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La confisca dei beni agli eretici

Francisco de Goya - Escena de Inquisición - 1812–1819 -  Real Academia de Bellas Artes de San Fernando in Madrid
Francisco de Goya - Escena de Inquisición - 1812–1819 - Real Academia de Bellas Artes de San Fernando in Madrid

Abstract

Il presente articolo ha lo scopo di analizzare la complessità di una delle pene più rigide comminate dal Tribunale della Santa Inquisizione la cui portata non può essere compresa senza una preventiva disamina della peculiare struttura della società medievale. L’esame, pur nel contrasto tra fonti processuali e dottrinali, ha permesso di dimostrare la centralità assunta dalla pena nel controllo dell’eresia sottolineando le anomalie che essa assunse nell’alveo dei principi propri del diritto penale.

 

Indice:

1. Le caratteristiche della società medievale

2. La rivisitazione storiografica sul tema dell’Inquisizione

3. La confisca dei beni agli eretici nei manuali degli inquisitori

 

1. Le caratteristiche della società medievale e moderna

Com’è noto la complessa compagine organizzativa della società medievale e moderna è caratterizzata dalla presenza ai vertici di governo di due istituzioni distinte ma fortemente compenetrate tra loro: l’Imperatore e la Chiesa.

Invero, per usare un’espressione del Cavanna, la Respublica cristiana si presentava come una realtà politica fortemente frammentata di cui la costante opera di cristianizzazione dei popoli germanici fu l’unico vero collante etico-morale. In assenza di istituzioni riferibili al potere pubblico, la Chiesa fu capace di dotare le formazioni sociali in cui era suddiviso l’Impero di identici apparati politici, giudiziari ed economici che, inserendosi nei vuoti di potere cui versava la dimensione locale, le consentì di tramutare i dogmi cristiani nei principi costitutivi dell’utrumque ius.

I sacramenti si coniugavano come “riti di attribuzione di stato”. Essi scandivano le tappe del vivere civile non senza definire il duplice ruolo di civis-fidelis ricoperto dai singoli nella comunità. In particolare il battesimo è a ragione definito dalla Brambilla un elemento di unificazione e cittadinanza primaria.

Vigendo l’obbligo di appartenenza religiosa, dalla sua celebrazione discendeva il riconoscimento in capo ai consociati dei diritti civili e politici e, con esso, la capacità giuridica di poterne disporre. La necessità di preservare l’ordine naturale divinamente dato e di assicurare l’unità cultuale dell’Impero legittimava il controllo capillare degli eretici attraverso il tribunale della Santa Inquisizione.

Gli infedeli che mostravano resistenza ai sacramenti e che, per Todeschini, contrapponevano alla spiritualità della psiche l’animalità dei sensi, a causa della loro diversità antropologica e strutturale, andavano relegati ai margini della comunità.

Bernardo Guy, nella Practica Inquisitionis Hereticae Pravitatis, fornisce un elenco dettagliato delle pene usate dal tribunale. Le penitenze previste per i casi meno gravi cedevano il passo a pene, via via, più gravose. La scelta della punizione era commisurata alla gravità del fatto e applicata agli impenitenti che rifiutassero l’abiura oltre ai relapsi che ricadevano nuovamente in errore.

Non di rado il penitente era costretto ad indossare segni di riconoscimento che palesassero alla comunità i delitti di cui ci si era macchiato.

La pena più applicata era quella della detenzione di cui esistevano due varianti: la prigionia in murus largus scontata, a mo’ di arresti domiciliari, nella casa del reo o nelle stanze di un convento e la prigionia in murus strictus che comportava l’internamento nelle carceri dei tribunali.

Accanto alla condanna a morte la cui esecuzione era rimessa al braccio secolare, le pene più gravi erano, senza dubbio, la scomunica e la confisca dei beni. Queste pene, anche dette in ipso iure perché comminate senza l’obbligo di una preventiva sentenza, avevano lo scopo di estromettere il reo dalla comunità dei fedeli annullandone i poteri transattivi e privandolo di ogni rilievo e dignità sociale.

