocutorio del 10 luglio 2023  ha invitato lo Stato italiano a risolvere, per quel che qui interessa, il nodo sulla compatibilità fra giudizio assolutorio in sede penale e confisca di prevenzione sulla considerazione che “nel caso di assoluzione in un processo penale la confisca dei beni viola la presunzione d’innocenza”, peraltro postulata in maniera inequivoca tanto dall’art. 6, pgf 2 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che dal nostro Ordinamento costituzionale (art 27, 2° comma).

Ancora più in dettaglio la CEDU evidenzia con icastico nitore concettuale che la confisca, così come concepita dall’Ordinamento italiano, interferisce, con effetto destruente, sul libero godimento dei beni detenuti dalla sfera giuridica soggettiva perché:

1. non tiene in debito conto l’esigenza di ragionevolezza del giudizio di pericolosità qualificata a fronte di una intervenuta assoluzione del soggetto destinatario di siffatto verdetto;

2. non prende in considerazione l’imprescindibile oggettiva necessità di correlare ai soli soggetti realmente titolari dei beni confiscati e non già agli intestatari degli stessi, privilegiando il massimamente più corretto metodo probatorio piuttosto che l’aleatoria condizione del mero sospetto;

3. non si perita di prendere in considerazione l’ineludibile bisogno di determinare l’eventuale provenienza illecita dei beni attraverso l’oggettiva valutazione di effettive risultanze probatorie e non già di un comunque deprecabile mero sospetto, additivamente neppure considerando il momento temporale in cui detti beni sono stati acquisiti;

4. postula il diabolico ribaltamento dell’onere della prova a carico della sfera soggettiva soprattutto quando la provenienza di detti beni di riferimento in capo al soggetto risale ad epoca remota nel tempo;

5. determina la sostanziale assenza della possibilità, per gli incisi, di esporre, in termini di concreta effettività, le argomentazioni difensive in loro favore nonché la certezza di vedere effettuare da parte dell’organo giudicante un’apprezzabile e seria disamina valutativa delle ragioni addotte.

A ben riflettere, l’analisi della ricordata e ben articolata ordinanza della Corte europea tende a mettere in crisi l’attuale modello interno, dal momento che fa leva sui non confutabili concetti basici secondo i quali la misura di prevenzione deve: a) presuppore l’accertamento della colpevolezza del proposto; b) la rilevazione dell’assimilazione della stessa ad una pena; c) ed infine essere fondata sulla prevedibilità di una disposizione di legge. 

In buona sostanza il prefato dictum preconizza la necessaria e non sottacibile incombenza della pregiudizialità penale. In ragione di quanto sopra rilevato l’intervento della CEDU tende a valorizzare, con significativa dirompenza, la plastica evidenza che in assenza di formale sentenza di condanna la pretesa della prevenzione non ha ragiono d’essere. Siffatta considerazione contribuisce così a mettere in crisi, anche sul piano della mera logica ermeneutica il presupposto della possibilità della sussistenza dell’attuale e culturalmente ingiustificato modello asistemico che a ben ragione appare un monstrum proprio sotto il profilo della sua configurazione giuridica, stante anche l’obiettiva considerazione che il codice antimafia non chiarisce quale sia la natura e lo standard probatorio che deve sorreggere l’adozione delle misure patrimoniali ed inoltre perché la stessa normazione prevede - contro ogni principio europeo (e a dire il vero anche nazionale) in tema di misure sanzionatorie, tutte come è  noto correlate al canone dell’accusatorietà – l’ingiustificata inversione dell’onere della prova, senza tener in alcun conto se detto improprio ribaltamento imponga un onere eccessivo in capo agli incisi e senza dare agli stessi la ragionevole opportunità di presentare le loro argomentazioni davanti ai Tribunali nazionali e senza che questi ultimi Organismi si siano peritati di esaminare e di dare apprezzabile, espressa contezza delle ragioni prodotte dai ricorrenti.    

In buona sostanza, tale, ineccepibile analisi ermeneutica porta a significare che il sistema della presunzione di pericolosità in essere messo in piedi dal codice della legislazione antimafia non può essere, ove lo sia mai stato, vera gloria, anche alla luce quanto già preconizzato in tempi non sospetti e con specchiata lucidità dal grande Leonardo Sciascia: “quando tutto diventerà mafia nulla sarà più mafia”!

