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Diario Clandestino: Guareschi in esilio con Dante

Con Dante in esilio di Nicola Bultrini
Oasi Faunistica di Vendicari, Noto
Ph. Simona Loprete / Oasi Faunistica di Vendicari, Noto

Guareschi, ufficiale di artiglieria, fu fatto prigioniero dai tedeschi il 9 settembre 1943, nella caserma di Alessandria, per aver rifiutato, come molti altri, di disconoscere l’autorità del Re. fu liberato quasi due anni dopo, il 16 aprile 1945; durante la prigionia scrisse la Favola di Natale, il racconto di un sogno di libertà, durante un Natale da prigioniero.

Le memorie di quel periodo confluirono nel Diario Clandestino; in realtà lo stesso Guareschi raccontò di aver tenuto durante l’internamento un vero e proprio diario nel quale annotava, giorno per giorno, tutto quello che accadeva ma poi, dopo tante riletture e correzioni, distrusse il dattiloscritto. Riscrisse invece quella memoria che si salvò tra le pieghe della vita quotidiana e che finì per costituire la vera cronaca umana di quei due anni. Questo ultimo diario, dice Guareschi, «è tanto clandestino che non è neppure un diario, ma (...) secondo me potrà servire, sotto certi aspetti, più di un diario vero e proprio a dare un’idea di quei giorni, di quei pensieri e di quelle sofferenze». Guareschi rimase vivo «anche nella parte interna» e continuò a lavorare e, oltre agli appunti del diario cronachistico, scrisse molte altre cose per l’uso immediato all’interno del Lager. Passava molto tempo andando di baracca in baracca a leggere questi suoi brevi scritti, concepiti per il Lager e che di lì riteneva non dovessero uscire.

Guareschi era del resto il curatore della «pagina» umoristica di una straordinaria esperienza: quella del «giornale parlato», secondo un modello in uso in diversi campi. Si trattava di giornali che venivano recitati, non potendo ovviamente essere stampati, tra i gruppi di prigionieri. Il giornale dove «scriveva» Guareschi si chiamava Capanno e «usciva» ogni sabato sera alle ore 20,30. Invero, distrutto il diario ufficiale, solo questi scritti gli parvero degni d’essere conservati. Proprio da questi «foglietti di carta unta e bisunta» scaturì il Diario clandestino. «È l’unico materiale autorizzato, in quanto io non solo l’ho pensato e l’ho scritto dentro il Lager: ma l’ho pure letto dentro il Lager. L’ho letto pubblicamente una, due, venti volte, e tutti lo hanno approvato».

Guareschi è la testimonianza diretta di come si sia compiuto questo miracolo. di come l’uomo sia riuscito a rimanere vivo «nella parte interna», offrendo una ricchissima serie di esempi di come ciò sia potuto accadere.

Proprio nell’introduzione del Diario Guareschi scrisse «Non abbiamo vissuto come i bruti». È un verso di dante, forse il più citato, quello che ha ispirato le più spontanee e sincere rivendicazioni. È la parafrasi dell’incitamento di Ulisse ai suoi compagni «foste non fatti a viver come bruti». È una dichiarazione talmente solenne e categorica che più di tante altre riusciva a tradurre il grido di ribadita dignità dei prigionieri. «Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo», spiega Guareschi, «La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire». Questo concetto di passato e avvenire è fondamentale nella coscienza degli internati. Significava credere tenacemente che la vita avesse un senso che si compiva nel suo divenire e che in tale sviluppo temporale anche gli internati potessero avere un ruolo da protagonista, non disperatamente passivo.