La confisca dei beni, in particolare, era per il Lavenia una conseguenza automatica della scomunica. Tale pena privava chi ne fosse colpito di ogni beni di sua proprietà sanzionando con la nullità gli atti traslativi compiuti sia prima che dopo l’apertura del procedimento. In violazione del principio della personalità della responsabilità penale, il castigo si estendeva alla discendenza dell’eretico i cui figli, anche quando ortodossi e non complici dell’eresia paterna o materna, subivano le conseguenze del reato essendo colpiti con la diseredazione e l’infamia.

 

2. La rivisitazione storiografica sul tema dell’Inquisizione

Una rivisitazione generale sembra attraversare la storiografia contemporanea circa la millantata severità del tribunale dell’Inquisizione.

Ad oggi, numerosi storici affermano che nel periodo delle Grandi Ordinanze il Sant’Ufficio, fornendo ai tribunali locali linee guida improntate ad una prassi giudiziale ben più moderata rispetto a quella dei tribunali penali dell’epoca, può essere considerato il pioniere della riforma giudiziaria che ha portato alla luce il processo “moderno”.

Secondo le ricerche in esame solo una piccola percentuale dei processi per eresia si è effettivamente conclusa con l’esecuzione della condanna a morte.

In particolare i dati riportati dal Tedeschi dimostrano che tra il 1540 e il 1700 la pena capitale fu comminata, in Spagna, in una percentuale dell’uno virgola nove per cento rispetto all’applicazione che la stessa pena ebbe nei tribunali secolari. Ancor meno la pena di morte, secondo gli studi della Montesano, fu applicata in Italia e, comunque, con un incremento maggiore nell’area meridionale del paese rispetto a quella settentrionale.

Secondo tale ricostruzione i processi si svolgevano di norma senza la carcerazione preventiva dell’eretico e poche ragioni di temere la condanna aveva lo sponte comparente.

Questi studi confermerebbero che l’imputato aveva la facoltà di chiedere il cambiamento di sede e la sostituzione dell’inquisitore nei casi di corruzione o conflitto di interessi dimostrando, d’altronde, che nell’articolazione del processo l’avvocato difensore era parte integrante della procedura in un periodo in cui la Costitutio Criminalis Carolina del 1532 gli riservava un ruolo meramente marginale mentre l’Ordinanza di Villers-Cotterets del 1539 lo bandiva esplicitamente.

L’esame dei processi avrebbe evidenziato che la scomunica e la confisca dei beni trovavano scarsa applicazione e ciò anche contro gli eretici “maggiori” per i quali il tribunale del Sant’Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento.

 

3. La confisca dei beni agli eretici nei manuali degli inquisitori

La clemenza del sacro tribunale parrebbe smentita dalle previsioni normative astratte oltre che dai manuali che fornivano agli inquisitori locali il vademecum cui attenersi nell’amministrazione delle cause di fede. Il Lea giustificava il fenomeno parlando di severità teorica e pratica moderazione.

Dal punto di vista normativo, la confisca fu introdotta per la prima volta nell’ordinamento giuridico romano con la costituzione leges QuisQuis di età imperiale che ne sanciva l’applicazione per la punizione dei reati di lesa maestà umana. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la pena venne, poi, adottata nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l’eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede.

Confermata dalle Gazaros di Federico II che proclamarono la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena latae sententiae a tutti gli effetti sancendo l’obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali prima ancora di ogni intervento di carattere giudiziario.

Ma sono i manuali degli inquisitori a descrivere con maggiore dettagli la severità della pena.

In particolare l’esame incrociato del Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Peña, del Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati e del Sacro Arsenale di Eliso Masini, danno il senso della sua spietata applicazione.

Dai manuali emerge concordemente che, dopo la cattura, la dimora dove abitava l’eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L’autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, provvedeva al recupero di tutti i beni in essa rivenuti per poi procedere alla distruzione della casa dalle fondamenta.

Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento “salvifico” per chi confessasse spontaneamente le sue colpe e nessuna grazia era concessa ai recidivi che, nonostante l’abiura, avessero persistito nell’eresia «per multo vel parvo tempore».

Anzi la previsione astratta imponeva al colpevole o presunto tale l’obbligo di autodenunciare i beni in suo possesso consegnandoli personalmente alle autorità competenti. A tal uopo, se le indagini giudiziarie avessero provato un significativo depauperamento della consistenza patrimoniale di cui l’eretico disponeva, il giudice poteva dichiarare l’invalidità di tutti gli atti inter vivos e mortis causa redatti, sia in buona che in mala fede, nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. A comprovare l’assoluta gravità della pena e la sua anomalia rispetto ai comuni principi di diritto penale era la dichiarazione d’infamia che accompagnava il delitto, per effetto della quale l’eretico «nec ad publica officia vel consilia civitatum, nec ad eligendos aliquos ad huismodi, nec ad testimonium admittar».

Proclamato intestabile gli era negata la capacità di succedere. Nessuno avrebbe potuto concedergli aiuti per non subire identica pena. La condanna, del resto, avrebbe potuto riguardare anche un eretico morto senza aver subito un legittimo processo.

In questi casi i giudici procedevano alla pubblicazione dei beni post mortem «non obstante» il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena». Anzi, a corollario di questa previsione, la punizione si trasferiva di padre in figlio, di generazione in generazione.

Nella ricostruzione fatta dagli inquisitori la ratio legis della previsione risiedeva nel principio secondo il quale erano da considerarsi “intrasmissibili”, solo le pene, come quella di morte, dette “puramente” personali, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità del fatto dall’autore del reato, essendo, invece, la confisca una pena patrimoniale e seguendo inevitabilmente le sorti del patrimonio, di essa era ammessa l’espiazione «per alium».

La pena non trovava applicazione solo nei confronti dei membri eretici del clero i cui beni andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati per consentirne il mantenimento.

Si può concludere osservando che se la scomunica estrometteva chi ne fosse colpito dal consorzio dei fedeli, la confisca dei beni, privando il civis-fidelis della capacità di possedere un proprio patrimonio e trasferire i beni di cui era composto, interferiva con la piena partecipazione alla dimensione civile dello stesso. In questo modo, il controllo di una società teleologicamente fondata avveniva sotto il duplice piano in cui essa si snodava, articolandosi in un paradigma di disumanizzazione che minava alle fondamenta l’identità giuridica del soggetto.

Si suggeriscono le seguenti letture:

Brambilla E., Alle origini del S.Ufficio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Bologna 2000;

Lavenia V., L’infamia e il perdono. Tributi, pene, confessione nella teologia morale della prima età moderna, Bologna 2004;

Lea H. C., L’Inquisizione spagnola nel Regno di Sicilia, a cura di Sciuti Russi, Napoli 1995;

Montesano M., Streghe, Firenze 2001;

Prosperi A., L’Inquisizione: verso una nuova immagine?,in «Critica storica», XXV,1998, pp. 119-145;

Tedeschi J., Il giudice e l’eretico: studi sull’Inquisizione romana, Milano 1997.

 

Fonti

Eymerici N., Directorium inquisitorium, Cum Commentariis Francisci Pegne, Vnetiis, Apud Marcum Antonium Zalterium, 1607;

Guedonis B., Practica Inquisitionis Hereticae Pravitatis, document publiè pour la premier fois, Paris, 1886;

Locati U., Opus quod iudicale inquisitorium dicitur, ex diversis teologis et I.V.D., Romae, Apud haerede Antonii Bladii impressores camerales, 1570;

Masini E., Sacro Arsenale Prattica dell’Officio della S. Inquisitione con l’inserzione d’alcune regole fatte dal P. Inquisitore Tomaso Menghini Domenicano fiscale della Supremma Generale Inquiszione di Roma, Roma, Stamperia della Reverenda Camera Apostostolica, 1625.