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Il silenzio del forestiero

Silenzio
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Il silenzio del forestiero

 

Stranieri

Una delle condizioni fondamentali del cristiano, oggi come in ogni tempo, è il suo essere straniero in patria.

Ce lo ricorda con estrema chiarezza san Pietro dicendo: «Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli che vivono come stranieri, dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell'Asia e nella Bitinia […]»[1]. Raramente riflettiamo su questa realtà, preferendo invece ignorare la portata universale che riveste per chi si dichiara con sincerità di cuore discepolo di Cristo. Che tale posizione sia volontaria lo dimostra la facilità con cui volendo potremmo trarre da questa affermazione le sue diverse conseguenze; tale ignoranza non è data quindi tanto dalla difficoltà di dissipare una tenebra, quanto dalla nebbia di chi coscientemente sceglie di chiudere gli occhi.

Questo sotteso timore penso derivi dall’intuitiva coscienza, che tutti i credenti hanno, della vasta desolazione cui le parole di san Pietro accennano. Basando la nostra indagine sulla realtà immediata, possiamo dire che lo straniero vive necessariamente una fondamentale condizione di debolezza; non si tratta di qualche fragilità economica o relazionale dato che, se così fosse, riguarderebbe solo i poveri e le persone sole: è invece un aspetto che coinvolge il forestiero in quanto tale, prescindendo dalla sua condizione. Tale elemento cardine credo sia rintracciabile nella barriera linguistico-comunicativa.

Certo, non tutti coloro che si trovano in un paese diverso dal proprio ignorano la lingua locale, ma in ogni caso ci pensa la cultura a determinare la distanza in questione. Lo straniero, in misura maggiore o minora a seconda delle circostanze, vive una certa difficoltà nel comunicare l’interezza della propria ricchezza interiore, al punto che spesso viene erroneamente scambiato per una persona semplice, per qualcuno che non possiede quella profondità che rimane invece celata dietro le barriere comunicative.

Naturalmente il tempo e la conoscenza reciproca aiutano a colmare, anche fino a far sparire, questo profondissimo fossato; tuttavia ritengo che tale condizione coinvolga inizialmente tutti coloro che si trovano lontani da casa.

Analogamente il cristiano vive, immerso nella società secolare che lo circonda, il paradosso del forestiero: egli possiede infatti, dono inestimabile della Grazia, una profondità spirituale e conoscitiva spesso altissima e inattesa, ma si trova sovente nell’impossibilità di comunicarla. Coloro che lo circondano, privi del lume della fede, ascoltano le parole del discepolo di Gesù e finiscono da un lato per non comprenderle, nel caso in cui siano proposte nel loro pieno vigore spirituale, dall’altro per sottovalutarle, laddove lo “straniero” abbia tentato una goffa traduzione.

 

La gravità della situazione parrebbe essere capace di spegnere ogni risoluzione; in verità, accanto al lenitivo scorrere delle acque del tempo, anche la Grazia di Dio agisce in questo caso, aprendo quelle orecchie altrimenti ben sigillate.
 

L’accidia

L’affermazione di san Pietro sembra essere al giorno d’oggi perfino più vera di quanto lo fosse per l’Apostolo, disperso nel mare magnum del mondo pagano.

Il cristiano contemporaneo, vivendo in Occidente, non può non aver sperimentato l’altissimo vallo “linguistico” che lo separa dalla società in cui si trova, un ostacolo talmente erto da spingere molti a rinunziare ad ogni tentativo di scalata. Le ragioni sono tantissime e potremmo suddividerle in storiche, sociali, culturali e perfino filosofiche; tuttavia, a mio parere, così facendo ci limiteremmo a porci sul piano della collettività, cercando nell’amalgama di culture, pensieri e vicende una qualche causa generale capace di diluire quanto più possibile la responsabilità individuale. Eppure, quando il credente tenta di parlare di Dio o attraverso Dio ad un altro essere umano, non si scontra con un rifiuto vago e indistinto bensì con il “no” che un individuo ha, in una qualche misura, caricato del valore della sua libertà.

Per questa ragione penso sia utile cercare di comprendere quale vizio, quale radicato atteggiamento comportamentale negativo, sia all’origine di questa tragica sordità: solo così forse sarà possibile capire in quale modo l’inalienabile libertà dell’uomo si relazioni ed accolga quelle influenze collettive di cui si accennava.