Il racconto di Guareschi prosegue: «fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà». Si ricostruisce solo quando si pensa, quando si crede a un futuro certo che consoliderà le fondamenta gettate con coraggio nella tragedia e nella disperazione. Anche Guareschi conferma che nei campi sorsero giornali parlati, le conferenze, la chiesa, l’università, il teatro, i concerti, le mostre d’arte, lo sport, l’artigianato, le assemblee regionali, i servizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca, il centro radio, il commercio, l’industria. «Gente si getta deliberatamente nella mischia delle conferenze e delle discussioni storiche, politiche, filosofiche, artistiche e letterarie. discutono di Proust, di Croce, di Marx, di Cézanne e di Leopardi. Questo è istinto di conservazione, è necessità di iniettare nell’aria limacciosa del Lager l’ossigeno che permetta il sopravvivere dello spirito». Insomma, in uno straordinario e ricchissimo microcosmo si svilupparono tutti quegli elementi che contraddistinguono la civiltà dalla barbarie, che consentono di organizzare un gruppo sociale elementare e trasformarlo in una società organizzata. Questa collettività raccoglieva in sé le matrici culturali e identitarie della tradizione dei suoi componenti, che in continuità con il passato e con il futuro, disegnavano un’attualità di speranza e di fede.

Il Diario di Guareschi è una serie di aneddoti che descrivono temi e situazioni frequenti nella vita del campo. Nelle sue descrizioni, come nell’enunciato di cui s’è detto «non abbiamo vissuto come i bruti», Guareschi attinge più o meno esplicitamente all’immaginario della Divina Commedia e in particolare a quello offerto dalla prima cantica dell’Inferno. Si pensi alla descrizione di un pozzo nero: «Molti, una decina, sono caduti nella belletta, e oggi un alpino piantato nel fango orrendo fino alle ascelle, faceva pensare giustamente a un angolo di girone infernale».

Guareschi racconta che nel campo di Sandbostel fu animata anche una università, che tuttavia pur avendo orari e programmi precisi, docenti d’eccezione, non aveva tuttavia un tetto. Gruppi di persone si radunavano all’aperto dietro le baracche e quelle erano le classi. «dietro la baracca Y c’è l’aula di Belle Lettere. Si sta svolgendo una litura dantis”:

 

...lungo la proda del bollor vermiglio

ove i bolliti facean alte strida.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;

e il gran Centauro disse: Ei son tiranni

che dier nel sangue e nell’aver di piglio.

Quivi si piangon gli spietati danni...

 

Una sentinella dalla torretta osserva e forse ascolta, certamente qualche parola gli giunge all’orecchio. Ma non capisce, probabilmente non parla l’italiano e comunque non afferra il senso dei versi, men che meno può immaginare quanto li riguardino, lui come tutti gli altri abitanti del campo.

Una delle privazioni più sofferte dagli internati era la fame; fame cui Guareschi riconduce la pazzia che anima tanti suoi compagni. Ancora una volta lo scrittore ricorre alle parole della Commedia, per dire in sintesi l’atteggiamento degli italiani di fronte alla necessità del nutrimento: «più che il dolor poté il digiuno» e cita una serie di aneddoti tragicomici, sulle conseguenze di tale principio. Un professore di liceo si scola per intero un fiasco di melassa fortunosamente trovato. Un tenente di artiglieria divora un blocco di margarina come fosse pane. Altri si ingegnano di cucinare al posto della farina, con il gesso o con la scagliola. Guareschi ricorre all’ironia per raccontare una realtà tanto tragica, da risultare quasi irriferibile secondo schemi logici convenzionali. Non sarà l’unico ad adottare tale metodo e sempre, come minimo comun denominatore, rimane l’immaginario dantesco, come codice interpretativo della cruda realtà.

Quello di Guareschi è forse il diario più celebre tenuto dagli internati, ma molti ricorsero a questo strumento. Era invero una pratica molto diffusa, anche se assai pericolosa. Venire scoperti significava incorrere in punizioni che arrivavano anche alla pena capitale, se il Comando del campo avesse considerato il rischio di sabotaggio contro la sicurezza del Reich. Tuttavia, i diari c’erano e venivano tenuti nelle maniere più avventurose. Erano scritti da tutti, senza distinzione di grado o di preparazione culturale e qualsiasi materiale era utile per potervi scrivere. Il diario era uno strumento efficace per la difesa della propria personalità e la conservazione della propria identità, la propria intima sfera di valori e di affetti.

Certamente i diari avevano un loro intrinseco effetto catartico, ma nella scrittura delle memorie c’era anche la sincera e spontanea idea di dover raccogliere le testimonianze da rendere una volta che tutto fosse finito.

Nicola Bultrini, Con Dante in esilio. La poesia e l'arte nei luoghi di prigionia, Edizioni Ares, 2020.