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Dalle carte alla Commedia: vicende di famiglia degli Estensi tra storia e letteratura

Inventario dei beni mobili di Niccolò III d’Este, Ferrara, 1436-1444 (ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei principi, reg. 1, cc. 40v-41r).
Inventario dei beni mobili di Niccolò III d’Este, Ferrara, 1436-1444 (ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei principi, reg. 1, cc. 40v-41r).
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Testamento noncupativo di Azzo VII d’Este, con cui nomina suo erede Obizzo II, figlio illegittimo di Rinaldo; Ferrara, 13 febbraio 1264 (ASMo, ASE, Casa e Stato, Documenti spettanti a principi estensi, b. 324, fasc. 2).

 

“E quella fronte c’ ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo"

(Inferno XII, 109-112).

 

Così, Dante Alighieri presenta la figura di Obizzo II d’Este (1247-1293), collocato tra i violenti verso il prossimo, a scontare il contrappasso della sua pena sommerso dal sangue bollente di una fossa ricolma anche di tiranni. Accanto a lui espia i suoi peccati Ezzellino da Romano (1194-1259), celeberrimo signore della Marca Trevigiana, esempio emblematico di dominatore e, paradossalmente, acerrimo avversario degli Este.

Il Poeta non lesina parole aspre contro Obizzo, la cui figura è macchiata di molte ombre, nei versi dell’Inferno: alla ferocia che l’Alighieri gli attribuisce, si somma il sospetto sulla sua morte, che sarebbe stata condotta dalla sua stessa prole.

Trascorsi i secoli, alla luce delle conoscenze storiche e documentarie, viene da domandarsi quanto vi sia di vero nei versi di Dante, tracciando le considerazioni senza le sfumature soggettive che traspaiono, inevitabili, dalle pagine della Commedia.

Obizzo II, signore di Ferrara a partire dal 1264, ebbe una vicenda personale alquanto travagliata: figlio naturale di Rinaldo d’Este (1230-1251), la sua ascendenza materna era, invece tutt’altro che patrizia. Rinaldo, infatti, aveva trascorso buona parte della sua vita in cattività, consegnato come pegno di fede dal padre Azzo VII (1205 ca.-1264) all’imperatore Federico II di Svevia nel 1239.

Sebbene questo tipo di accordo non comportasse necessariamente una severa prigionia, le sorti di Rinaldo subirono una svolta in negativo quando il padre ebbe a schierarsi politicamente con il papa. Il ragazzo venne dunque incarcerato dapprima a Cremona, infine in Puglia, dove poi morì, presumibilmente avvelenato per ordine del nuovo imperatore Corrado IV. A consigliare una simile sorte potrebbe essere stato proprio Ezzellino da Romano, nonostante si fosse imparentato, per matrimonio, col giovane Rinaldo.

Questo matrimonio, d’altronde, non portò eredi legittimi a Rinaldo, il quale ebbe comunque tre figli naturali: tra essi, appunto, Obizzo, nato in seguito alla relazione con una lavandaia napoletana.

La questione, non particolarmente inusuale per le consuetudini dell’epoca, costituiva però un ostacolo per la famiglia Este, dal momento che Rinaldo stesso era l’unico erede maschio di Azzo VII.

Questi, dunque, per non interrompere la linea di sangue dinastica, si trovò costretto a riconoscere formalmente il nipote, legittimando Obizzo come suo successore tramite un testamento datato 13 febbraio 1264.

Tale scelta venne incoraggiata da Aldighiero Fontana, il più fidato consigliere di Azzo, che spinse in questa direzione nonostante il parere contrario dei maggiorenti cittadini, i quali vedevano scarse possibilità in Obizzo, ancora giovane e cresciuto lontano da Ferrara per la maggior parte della sua vita.

Aldighiero invece insistette, rifiutando di accollarsi direttamente la signoria cittadina, forse spinto dalla convinzione da poter continuare a influenzare il potere locale dalla posizione privilegiata che si era conquistato; inizialmente, questa previsione si dimostrò realistica e Obizzo si fece indirizzare dall’ausilio del Fontana, affidandosi a esso per alcuni anni.

Ma i contrasti tra i due non tardarono a emergere, tanto che la morte di Aldighiero (avvenuta nel 1270), sospetta nuovamente di avvelenamento, è stata ascritta proprio a Obizzo, ormai maturato come individuo e desideroso di tracciare la sua personale impronta, libero dall’ombra del potente consigliere.

Curiosamente, il nome del Fontana ha spinto gli studiosi a cercarne la parentela con gli Aldighieri ferraresi, andando a ipotizzare, quindi, un reticolo di legami anche con la famiglia di Dante; d’altronde, lo stesso Poeta vagheggia una discendenza da quella stessa stirpe, come fa narrare alla moglie del trisavolo Cacciaguida nel XV canto del Paradiso:

 

“Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo”.

 

Ma, quantomeno nel caso di Aldighiero, il legame di sangue pare essere inesistente, sebbene la sua vicenda possa risuonare come prova nelle accuse di violenza mosse da Dante a Obizzo II.