Fra i diversi vizi, quello che secondo me meglio spiega e fonda il fenomeno che abbiamo rilevato è l’accidia.

Questo peccato capitale non è semplicemente una pigrizia ma, come scrive fra Giorgio Carbone OP, si tratta di «[…] una sorta di paralisi spirituale: le cose che riguardano Dio, come la preghiera, la meditazione, l’apostolato, la misericordia verso il prossimo, non esercitano più alcuna attrazione sull’animo umano, ma anzi sono vissute con indifferenza e trascuratezza. L’accidia non va confusa con l’aridità spirituale che è, invece, un momento di prova voluto da Dio per distaccare l’anima dai piaceri spirituali e per farla aderire in maniera purissima alla sua volontà»[2].

Il brano riportato è molto significativo perché descrive non solo gli effetti spirituali dell’accidia ma accenna anche alle cause. Non è infatti difficile cogliere il cuore del problema nell’assenza d’attrazione verso tutte quelle attività nelle quali normalmente s’incarna il rapporto dell’uomo con Dio. All’interno dell’ampio sguardo della carità, p. Carbone elenca tanto gli atti di culto e di preghiera quanto le attività maggiormente legate alla misericordia verso i bisognosi; queste vengono dal vizioso accolte con sempre maggiore superficialità fino alla completa indifferenza, anticamera del definitivo abbandono. La ragione di questo atteggiamento pare essere rintracciabile in un differente effetto sortito da tali atti nell’animo umano.

Il brano, facendo riferimento all’aridità spirituale e al distacco dai piaceri legati alla vita interiore, ci consente di capire che ciò che distingue l’accidia da questo duro dono del Signore non è tanto la modalità con cui si presenta quanto il fine che si pone. Aridità ed accidia infatti, pur nella diversità degli scopi, condividono l’assenza di quelle gioie particolari che derivano dai quotidiani atti d’amore verso Dio.

L’accidioso quindi è qualcuno che, attirato dai beni particolari piacevoli provenienti dalla vita spirituale, alla sparizione o all’affievolimento degli stessi non trova più alcuna ragione per continuare ad amare Dio. Non è importante che detti piaceri siano interiori ed eterei, come la gioia che deriva da un’intensa partecipazione affettiva alla preghiera, o esteriori e concreti, come la felicità data dagli atti di misericordia corporali; il punto della questione è che l’accidioso si accorge di cercare ed amare Dio non in se stesso, ma solo ed esclusivamente come mezzo per godere di tali gioie.

 

Questo atteggiamento di fondo unisce l’accidioso proveniente dalla fede a quello che invece non vi ha mai aderito: se infatti il primo abbandona Dio nel momento in cui scopre ciò che davvero cercava, il secondo vive la medesima indifferenza fondandola però sull’originaria convinzione che nel Signore non vi sia alcun piacere o vantaggio.
 

La sconfitta della parola

Il cristiano che oggigiorno cerca di parlare di Dio o di comunicare la prospettiva sul mondo che la fede dona, spesso si trova a scornarsi inutilmente con il solido muro dell’accidia, con un vizio che nella maggior parte delle persone scaturisce non da una delusione nella vita spirituale ma dalla libera accettazione di un assunto di fondo. Si tratta quindi spesso dell’applicazione concreta alla vita religiosa di un principio generale che governa molti ambiti della nostra società: si ama e si cerca qualcosa o qualcuno solo in quanto mezzo attraverso il quale ottenere beni piacevoli e quanto più possibile immediati.

Volendo scendere ancora più a fondo ci rendiamo conto che in gioco c’è la stessa concezione della felicità su questa terra: non più quella cristiana di essere in cammino con Dio e verso Dio, bensì quella ben più bassa consistente nel trovarsi in una condizione capace di fornire beni piacevoli ed immediati, piccoli e grandi.

Per meglio comprendere questo concetto proviamo a fare riferimento all’ambito coniugale. Se si considera il matrimonio come un contesto favorevole all’interno del quale cogliere dalla relazione con il partner tutti quei piaceri minuti, corporali e spirituali, che sono propri di tale unione, allora l’indissolubilità matrimoniale è assurda. Se infatti un giorno la relazione divenisse fonte non di gioie particolari ma di sofferenze e rinunzie, la scelta più sensata sarebbe scioglierla e cercare la felicità altrove.

