Con Dante in esilio: le parole di Gadda

Nicola Bultrini
Statua di Dante, Piazza dei Signori, Verona
Statua di Dante, Piazza dei Signori, Verona

Nei più terribili luoghi di sofferenza, i lager e i campi di prigionia della Seconda guerra mondiale, gli internati si sono ripetutamente e con vivissimo impegno rivolti all’arte, ma soprattutto alla poesia e in particolare alla Divina Commedia, autentica stella poetica che ha squarciato il buio di una prigionia asfissiante e che è stata letta con grande accanimento e conforto allo stesso tempo.

È facile individuare il parallelismo tra la condizione di Dante e quella dei militari italiani internati nei Lager nazisti: anch’essi si trovavano in una condizione di sradicamento dalla propria patria: anch’essi si trovavano in esilio e, per estremo paradosso, in esilio volontario. Come Dante rifiutò il ritorno a Firenze grazie all’amnistia, anche i militari internati rifiutarono di tornare in Italia, quasi «amnistiati» attraverso l’adesione alla Repubblica Sociale. Anche per i militari italiani tutto ciò contribuiva a ridisegnare il senso di onore e di dignità individuale e collettiva. La comunanza di sorte con Dante era esplicitamente avvertita dai prigionieri che proprio ai versi di Dante si riferivano per descrivere la loro condizione.

In occasione del 700 anniversario della morte del Sommo poeta, Nicola Bultrini, poeta italiano ha messo insieme le testimonianze di quanti, italiani e non, letterati famosi o semplici prigionieri, si sono affidati a Dante per non vivere come bruti l’esperienza atroce della reclusione.

Con Dante in esilio è un viaggio per comprendere come la Divina Commedia sia stata di ispirazione e conforto e come ancora oggi sia attuale, qualsiasi sia l’inferno in cui venga letto.

 

Cap. 5 – Giornale di prigionia

Il tenente Carlo Emilio Gadda fu tenuto prigioniero, dopo Caporetto, nel campo di Celle. Era uno dei campi di prigionia più noti, non solo per le dimensioni, e per aver ospitato tanti letterati importanti, ma anche per le penose e finanche tragiche condizioni di vita.

Tra i pochi beni accessibili, e quindi sommamente preziosi per i detenuti, c’erano i libri. Nel Giornale di guerra e di prigionia, Gadda l’8 aprile 1918 annota che durante la perquisizione della sua baracca sono stati sequestrati dei libri, bene certamente importante, che interrompeva la «solita vita» del Lager, il «solito peso dell’anima» (sic). Lo studio di un po’ di matematica, delle lingue, qualche semplice concerto vocale, per Gadda non erano soltanto motivo di conforto, ma sopperivano alle privazioni generali e si facevano quindi nutrimento alternativo dello spirito. C’era anche una biblioteca nel campo; ogni blocco ne aveva una.

Gadda precisa che «è una biblioteca per modo di dire. Quattro libri accozzati come si poteva. Ma è già un bello sforzo, se si pensa che i tedeschi impiegano dai tre ai cinque mesi per farci avere i libri che ordiniamo. L’organizzazione e la direzione della biblioteca sono dovute a benemeriti ufficiali italiani».

Anche la sala musica e di convegno era ben organizzata da alacri ufficiali italiani. Si noti fin d’ora che questa situazione cambierà radicalmente durante la Seconda guerra mondiale: innanzitutto, non ci sarà più quella netta distinzione tra graduati e truppa, ma soprattutto verrà tristemente a mancare il rispetto per la dignità del recluso che durante la Grande guerra, seppure fortemente mortificato nei fatti, ancora esisteva, almeno nelle intenzioni – i tedeschi provvedevano, anche se con grande ritardo, a fornire i libri ordinati dagli ufficiali italiani. Durante la prigionia Gadda è sempre fortemente provato nello spirito, depresso e sfiduciato. Passa il tempo leggendo e studiando. Cerca di imparare il tedesco ma lo studio procede in maniera saltuaria e irrazionale. Tenta di tradurre i giornali ma fa una gran fatica a memorizzare qualcosa. Eppure, annota: «Leggo e rileggo qualche poesia, il che mi riesce un buon sussidio per imparare a ritenere vocaboli». La poesia, dunque, come strumento utile per imparare una lingua.

Inconsapevolmente – forse – Gadda ci suggerisce una cosa importante, la poesia, in quanto precipitato di esperienze interiori tese alla conoscenza, è il nervo più profondo della nostra espressione, la manifestazione più esteriore della quale è certamente la lingua. La lingua di un popolo si forma nei secoli, nei millenni, per stratificazioni, per agglomerazioni attorno a un filamento di codici condivisi. La poesia è dunque relazione forte e incisiva con quel nervo. Del resto, noi nominiamo le cose, attribuiamo loro un nome identificativo, quando e solo quando le conosciamo. Gadda conosce la realtà che vive attraverso la lingua della terra che lo ospita e conosce la lingua attraverso la poesia, ovvero l’espressione formale più prossima alla medesima profonda esperienza di conoscenza. La lingua invero la scrittura erano davvero fondamentali per gli internati; non si trattava solo di leggere, ma anche di scrivere, costruire attivamente quella conoscenza minima che potesse garantire la consapevolezza della loro identità pur in una condizione tanto privativa.