A tale icastica ed inequivoca proposizione della CEDU il Governo italiano, tramite l’Avvocatura dello Stato, ha fornito il 30 novembre u.s. una risposta con delle argomentazioni che, nella più benevola delle ipotesi appaiono del tutto fragili se non addirittura surreali. Sostiene infatti l’Avvocatura che il sistema delle confische non contraddice il principio della presunzione di innocenza, giacché le medesime non vengono irrogate in virtù del reato di associazione mafiosa ma trovano la loro scaturigine negli astratti e metagiuridici concetti di “appartenenza”, “soggiacenza” e/o “contiguità funzionale”: situazioni queste tutte concettualmente qualificabili come frutto di una fantasiosa, supposta pericolosità che, pur non riconducibili ad alcuna fattispecie di reato, renderebbero, comunque, il c.d. proposto meritevole di essere posto nelle condizioni di non nuocere. Con questo éscamotage de politique d’abord l’Avvocatura tenta di difendere l’indifendibile!  Tutto ciò ha dell’incredibile! 

Negare, infatti, la natura penale delle misure di prevenzione patrimoniali è un abominio utile soltanto alla oscura necessità di conservare il sistema.

Preconizzare, infatti, un postulato secondo cui un soggetto innocente possa essere afflitto da misure ablative, persino quando lo stesso non risulti, in termini di tutta evidenza, perché assolto, intraneo alla consorteria mafiosa, e che soltanto perché vittima di associazioni criminali che lo hanno costretto a pagare  il c.d. pizzo, viene ad essere “mascariato” e, quindi, per ciò stesso essere potenzialmente destinatario della misura della confisca appare indiscutibilmente oggettiva deriva di perfido pensiero. In buona sostanza, alla luce di tale inammissibilmente contorto costrutto concettuale, in spregio ai principi ed ai valori propri dello Stato di diritto, nell’attuale ordinamento interno si giunge al paradosso di legittimare la confisca dei beni a delle sfere giuridiche soggettive del tutto innocenti le quali sono costrette a soggiacere alla confisca medesima perché hanno il solo torto di risultare indiscutibilmente vessate due volte:  la prima dalla mafia a cui sono stati costretti a pagare il pizzo e la seconda dallo Stato che attraverso la misura della confisca  le depreda dei loro beni.

E’ questo l’assurdo scenario che questa nostra Italia prospetta, con incredibile supponenza ai giudici dell’Europa che a mio avviso non mancheranno di porre rimedio a tale del tutto più che palese incongruenza!

 

LA PROPOSTA DI LEGGE PITTALIS SULLE MODIFICHE DA APPORTARE AL CODICE ANTIMAFIA

Un paradigma di maggiore serietà rispetto alle non proprie ragioni postulate dal più volte ricordato documento di risposta ai rilievi della CEDU, offre la autonoma soluzione di diritto interno attraverso la proposta di cui in rubrica. La richiamata iniziativa legislativa, volta alla modifica delle norme sulle misure di prevenzione, meritoriamente esprime la non più procrastinabile necessità di giungere - comunque, ed al di là della più che corretta pressione dello stigma della CEDU  - ad una concreta modifica al codice antimafia teleologicamente preordinata a considerare l’obiettiva reale necessità di impedire che i patrimoni delle persone risultate, a seguito di giudicato penale, a tutti gli effetti estranee alle organizzazioni mafiose vadano dispersi.

La proposizione certamente più razionale sottesa alla prefata soluzione c.d. Pittalis  ha il merito di porsi in stretta discontinuità rispetto  al presupposto rappresentato dall’attuale stato dell’arte che in subiecta materia ha fondato la sua invero anomala ragion d’essere sulla esigenza, peraltro tecnicamente non motivata e non motivabile, della insopprimibile necessità “politica” di approntare una strumentazione straordinaria di contrasto alla criminalità organizzata, senza badare al fatto che esso attuale, sistema così come ipotizzato e realizzato, non ha fatto altro che compromettere, senza alcun vantaggio concreto – sia sotto il profilo logico che di obiettivo risultato - l’intero impianto dell’apparato strutturale proprio delle garanzie e delle tutele che uno Stato liberale e di diritto deve assicurare sotto forma di tutela delle persone, viepiù che nella pratica giudiziaria non sono pochi i casi in cui le misure di prevenzione patrimoniale vengono irrogate addirittura anche nei confronti di soggetti che per le medesime risultanze fattuali sono stati assolti dall’imputazione di 416-bis in sede penale, nonché addirittura giungono ad estendere la confisca persino agli eredi di un soggetto defunto anche nel caso in cui  il medesimo non abbia mai subito condanna alcuna, per il solo fatto che su  di esso grava il sospetto non argomentato di collusioni con delle cosche malavitose.