Mi rendo conto che sto semplificando ambiti molto complessi, ma se proviamo a giungere al nocciolo della questione ci accorgiamo che la grande crisi dell’istituto matrimoniale in Occidente è causata proprio dalle aspettative con cui ci si sposa. Ce ne rendiamo forse meglio conto se proviamo a considerare l’opzione opposta: se si ripone la propria speranza di felicità coniugale non nelle gioie particolari ma nella comunione di reciproco dono che ci rende una cosa sola con il partner, non solo ci si troverà in grado di accogliere e reggere tutte le sofferenze ed aridità della vita di coppia, ma si potrà anche godere meglio dei beni particolari inserendoli correttamente in ordine al fine. In altri termini, i matrimoni solidi sono quelli dove il partner non è semplicemente la fonte della gioia, bensì una persona che, in relazione con noi, gioisce dell’unione in sé che ci unisce.

Per Dio la situazione è simile: il vero credente è colui che trova la sua felicità nello stesso esser parte di un legame con il Signore, a prescindere dai beni immediati che, di volta in volta, da esso possono scaturire; l’accidioso invece è figlio di una concezione della felicità che potremmo definire utilitaristica e che quindi vede Dio stesso come un semplice mezzo. In questo pensiero si trova la ragione intima dell’impenetrabilità dell’accidia: coloro che sperimentano un disinteresse così radicale verso il Signore negano ogni possibile dialogo sulla base della convinzione che l’Onnipotente, in quanto mezzo da utilizzare, lasci molto a desiderare. Sia che vi siano giunti scorgendo i limiti di una vita religiosa così orientata, sia che semplicemente non comprendano cosa la relazione con Dio possa aggiungere alla loro esistenza, il risultato è il medesimo: le parole dello straniero risulteranno loro o incomprensibili o banali, comunque prive di qualsivoglia interesse.

Inutile dire che il vizio dell’accidia, in quanto peccato capitale, porta alla degenerazione di una larga parte della nostra anima, dando vita ad un notevole numero di vizi[3]. Si tratta quindi di una condizione che produce, sul lungo periodo, un malessere che va anche al di là del suo specifico ambito. Ad ogni modo il suo effetto più tragico è senza dubbio legato all’annuncio: mentre il cristiano porta un Vangelo che è promessa di felicità nella comunione con Dio, l’uomo di oggi ascolta bramando speranze più basse, legate a quell’orizzonte limitato e fittizio di gioia che si è imposto.

Vorrei poter fornire una soluzione a questa incomunicabilità, un trucco o un prodigio capace di sollevare dalle nostre bocche quel velo che ne ottunde le parole, ma non posso. Forse però sarebbe meglio dire che, anche se potessi, non vorrei farlo; non perché la situazione attuale sia positiva o desiderabile quanto perché accoglierla, come fece Cristo medesimo, è parte di quella croce che siamo chiamati a portare.

Nello iato che separa l’annuncio dai cuori degli increduli noi scorgiamo non solo una sconfitta, ma anche il memoriale di quella debolezza umana che cerca ed attende la Grazia di Dio. Ogni volta che le nostre parole riscaldano l’anima di un lontano possiamo, se teniamo a mente il nostro essere stranieri, comprendere come gli atti che compiamo siano solo mezzi insufficienti dell’azione divina, segni di debolezza utili ad esaltarne la potenza.

Il silenzio cui l’accidia costringe l’ardore del nostro annunzio è simile alla morte: tanto opprimente e invincibile quanto impotente di fronte all’Amore di Dio. Vano è quindi rinunziare a portare ad ognuno il Vangelo sulla base delle sconfitte accumulate poiché ad esse sempre è stata destinata la nostra umanità, ad una morte che è porta del trionfo di Dio. Che lo straniero parli quindi, anche e soprattutto di fronte alla derisione di questa Terra, poiché nella sconfitta della sua parola si cela una vittoria di cui gode senza possederla

Testo consigliato

 

  • Giorgio Carbone, Ma la più grande di tutti è la carità, ESD, Bologna 2020.

 

[1] 1 Pt 1, 1.

[2] Giorgio Carbone, Ma la più grande di tutti è la carità, ESD, Bologna 2020, p. 335.

[3] Cf Carbone, Ma la più grande di tutti è la carità, pp. 337-338.