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La disciplina dell’aborto nell’ordinamento canonico

Aborto
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Abstract

Il presente articolo ha lo scopo di analizzare la disciplina dell’aborto nel diritto canonico tratteggiando le principali differenze intercorrenti con l’ordinamento italiano. L’esame si è concentrato sulle diverse prospettive ideologiche su cui i due gruppi di norme traggono il loro fondamento non senza evidenziare i possibili miglioramenti nella prevenzione di un reato che nella Chiesa assume i tratti di una responsabilità comune.

 

Indice:

1. L’evoluzione storica delle norme sull’aborto

2. Il ruolo della donna nella cultura della Chiesa

3. Storia e disciplina dell’aborto nel diritto canonico

 

1. L’evoluzione storica delle norme sull’aborto

Com’è noto l’incidenza della dottrina cristiana nell’etica e nei principi morali dello ius continentale difese l’illegalità dell’aborto nella totalità degli ordinamenti europei dal IV secolo fino alla metà degli anni cinquanta del XX.

Non è un caso che la legislazione abortistica fu introdotta per la prima volta in Unione Sovietica nel 1920 per diffondersi in Occidente a seguito dell’emanazione del British Abortion Act del 1967. La riforma inglese, autorizzando la donna a procedere all’interruzione di gravidanza nei casi di rischio per la sua salute psicofisica o di fondato pericolo di minorazioni per il nascituro, dettò le linee guida cui si sarebbero ispirate le disposizioni normative degli stati europei.

L’esigenza di combattere la piaga degli aborti clandestini sensibilizzò l’opinione pubblica verso l’approvazione, tra il 1974 e il 1975, di drastiche leggi di riforma in Germania e in Francia. Su questa scia anche in Italia, il 22 maggio 1978, fu varata la legge n.194 tesa a cancellare i capi d’imputazione del reato e a definire i termini in cui la pratica fosse permessa.

È innegabile che sulle riforme legislative del novecento abbia inciso l’influsso dei movimenti femministi ottocenteschi che, portavoci dell’impellente necessità di attuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne, ne auspicava l’indipendenza dall’uomo insieme al diritto di vivere se stesse nella piena autonomia delle loro scelte. In un periodo in cui alle donne era vietato l’ingresso alle professioni liberali e preclusa ogni forma di attività intellettuale, restituirvi la dignità perduta diventava una missione utile non solo a superare la subordinazione sociologica all’uomo ma anche a rinnovare il mondo attraverso se stesse.

 

2. Il ruolo della donna nella cultura della Chiesa

Diversi, sin dalle origini del cristianesimo, i principi ispiratori del diritto canonico incentrati sul valore assoluto della vita umana e sulla piena equiparazione dell’uomo e della donna nella complementarietà dei sessi. Si legge, nella Genesi, «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Ad entrambi Egli affidò il compito di essere fecondi e di moltiplicarsi per «riempire la terra» continuando la Sua opera di Creazione. Per questo precipuo scopo «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente».

Essendo al tempo stesso respiro di Dio e alito divino, la sacralità connota la vita dell’uomo sin dai primordi della sua plasmazione a riprova del monito contenuto in Geremia «prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato».

Per completare il Suo progetto di vita il Signore foggiò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna. Dalla loro unione, nel concepimento dell’esistenza futura, deriverà quell’unica e sola carne nella quale confluisce la forza generatrice che promana da Dio e opera per mezzo di Dio perché si compia ciò che è scritto nel Salmo «eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo». Maria rende a pieno questo concetto sublimandolo nel Magnificat, testo mirabile che offre al mondo il Manifesto della donna cristiana.

In visita alla cugina Elisabetta, nell’annuncio della Sua gravidanza, piena di grazia Ella esclama: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in avanti tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome».

Una donna rende in dono Dio all’umanità. Attraverso una donna Dio diventa Padre per trasformarsi in Figlio. Attraverso le donne e il femmineo del creato, la forza generatrice si rinnova nei secoli sulla terra.

L’istituzionalizzazione carismatica del femmineo nella Santa Madre Chiesa - Sposa di Cristo storicizza nell’umanità l’opera dello Spirito Santo attraverso cui Dio continua a non abbandonare gli uomini.

Un saluto, poche righe, per rimarcare la strumentalità della donna all’azione di Dio nel creato che valorizzata, con costanza, nella Bibbia è trasfigurata nel miracolo della maternità mediante il quale Dio disvela agli uomini la trinità e beatifica l’umiltà di chi, asservendosi al divino, ne restituisce al mondo l’onnipotenza.

 

3. Storia e disciplina dell’aborto nel diritto canonico

La principale disposizione normativa tracciata dal Cristianesimo per la difesa del diritto alla vita del feto è già presente nel quinto comandamento del decalogo nel quale l’imperativo “non uccidere” si impone con veemenza al popolo di Dio. A conferma del disposto in esame, nel periodo apostolico, la Didachè sanciva «tu non ucciderai con l’aborto il frutto del grembo e non farai perire il bambino già nato».

Il primo concilio ad affrontare più specificatamente il tema fu quello tenutosi ad Elvira tra il 300 e il 312. La norma del canone 63, in particolare, prevedeva la scomunica per le cristiane che, rimaste incinte da un adulterio, si fossero procurate volontariamente un’interruzione di gravidanza. Alla stessa stregua il canone 68 procrastinava il battesimo fino al punto di morte per le catecumene che si fossero macchiate dello stesso peccato.