Annota Gadda nel suo diario: «Un’altra manifestazione dell’attività dei baraccani è la pubblicazione settimanale d’un giornale manoscritto. Esso viene redatto in due copie e s’intitola L’Organo (...) Esce la domenica; il direttore ne è Giuseppe Sciano, sottotenente del Battaglione Morbegno, parmigiano, studente di legge, poeta, ecc». In altra occasione Gadda è esplicito in merito alla poesia. «Ultima e ignobile attività dei baraccani, dico ignobile nel senso bonario, è la mania poetica che ha tutti colpiti coloro che si trovano nella immediata possibilità di far versi (...) Si leggono così sonetti, motivi vecchi e nuovi, futurismo, roba carducciana, satire sulle poesie altrui, satire sulle satire, poesie dei satirici, traduzioni dal francese, ecc. ecc. ecc.». È da credere che in questo eccetera ci sia stata anche la Divina Commedia, una delle opere già allora comunque didatticamente più diffuse. frequenti erano nel campo rappresentazioni teatrali, su testi scritti nello stesso contesto e spesso satirici o comunque umoristici. È un fatto, dunque, che molti dei prigionieri si davano all’arte, principalmente all’arte della scrittura quale che fosse: prosa, poesia, teatro. Il 31 luglio del 1918, Gadda nella baracca 15 annota d’aver cambiato compagnia e che «i poeti e facitori di versi, me escluso, che ne feci ma non ne faccio, sono sette od otto», una compagnia certamente migliore delle precedenti. Gadda aggiunge: «ringrazio dio con l’anima (...) di non aver voluto aggiungere alla sventura il martirio della “compagnia malvagia e scempia”, che tanto mi gravò le spalle nella mia vita militare». Una citazione da Dante – Canto XVII del Paradiso – certamente non casuale.

Lo scrittore attinge da quell’immenso immaginario che è la Commedia per descrivere la sua vicenda. Non è e non sarà un caso isolato, come vedremo, anzi una prassi radicata e spontanea quanto sincera. La pagina del diario si chiude con una nota tra parentesi «finito di scrivere a tambur battente, in prima copia, la sera del 31 luglio 1918. – Anguissola major dice che la penna arriva a stento a seguire il mio pensiero. È un pensiero facile, certamente: si tratta di fotografare cose e immagini, ma ho scritto un’oretta, vertiginosamente». finita la guerra Gadda è uno dei tanti delusi dalle sorti della loro vicenda personale. Disincanto, amarezza, rabbia repressa, serpeggiano tra tanti che furono coinvolti e soffrirono in prima persona le tragedie del conflitto. A Milano il 20 marzo 1919, Gadda ammette «Non ho tempo né voglia di notare i particolari di questo terribile periodo della mia vita. Mi limiterò a un riassunto di carattere generale (...). Per le rime posso pensare di me come Dante, ma senza speranza: “questi fu tal nella sua vita nova, virtualmente, ch’ogni abito destro fatto averebbe in lui mirabil seme e non colto, quant’egli ha più del buon vigor terrestro”».

Ancora Dante dunque, le sue parole, le sue esperienze, tradotte nei versi, evidentemente utili a leggere e comprendere la realtà di un soldato reduce dalla prima guerra moderna, ma se per Gadda il riferimento a Dante era soprattutto indiretto e comunque letterario, per altri l’immaginario della Commedia pervadeva la sostanza medesima della narrazione rievocativa. «L’impressione fu di entrare in un campo di morti, dove per caso i cadaveri fossero balzati su dalle fosse e girassero barcollando nei viali. Il bagno, la disinfezione. Quell’ammasso di corpi scheletriti, di pelli arrossate dai morsi della scabbia; quel tanfo di carni sudicie, di cenci impidocchiati (...) Questa fu la prima conoscenza di CelleLager»; così il tenente Niccolò Nicchiarelli riporta la sua prima visione del medesimo campo di concentramento che ospitò Gadda. Un «campo di morti», cadaveri che alzano su dalle fosse, corpi scheletriti. Sembra la descrizione della prima visione che i soldati dell’armata rossa devono aver avuto appena imbattutisi nel campo di Auschwitz. Sembra una delle terribili descrizioni che Dante fa delle bolge infernali. E Nicchiarelli certamente conosceva la Divina Commedia e conosceva anche la poesia. Non è un caso che durante la prigionia egli abbia scritto tre liriche descrittive della vita del campo che pubblicò, finita la guerra, insieme alla commedia Un giorno a CelleLager.

