Cecco d’Ascoli, l’antagonista di Dante Alighieri, che sul rogo di Santa Croce a Firenze proferì: “L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo”.
Nei giorni delle celebrazioni per il “Genio universale” con una infinità di iniziative commemorative di Dante Alighieri nei cinque continenti a 700 anni dalla sua scomparsa. Su Filodiritto ricordiamo il suo “antagonista”, in realtà amico (secondo fonti pervenute), Cecco d’Ascoli, medico-astrologo, astronomo, poeta e scrittore.
Nel medioevo lo studio dell’astrologia e dell’alchimia era spesso la via maestra per il rogo. Anche Francesco Stabile, meglio noto come Cecco d’Ascoli, non sfuggì alle fiamme che l’inquisizione gli serbò davanti alla Basilica di Santa Croce a Firenze il 16 settembre 1327.
Fiamme causate da un “oroscopo”, secondo il cronista Marchionne di Coppo Stefani nella sua Cronica fiorentina, ma lo vedremo in seguito.
Cecco, a diciotto anni entrò nel monastero di Santa Croce ad Templum di Ascoli Piceno che fu centro ispiratore della dottrina occulta templare, poi studente all’università di Bologna per diventarne professore di prestigio di astrologia-medicina. L’Ateneo rivestiva un ruolo di primo piano in Europa nell’insegnamento dell’astronomia e dell’astrologia. Le università del Duecento e del Trecento erano contesti ricchi di contraddizioni.
La ricerca filosofica e scientifica era legittima e anche lo studio delle discipline astronomiche e astrologiche. Infatti, era ritenuto fondamentale conoscere gli astri, i corpi celesti e i loro moti ma anche l’influsso che esercitavano sui destini e sulle vicende umane. Per questo motivo veniva coltivato il legame che univa la didattica e la pratica delle dottrine astronomiche alle attività divinatorie vere e proprie.
Un connubio non facile, poiché se è vero che le autorità politiche e militari ricorrevano spesso alle perizie astrologiche prima di prendere una decisione importante, allo stesso tempo l’interpretazione degli astri e dei loro influssi sulla attività umana e divina era in aperta contraddizione con la dottrina cattolica, che vi leggeva una limitazione del libero arbitrio. Ricordiamo che per Bonaventura da Bagnoregio, teologo dei più intransigenti secondo Jacques Le Goff, è il Cristo la via a tutte le scienze.
Stante la premessa era “facile” intraprendere la via dell’eresia per chi studiava gli astri.
Cecco da Ascoli insieme allo studio e all’insegnamento diede alle stampe alcuni trattati in latino che riscossero un immediato successo: il Tractatus in sphaeram (1322-23), che venne assunto come testo fondamentale per l’insegnamento dell’astronomia, e il De principiis astrologiae (1323-24), commento a un’opera dell’astrologo arabo Alcabizio. Cecco è ricordato per l’opera incompiuta De eccentris et epicylis, in volgare L’Acerba.
Un poema allegorico ove compare una donna Angelica, principio di ogni virtù, simbolo della Sapienza. Nel poema si parla dei cieli, degli animali, dell’amore, fortuna, vizi e delle virtù. Notevole nell’opera la polemica con Dante, trattato in maniera rude per aver sminuito l’astrologia.
L’Acerba ebbe grande successo e una diffusione straordinaria, tanto che è seconda solo alla Commedia per numero di copie e manoscritti che sono giunti sino a noi.
Il rapporto con Dante è stato tramandato da Angelo Calocci, umanista e vescovo del Cinquecento, che afferma di aver esaminato dei sonetti si scambiarono. Anche secondo il gesuita Appiani, Cecco e Dante si sarebbero conosciuti a Firenze.
Il rapporto tra di loro è stato tramandato come di due antagonisti, forse non era così ma la “costruita” disputa è finita in leggenda.
La divertente storiella che è stata tramandata racconta che Dante e Cecco si erano imbarcati in una disputa sulla forza dell’istinto e dell’abitudine.
Il primo sosteneva la supremazia dell’arte e dell’educazione nel forgiare il comportamento individuale mentre il secondo riteneva più influente la natura. A dimostrazione del suo pensiero, Dante portò ad esempio un gatto che aveva ammaestrato a reggere tra le zampe una candela per illuminargli lo scrittoio.
Cecco, allora, liberò due topi davanti all’animale, inducendolo a lasciar cadere la candela e a rincorrerli per la casa, dimostrando così la validità della sua posizione.
Lasciamo la leggenda e torniamo alla dura realtà.
Cecco d’Ascoli aveva già evitato il rogo, per il rotto della cuffia, durante il suo soggiorno a Bologna, quando scrisse il il Tractatus in sphaeram, che gli costò un’iniziale condanna per eresia da parte dell’inquisitore Lamberto da Cingoli, frate domenicano, per le teorie astrologiche esposte, considerate in contrasto con i principi della fede e per la circostanza che nel libro era incluso un oroscopo di Cristo.
Cecco abiurò e venne condannato a pagare una salata multa con l’obbligo giornaliero di recitare preghiere e penitenze, continuò ad insegnare, ma poco dopo fu costretto a riparare a Firenze, dove prese servizio come astrologo e medico di corte presso il duca di Calabria.
È facile ipotizzare che l’influenza che esercitava sul Duca attirò presto su di lui l’invidia e il sospetto degli altri cortigiani, in particolare pare quella di un altro celebre medico fiorentino, Dino del Garbo, che di certo avrebbe ambito a prendere il suo posto. Giovanni Villani nella sua Nova Cronica (1348) afferma infatti che “questo maestro Dino fu grande cagione de la morte del sopradetto maestro Cecco, riprovando per falso il detto suo libello, il quale avea letto in Bologna, e molti dissono che ‘l fece per invidia”.
Il tribunale dell’inquisizione di Firenze intentò contro di lui un nuovo processo. L’inquisitore, questa volta, era un frate francescano, fra Accursio, che la tradizione ricorda per essere stato il primo lettore pubblico di Dante, incarico che aveva ottenuto dalla Signoria poco dopo la morte del Sommo Poeta e che egli svolse ogni domenica nel Duomo di Firenze. Egli riprese gli atti e le carte di Bologna e passò al vaglio tutte le opere di Cecco d’Ascoli, ritenendo soprattutto “il suo libretto superstizioso, pazzo e negromantico sopra la Sfera, pieno di eretica falsità (…)”.
Avendo rifiutato di abiurare e non potendo più contare sull’appoggio di Carlo d’Angiò, che non voleva inimicarsi papa Giovanni XXII, Cecco venne condannato come eretico al rogo.
Ad essere onesti il cronista Marchionne di Coppo Stefani nella sua Cronica fiorentina (1378-85) ci fornisce una ragione un po’ diversa del mancato sostegno di Carlo di Calabria: “ma dicesi che la cagione perché fu arso fu che disse che Madonna Giovanna, figliuola dello Duca, era nata in punto di dovere essere in lussuria disordinata. Di che parve questo essere sdegno al Duca, perché non avrebbe voluto che fosse morto un tanto uomo per un libro”.
Non il suo pensiero, ma un suo oroscopo sarebbe allora la causa della sua prematura fine.
La sentenza venne resa pubblica il 15 settembre 1327 nel coro di Santa Croce e il giorno seguente il condannato venne arso insieme a tutte le sue opere e secondo alcuni avrebbe proferito: “L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo”.