Accuse che, in generale, non trovano significativi riscontri nei fatti, assorbite nel normale agire dei potenti del periodo: pare, anzi, che il suo dominio trovasse buon riconoscimento in Ferrara, Modena e Reggio.

È possibile, dunque, che la critica del Poeta fosse condizionata anche da questioni di campo?

Innegabilmente, le azioni degli Este tendevano ad avvantaggiare gli Angioini di Francia e, tramite essi, il pontefice, osteggiando dunque l’Impero germanico; inutile rammentare quanto ciò potesse risultare inviso al Poeta ormai esiliato, che andava componendo la Commedia lontano dalla sua Firenze, in balia di una condanna che lo aveva, quasi, ucciso al mondo.

D’altronde egli, nel suo peregrinare in area padana, non subì mai l’attrazione del dominio estense, nemmeno negli anni della formazione, quando oltrepassò l’Appennino per recarsi a studiare a Bologna.

Diversi fattori contribuivano quindi alla condanna letteraria di Obizzo, che viene messo alla gogna anche per il modo in cui morì: di nuovo, una morte violenta, la cui colpa viene fatta ricadere sul figlio primogenito Azzo VIII. Dante qui non ha dubbi, arrivando ad appellare Azzo con un dispregiativo “figliastro”, non tanto per metterne in discussione la legittimità, quanto per denigrarne la figura. In fondo, un parricida non merita nemmeno di essere chiamato figlio.

L’uccisione parrebbe essere stata condotta da Azzo in combutta con il fratello mediano Aldobrandino, forse in contrasto con il terzogenito Francesco, che si diceva favorito dal padre.

Ugualmente, i documenti non attestano questa disparità di trattamento, come si evince dal testamento di Obizzo II, dove è inserita l’istituzione ad eredi universali dei tre figli, senza distinzione, secondo l’usuale tradizione longobarda, a cui la famiglia d’Este si richiamava per ascendenza; questa nomina venne però disattesa nel conferimento del marchesato, che fu poi attribuito, dalle autorità ferraresi, al solo Azzo, portando effettivamente ad un violento scontro per la successione.

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Testamento di Obizzo II d’Este; Ferrara, 28 giugno 1292 (ASMo, ASE, Casa e Stato, Documenti Riguardanti la Casa e lo Stato – Membranacei, cass. 6, n. 1).

In ogni caso, le parole che il Poeta usa nell’Inferno, per narrare del presunto parricidio estense, sono certo coraggiose, poiché la morte dello stesso Azzo VIII avvenne soltanto nel 1308, quindi successivamente al periodo di stesura della prima cantica della Commedia, la cui data ultima di composizione è fissata all’anno 1307; inoltre, è opportuno ricordare che successore di Azzo fu il fratello Aldobrandino, il quale, però, non viene esplicitamente additato come complice del delitto da Dante.

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Testamento di Azzo VIII, in copia autentica; Ferrara, 24 gennaio 1308, in copia del 1485 (ASMo, ASE, Casa e Stato, Documenti spettanti a principi estensi, b. 324, fasc. 4).

Alla luce di queste considerazioni, certo, verrebbe da pensare che l’opera di Dante non dovesse essere molto apprezzata alla corte estense. Sbaglieremmo, perché i signori di Ferrara non tardarono, invece, ad accogliere la Commedia tra i costosi manoscritti della loro biblioteca, come ci attesta la ricchissima collezione ancora oggi conservata nella Biblioteca Estense e che risulta anche dalle testimonianze d’archivio, a partire dal primo registro dell’Amministrazione dei Principi, conservato presso l’Archivio di Stato di Modena e che tramanda come il marchese Niccolò III, negli anni a cavallo tra il 1436 e il 1444, risultasse possessore di due preziosi esemplari del poema.

Inventario dei beni mobili di Niccolò III d’Este, Ferrara, 1436-1444 (ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei principi, reg. 1, cc. 40v-41r).

Inventario dei beni mobili di Niccolò III d’Este, Ferrara, 1436-1444 (ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei principi, reg. 1, cc. 40v-41r).

Non bisogna stupirsene. D’altra parte, era stato un suo omonimo antenato, Niccolò II, a permettere che Benvenuto da Imola, celebre esegeta del testo dantesco, completasse il suo straordinario commento alla Commedia, ospitandolo a Ferrara e fungendogli da protettore e mecenate.

L’arte e la storia si intrecciavano in maniere imprevedibili.

Bibliografia

D. Alighieri, La Divina Commedia.

S. Bertelli, La Commedia di Dante alla corte degli Este (con una scheda paleografica su Anicio Bonucci falsario), in <<La bibliofilia. Rivista di storia del libro e bibliografia>>, anno CXX, n. 3 (2018), pp. 377-397.

Dante e la Divina Commedia in Emilia-Romagna: testimonianze dantesche negli archivi e nelle biblioteche. VII centenario della morte di Dante Alighieri (1321-2021), a cura di G. Albanese, S. Bertelli, P. Pontari.

T. Sandonnini, Dante e gli Estensi, in <<Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie modenesi>>, serie IV, vol. IV (1893), pp. 149-191.