La poesia, dunque, ancora una volta scelta come strumento per cogliere tutto lo spettro profondo delle immagini, per leggere l’altrimenti indicibile. La prima lirica inizia con due versi sospesi:

 

La terra

dei vivi di guerra insepolti...

 

I puntini di sospensione tracciano una pausa che non può essere soltanto di riflessione. L’autore sembra vacillare, indugiare sulla soglia. forse sta prendendo il fiato per tornare alla realtà feroce che deve/vuole descrivere, forse dubita della capacità di farcela, forse è consapevole della difficoltà insormontabile di dire qualcosa che sembra non appartenere a questa realtà, che la logica non vorrebbe ospitare nella nostra normalità. La visione continua come un fiume in piena; Nicchiarelli sa che può e fondamentalmente deve, riferire:

 

Officine di freddo:

otto spelonche offerte

ai convegni diurni;

otto bolgie di fumo.

 

E ancora Dante suggerisce l’immagine per sintetizzare la complessa crudezza delle cose. La seconda lirica è ancora più feroce; si intitola Gefangen, ovvero «prigioniero». L’attacco è brutale:

 

Sa di fango

e di fame e di sangue...

 

Sono tremila e più:

sagome strane,

probabilmente umane;

ZZZzzz a sedere,

SSSsss in cammino.

 

Sono magri bocconi

che il vento affamato

rosicchia scontento.

 

Ciascuno:

2 metri quadrati di pelle

(ne avanza sul ventre);

100 grammi di peli

(gli steli dell’ozio);

6 litri di sangue

(decotto di rape);

un fastello di ossa

e cascami di flaccide polpe.

Ogni giorno una libbra di meno.

 

Ogni giorno più curvi:

forse morti, risorti a metà

dalle fosse dischiuse;

forse vivi, chinati ad entrarvi...

 

Ancora pause, esitazioni. Stavolta senza indugio, sono per conferire perentorietà all’affermazione, e comunque per ricordare che per quanto si possa tentare di descrivere, rimarrà qualcosa di non decifrabile. Parliamo di sagome solo «probabilmente» umane. Corpi che possiamo sintetizzare scientificamente e dubitare che siano quasi morti ma non necessariamente ancora vivi. Appartengono a una terra di mezzo; magari sono risorti oppure stanno per entrare nella fossa. Sono come quei fanti che durante la guerra uscivano dalla trincea, dalla «tana che sa di fogna e di sepolcro» come la descrisse d’Annunzio, per avventurarsi in quello spazio dove la sorte sta giocando le ultime carte e si è forse già morti o forse ancora no. Si corre disperatamente incontro a questa lacerante immensità, si inciampa in ogni minima certezza, si attraversa, moschetto alla mano, elmetto ben calzato in testa, la «terra di nessuno».

Anche a Celle Lager gli ufficiali superiori più energici si dettero gran daffare per recuperare e organizzare le poche risorse culturali disponibili e proporre conferenze, lezioni, dibattiti, finanche corsi di recupero scolastico. Il tutto per tenere le menti deste e lontane quanto più possibile dall’incombente minaccia dell’annichilimento.

Paradossalmente, almeno se si raffronta il fatto con quanto accadde nel conflitto successivo, una volta verificato che le attività degli internati non costituissero minacce, i carcerieri lasciarono comunque i prigionieri liberi di gestire queste attività, addirittura anche incoraggiandole, come nel caso delle orchestrine del campo. L’inizio fu ovviamente difficilissimo, senza nulla, neppure carta da scrivere, poi in un certo senso autotassandosi, si riuscì a realizzare una piccola biblioteca, un’orchestrina, un teatrino. I blocchi avevano proprie compagnie che con il loro calendario di eventi entravano in competizione tra loro.

Questi racconti, per quanto confortanti, possono tuttavia dissimulare una realtà che era invece quotidianamente tragica, soprattutto per la truppa, come s’è detto, e fu proprio tanta tragedia a spingere le vittime a fare, a tentare la fuga spirituale dal nulla che avrebbe altrimenti avvolto ogni singola esperienza di reclusione. del resto, un ex combattente anonimo scrisse, come predicendo quel che sarebbe stato, ancora più duramente, nella Seconda guerra mondiale: «la iniqua e raccapricciante realtà del soldato, prigioniero di guerra in terra tedesca, non potrà mai essere compiutamente resa: essa supera talmente ogni immaginazione che, oggi, appare inverosimile persino a chi l’ha vissuta e miracolosamente superata».

Nicola Bultrini, Con Dante in esilio. La poesia e l'arte nei luoghi di prigionia, Edizioni Ares, 2020.