Con gli atti magisteriali del Concilio di Ancira del 314, l’aborto fu equiparato all’infanticidio per essere posto sullo stesso piano dell’omicidio dal III Concilio ecumenico di Costantinopoli.

Con queste premesse, le statuizioni che chiusero il consesso di Magonza dell’847 comminarono pene più rigorose per le donne che, dopo aver commesso fornicazione, avessero ucciso il frutto del loro grembo.

In età medievale il Decreto di Graziano riconfermò le disposizioni precedenti e, considerando l’aborto un atto contrario alla legge naturale, gettò le basi per la strenua opposizione della Chiesa ad ogni distinzione tra feto ed embrione definita, per usare le parole di San Basilio, una sottigliezza dei filosofi e dei dotti pagani.

La durezza delle norme fu inasprita dalle previsioni di Sisto V che riservò l’assoluzione del peccato in foro coscientiae alla Santa Sede. Essa fu resa tanto più grave dalle norme approvate da Pio IX meritevole di aver esteso la scomunica latae sententiae anche ai procurantes abortum effectu secuto.

Così formulata la norma migrò nel codice del 1917 il cui canone 2350, al I comma, sanciva che «i procuratori di aborto con effetto, non eccettuata la madre, incorrono nella scomunica riservata all’Ordinario e se chierici, saranno inoltre deposti».

La disciplina si ripete nel canone 1398 del Codice vigente dove è statuito che «chi procura l’aborto ottenendo l’effetto incorre nella scomunica latae sententiae». Questo Codice, in modo più analitico rispetto a quello precedente, prevede conseguenze specifiche per i candidati al presbiterato e per i religiosi che incappano nel delitto. Il canone 1041, infatti, al quarto comma, definisce irregolari a ricevere gli ordini sacri, i soggetti che hanno commesso omicidio volontario o hanno procurato l’aborto ottenendone l’effetto insieme a tutti coloro che vi hanno cooperato positivamente. A questa previsione si aggiunge il disposto del primo paragrafo del canone 695 in virtù del quale il religioso colpevole del reato deve essere dimesso dall’Istituto a cui appartiene.

Le norme esaminate appaiono ictu oculi molto più generali di quelle contenute nell’ordinamento italiano, lasciando non pochi dubbi d’interpretazione. Comunemente, nella dottrina della Chiesa, si intende per aborto l’espulsione del feto immaturo dal seno materno con la violenta interruzione del processo naturale della sua maturazione e indipendentemente dal tempo del suo concepimento.

A tale riguardo, la gran parte dei canonisti reputa che qualora l’aborto sia conseguito attraverso un atto posto senza l’intenzione di procurarlo, anche in presenza dell’effetto abortivo, non si verificherebbe il comportamento delittuoso e ciò, certamente, nei casi di aborto terapeutico giustificato da motivi di salute della donna. Altra parte, invece, più drasticamente prospetterebbe la possibilità anche per il diritto canonico di un delitto colposo che si profilerebbe in tutte le ipotesi di complicità indiretta alla causazione dell’effetto normativamente tutelato.

Buona parte dei dubbi provengono dalle parole di Giovanni Paolo II che, durante il suo pontificato, si è più volte espresso in difesa del diritto alla vita definendo l’aborto, nell’Enciclica Evangelium Vita, «l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita». L’Enciclica è «una riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana!».

L’attacco del Papa si indirizzava, in particolare, alle nuove forme di attentato alla dignità dell’essere umano introdotte dal progresso scientifico e tecnologico la cui affermazione confondeva alcuni delitti contro la vita con libertà inalienabili dell’uomo.

Il Papa, in particolare, denunciava la diffusione di una terminologia ambigua tesa a attenuare la gravità dell’atto agli occhi dell’opinione pubblica nella volontà di surrogare la “cultura della morte” a quella della vita. Un esempio era dato dalla sostituzione del termine aborto con la più asettica espressione “interruzione di gravidanza”.

Il monito del Pontefice si faceva particolarmente grave nelle valutazioni inerenti l’incidenza dei programmi socio-politici sulla determinazione individuale alla scelta abortiva. A suo avviso è riduttivo e semplicistico incolpare la sola madre di una decisione così delicata. Troppo spesso, infatti, la volontà istintiva di difendere la vita è coartata dallo stato di isolamento in cui la donna viene ridotta a fronte del peso delle pressioni culturali e dei problemi economici ed assistenziali che potrebbero derivarle dopo il parto. Tale isolamento inferisce un colpo mortale alla famiglia, anche non “ortodossa” perché composta da un nucleo familiare ristretto alla sola madre col bambino, che, così facendo, viene profanata nel suo significato primigenio di santuario della vita e seme germinatore di una comunità d’amore.

Più realisticamente la responsabilità dell’aborto va ripartita su diversi livelli sociali per coinvolgere, nella sua interezza, la società e i valori che essa esprime. Essa attaglia in primo luogo l’etica permissiva in cui la scelta deve essere maturata per coinvolgere le decisioni dei governanti che, prima ancora di promuovere leggi abortive, non assicurano politiche adeguate a garantire il sostegno delle donne e delle famiglie in difficoltà.

In questo modo, nell’ottica della corresponsabilità propria del paradigma ecclesiale canonico, l’aborto assume una connotazione collettiva che, come sottolineato da Giovanni Paolo II nella Lettera alle Famiglie, rappresenta «un’enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui ma anche dell’intera civiltà».

Si consigliano le seguenti letture:

Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae del 25 marzo 1995;

Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie Gratissimam sane del 2 febbraio 1994;

Genesi capitolo I;

Geremia 1, 4-9;

Salmo 127.