“Oh, que será”
“Oh, que será”
Sulle note della chitarra, cantava “Oh, che sarà” di Chico Buarque, nella traduzione di Ivano Fossati. Autentica poesia.
Avrei dovuto lavorare almeno un pochino, ma mi distraevo intravedendolo da dietro la colonna. Dietro quei piccoli mattoncini solidi, regolari e ben fissati c’era il suo profilo concentrato e, oserei dire, felice, un tutt’uno con la chitarra e la voce, così bella. Provava gli acuti e poi li riprovava, perché non erano il suo. Avrebbe avuto bisogno di un aiuto, anche in quello, ma era così abituato a non chiedere niente che avrebbe prima o poi azzeccato quella nota, era una questione di principio, nemmeno di talento.
E poi si era entusiasmato, perché prima avevamo guardato sullo schermo l’interpretazione di Chico Buarque e Milton Nascimento. Nella prima parte del video Chico ascoltava il vocalizzo di Milton e il suo volto non riusciva a trattenere un’espressione di trasporto e commozione, era palese che lì sul palco quei due talenti stavano comunicando in modo diverso, in un’unione di anime antica e presente. Alla fine di quell’esibizione si erano abbracciati come fratelli, come se avessero riconosciuto di essere parte di una stessa sostanza di voce e di spirito.
Io mi ero commossa, come sempre quando sento che è vero, quando si palesano precarietà, instabilità e verità, e risulta evidente che non possiamo trattenere niente, nessun brandello di tempo, ma che le anime si possono sfiorare per davvero in una dimensione non completamente umana.
Poi avevo ripreso il mio lavoro, avevo pochi giorni per concludere tutto.
Lui intanto armeggiava con le parole e si incagliava su quegli acuti, provando e riprovando. Ma la melodia c’era, il suono era sempre più chiaro e mancava davvero poco perché quel canto si aprisse:
“Oh, che sarà che sarà,
quel che non ha ragione né mai ce l’avrà
quel che non ha rimedio né mai ce l’avrà
quel che non ha misura…”
Che poesia contenevano tutte quelle parole! La speranza, l’impotenza e il destino nella sua imperscrutabilità.
Lasciai la stilografica al gatto e lo raggiunsi, mi sedetti accanto. Non potevo non esprimere la mia versione dei fatti, così cominciai a estrarre sbilenche parole cantate che si rinforzavano poi a ogni verso. Seguivo la sua intonazione e accarezzavo con la mia tonalità quelle note acute che con le sue ora risultavano insieme rotonde e sghembe. Si volse verso di me: “Sei intonata!” non immaginava minimamente che quel canto potesse essere così mio com’era suo, d’altronde, non immaginava lontanamente che cantare volesse dire per me descrivere quello che c’era, non lo immaginava. Accorati e poi sempre uniti in una melodia gridavamo la nostra incertezza seducente e molle.
Avrei voluto allora donargli tutto l’amore e la tenerezza di cui lui aveva bisogno e prendere in cambio tutto l’amore e la tenerezza di cui io avevo bisogno, ma la combinazione creata da quelle voci si disperdeva vaga nella stanza senza soffitto.
“Ah, che sarà, che sarà
Che vive nell'idea di questi amanti
Che cantano i poeti più deliranti
Che giurano i profeti ubriacati
Che sta sul cammino dei mutilati
E nella fantasia degli infelici”