Il giro del mondo in una sola lettera
Il 6 settembre del 1522 rientrava al porto andaluso di Sanlùcar de Barrameda la piccola caracca Victoria, l’unica a fare ritorno tra le cinque navi che erano salpate il 10 agosto 1519 agli ordini di Ferdinando Magellano. Due giorni dopo sarebbe attraccata a Siviglia, concludendo così definitivamente la straordinaria impresa, l’ultima e la più avventurosa tra le grandi spedizioni marittime iniziate con i viaggi di Colombo.
Il bastimento era infatti salpato per una missione senza precedenti: la circumnavigazione del globo attraverso gli oceani, oltrepassando la punta meridionale delle Americhe, da poco entrate nella coscienza degli europei come continente sconosciuto e novelle Colonne d’Ercole.
Il viaggio di Magellano, a metà tra l’esplorazione e la costruzione di nuove rotte commerciali, fu martoriato da una lunga sequela di disgrazie e perdite, esemplificate dalla morte dello stesso comandante, caduto il 27 aprile 1521 per una ferita avvelenata, quando ormai la via del Pacifico sembrava tracciata e la flottiglia aveva raggiunto le attuali Filippine.
A Magellano succedette quindi, per elezione degli uomini rimasti, Juan Sebastiàn Elcano, divenuto nel frattempo capitano della Victoria, una delle due sole navi rimaste, con un equipaggio totale ormai ridotto a meno della metà rispetto all’inizio del viaggio.
Dopo alcune ulteriori vicissitudini, che portarono all’imbarco di un prezioso carico di spezie e di alcuni indigeni delle isole Molucche, si decise di spezzare l’integrità della minuscola flotta per tentare la via del ritorno lungo due percorsi diversi: la Trinidad, costretta altri quattro mesi all’ancora per una grave falla, osò la rotta a ritroso, verso la Panama spagnola, solo per essere imprigionata dai portoghesi; Elcano invece ordinò alla Victoria la direttrice dei mari africani, andando così a violare il Trattato di Tordesillas e rischiando, a sua volta, una facile cattura.
Il Trattato aveva infatti separato, nel 1494, la sfera d’influenza marittima tra le potenze di Spagna e Portogallo, con una linea immaginaria di cesura tracciata parallelamente al meridiano più prossimo all’arcipelago di Capo Verde: procedendo verso ovest, Elcano rischiava quindi di gettarsi tra le maglie della flotta portoghese, che presidiava, di diritto, le acque dell’Africa.
L’azzardo, tuttavia, pagò e la Victoria, assai malridotta, imbarcante acqua e con le vele ormai a pezzi, riuscì a fare ritorno a Sanlùcar, completando così l’interezza del percorso: a suo bordo, erano rimasti soltanto 18 marinai europei, tra i quali Antonio Pigafetta, cronista della spedizione. Erano salpati in 242.
Elcano, quello stesso giorno, scrisse di proprio pugno una lettera a Carlo, re di Spagna e dei Romani, che pochi anni dopo otterrà il titolo imperiale col nome di Carlo V.
Nella celebre missiva, il capitano riassunse, in 700 parole, l’ordalia della traversata, narrandogli del successo ottenuto pur senza nominarsi neppure una volta; si premurò comunque di richiedere al sovrano un adeguato riconoscimento per i pochi uomini sopravvissuti. L’originale autografo della lettera, redatto in lingua spagnola, è considerato oggi perduto: il testo è comunque noto attraverso alcune copie dell’epoca, dovute in buona parte all’iniziativa del cardinale Gasparo Contarini, allora ambasciatore veneziano presso la corte tedesca.
La notizia ebbe certo modo di diffondersi con grande celerità tra le grandi capitali dell’epoca: anche il duca Alfonso I d’Este, a Ferrara, ebbe contezza privilegiata ed esaustiva della compiuta spedizione, grazie a un dispaccio inviatogli il 27 ottobre 1522 da Benedetto Fantini, suo emissario presso Firenze. Fantini era un abile e fidato diplomatico, che si sapeva muovere con consumata abilità tra le burocrazie delle cancellerie e i giochi di potere dei palazzi. Nel suo soggiorno toscano, aveva consolidato rapidamente i rapporti con monsignor Nikolaus von Schönberg, potente arcivescovo di Capua, influente figura sia presso le aule pontificie, sia presso le stanze di Carlo V.
Von Schönberg permise dunque a Fantini di copiare una traduzione diretta del testo scritto da Elcano, che venne riportato per intero nella comunicazione ad Alfonso d’Este, preceduto da parole di chiaro stupore di fronte alla significativa, irripetibile portata dell’evento: “se sono vere le cose che in essa si contengono, sono grande”. Quello stesso dispaccio è, ancora oggi, una testimonianza di straordinario pregio, custodita tra i fondi dell’Archivio Segreto Estense, specchio rivelatore di un’epoca passata costellata di impronte indelebili.
Soltanto un trentennio dopo essere diventato enorme, cinque secoli fa il mondo era apparso, improvvisamente, più piccolo.