Le ragioni su cui si fonda l’indicata proposta di riforma afferiscono alla propedeutica previsione, per l’applicazione della misura di prevenzione, della presenza, e non già del mero sospetto, della reale ed inequivocabile sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti. La riforma prevede, inoltre la non immediata estromissione dell’imprenditore dall’azienda, ma dispone l’obbligo di affiancare allo stesso un soggetto di comprovata esperienza gestionale (e non già come oggi spesso avviene di non elevata e piuttosto generica professionalità), al fine di assicurare la tutela dei terzi creditori e di una corretta continuità aziendale e la doverosa conservazione dei posti di lavoro in essere e dell’asset patrimoniale oggetto della misura. Infine, una volta accertata la illegittimità delle misure irrogate, di introdurre in favore di tutti i destinatari delle misure stesse, il diritto, per essi incisi, al risarcimento del danno, atteso che se lo Stato ha sbagliato deve doverosamente assumersi la correlativa responsabilità dell’errore e, quindi, risarcire coloro che vengono letteralmente rovinati dalla non corretta azione dell’apparato medesimo con la creazione di un fondo ad hoc per le vittime riconosciute tali e la cui vita, personale ed aziendale, risulta quasi sempre pregiudicata, se non del tutto irrimediabilmente stravolta a causa ed a seguito  dell’applicazione impropria della ricordata normativa antimafia. Infatti appare di tutta evidenza che sottrarre ad una persona tutto il suo patrimonio e financo la casa familiare, significa privare il soggetto illegittimamente afflitto ed il suo nucleo familiare di ogni mezzo di sostentamento e trascinare via non soltanto il suo passato, bensì anche il suo futuro. E ciò non è tollerabile in uno Stato liberale di diritto!

Prendere atto di siffatta non eludibile realtà non connota, invero, cedimento alcuno alla doverosa lotta alla criminalità organizzata, bensì categorica necessità di assicurare una forma di più che doverosa di tutela per le vittime di una persecutoria legislazione emergenziale di carattere punitivo ed afflittivo, in forza ed in ragione della quale viene fatto strame  dei principi propri della disciplina penale attraverso il non fisiologico meccanismo che permette allo Stato di procedere persecutoriamente al sequestro ed alla confisca di beni e di aziende persino nei confronti di chi risulti pienamente assolto in sede giustiziale.

Non appare ammissibile, infatti, anzi al di fuori anche della più semplice delle logiche di analisi continuare ad abusare di un sistema punitivo incentrato sull’invero improprio ed anzi del tutto ingiustificato ed ingiustificabile carattere repressivo di stati soggettivi di pericolosità arbitrariamente ed astrattamente ricomposti sulla sola scorta di una mera e giuridicamente ingiustificata esigenza inquisitoria, peraltro del tutto (immotivatamente) svincolata da qualsivoglia elemento di garanzia e di tutela delle persone. 

Il risultato di tale ribaltamento di ottica legislativa attraverso l’articolato Pittalis ha la finalità di vedere riportato il codice antimafia nell’alveo della Costituzione. E ciò non è poco!

Va altresì, infine sottolineato come dissociare le misure di prevenzione dal sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto conduce all’assurda conclusione di contribuire - attraverso l’adozione impropria delle medesime - a snaturare - e senza un reale perché di ordine logico e tecnico-giuridico - il vero fulcro dell’azione penale costituito dal processo.

E’ invero del tutto non condivisibile che dette misure, il cui inaudito riflesso di destruente violenza  incide sulla carne viva delle singole sfere giuridiche soggettive incise possano essere giustificate ed irrogate all’esito di un procedimento di prevenzione nel quale, peraltro, risultano essere incongruentemente decisivi anche indizi privi del requisito della gravità, semplici sospetti e generiche segnalazioni, e cosa ancor più grave, persino quando queste decisioni si pongono in contrasto con i decisa di assoluzione emanati dal giudice penale.

E poiché secondo l’insegnamento della dottrina cristiana e del pensiero magistrale di Emanuel Kant la persona va considerata come un fine e non un mezzo, la vera sfida per uno Stato di diritto non è quella di non essere severo nella lotta alla criminalità organizzata, bensì quello certamente molto più nobile e giusto di aggredire la mafia senza fare vittime innocenti!

In quest’ottica faccio mia l’esortazione di S. Agostino: la verità è come un leone. Non devi difenderla. Lasciala libera e si difenderà da sola.

 

[1] Delfino L.M. “L’insostenibile gravità esegetica dell’ingannevole modello giudiziario della prevenzione penale” in Filodiritto editore rivista on line www filodiritto. com, maggio 2023

Relazione tenuta in occasione dell’incontro di studio organizzato da Confindustria Reggio Calabria - Sede Territoriale di Unindustria Calabria – e tenuto mercoledì 20 dicembre 2023 presso il Salone dei Convegni Confindustria di Reggio Calabria sul tema “Le misure di prevenzione patrimoniali: fu vera gloria?”