La parola incognita. Cifre e cifrari alla Corte estense
La parola incognita. Cifre e cifrari alla Corte estense
Il desiderio o la necessità di poter trasmettere messaggi di natura riservata, anche in forma scritta, è una caratteristica quasi costante nella storia delle relazioni umane. Abbattere il tempo e lo spazio, garantendo riservatezza e anonimato, richiede però ingegno e inventiva, per mettere in atto procedure affidabili e funzionali, che siano in grado di scavalcare innumerevoli avversità e ostacoli.
Se è relativamente semplice assicurare riserbo in un interscambio diretto tra più interlocutori, la questione si complica quando la comunicazione è affidata allo scritto: stretto nel vincolo di una relativa permanenza, un messaggio affidato alla carta deve saper custodire la propria identità a fronte di mille possibili lettori, molti dei quali indesiderati.
La soluzione a questo dilemma è stata, nel corso dei secoli, la crittografia, ossia la scienza che si occupa di cifrare (e decifrare) i messaggi, attraverso l’ideazione di sistemi condivisi per l’occultamento di informazioni all’interno di testi. Grazie alla concatenazione di una chiave e di un codice, è infatti possibile trasmettere informazioni riservate utilizzando un testo in chiaro, visibile a tutti. Il messaggio diventa quindi una sorta di lucchetto, che ha bisogno della corretta combinazione per essere sbloccato, fornendo accesso al significato reale.
Le soluzioni per cifrare uno scritto sono state, nel tempo, innumerevoli: utilizzo di alfabeti diversi; impiego di segni grafici speciali; sostituzione di parole o intere frasi con altri vocaboli concordati; ripetizioni schematizzate di parole o lettere...
Ovviamente, questi sistemi hanno spesso trovato il loro maggior impiego al servizio della “ragion di Stato”, fino ad approdare alle moderne tecnologie informatiche, che permettono, oggi, di generare sistemi basati su modelli matematici super-stratificati; ma, d’altra parte, il codice di cifratura, anche nella sua essenza basica, è sempre stato un algoritmo, sebbene ante litteram.
Come gli altri sovrani delle loro epoche, anche gli Este, signori di Ferrara, Modena e Reggio, si trovarono nell’esigenza di cifrare le loro comunicazioni, in modo da travalicare i limiti delle distanze per garantire il buon funzionamento del governo: così, le informazioni sugli affari privati e sui movimenti militari potevano circolare senza il timore che fossero intercettate dagli avversari della famiglia regnante. I codici – o cifre – venivano di frequente annotati in cifrari appositi: si tratta di strumenti, questi, che riportano, fianco a fianco, il metodo di cifratura e il messaggio da veicolare. Sono documenti che, col tempo, hanno permesso anche agli studiosi moderni di comprendere il vero senso di alcune lettere, che potevano sembrare semplici messaggi a carattere familiare o incomprensibili sequenze di caratteri grafici apparentemente senza alcun senso.
Ma il senso era sempre stato lì, celato tra i dettagli dell’inchiostro e asservito all’inventiva degli uomini, destinato originariamente solo a un preciso destinatario, seppure in attesa di altri lettori, attenti e inquisitivi.
Sappiamo che, per scongiurare al massimo tradimenti o inganni, la Corte era solita ideare cifrari differenziati per i vari corrispondenti, fossero essi parenti degli Este o loro agenti all’esterno; si trattava di una scelta quasi inevitabile, dovuta alla maggiore debolezza intrinseca a una comunicazione che utilizzava sistemi di cifratura “a chiave simmetrica”, in cui i corrispondenti condividevano, a monte, le informazioni sul processo di occultamento del testo. Non sarebbe stato possibile, d’altronde, operare in maniera diversa, poiché i sistemi “a chiave asimmetrica” implicano sistemi di calcolo improponibili per una computazione umana non coadiuvata da congegni elettronici.
Ma è certo più semplice vedere qualche esempio.
Alfonso I d’Este (1476-1534) era considerato uno dei migliori comandanti militari della sua epoca, soprattutto in considerazione delle sue qualità di artigliere, tanto che il suo stesso stemma riprendeva la bombarda. Pertanto, non sorprende affatto come egli abbia preso parte diretta ai conflitti della terza Guerra d’Italia (1508-1516), nel tentativo di rivendicare i territori del Polesine che Ferrara aveva dovuto cedere a Venezia pochi decenni prima, durante la cosiddetta “Guerra del sale” (1482-1484). In conseguenza di ciò, Alfonso dovette mancare per lunghi periodi dal ducato, delegandone la reggenza alla moglie Lucrezia Borgia (1480-1519), di ormai comprovata fiducia e abilità.
In tale contesto, i due sposi erano soliti comunicare tramite missive cifrate, come quella spedita da Lucrezia l’8 ottobre 1510, che racconta di una sconfitta subita dalle truppe ferraresi contro le forze veneziane, con la conseguente perdita della Rocca di Stellata, nei pressi di Bondeno.
La missiva venne vergata utilizzando una cifra a sostituzione grafica delle lettere, che l’ultima riga della pagina, redatta in normali caratteri latini, identifica come quella “de Mantua”. Alfonso e Lucrezia, in virtù anche del loro status coniugale, erano infatti soliti impiegare diversi cifrari nelle loro comunicazioni, in deroga alla pratica tradizionale di un solo sistema adottato per ogni coppia di corrispondenti.
Tra i vari tipi di cifra, poi, trovava un posto di particolare rilievo quella a scrittura dissimulata, in cui il testo in chiaro è redatto utilizzando frasi e parole di senso compiuto, che però veicolano un diverso significato, lasciato in trasparenza del dettato. In tal senso, la massima efficacia è data dall’impiego di una terminologia semplice e intima, poco propensa a generare sospetto in un eventuale lettore terzo, che potrebbe essere indotto a trascurare una comunicazione incentrata su argomenti, almeno all’apparenza, personali.
È questo il caso di un altro cifrario stabilito tra Alfonso d’Este e Lucrezia Borgia nel 1512, assai celebre, basato sulla sostituzione delle informazioni riservate, a chiaro carattere strategico e militare, con un lessico dissimulato inerente alla più stretta familiarità domestica.
Così, sulla colonna di sinistra del cifrario, è possibile leggere espressioni che sembrano riportare le normali vicissitudini di un fanciullo, come era lecito attendersi nelle lettera di una mamma che narra la crescita di un figlio al padre lontano; ma, dalla colonna di destra, si apprende che quelle frasi nascondevano dettagli su azioni di guerra e su spostamenti di truppe. Se Lucrezia, dunque, avesse scritto che “Il puttino grande sta bene”, per esempio, avrebbe inteso comunicare che i “Franzesi van pur verso la Francia”: notizia anch’essa di chiaro interesse per il marito, seppur in maniera ben diversa da quella di un semplice capofamiglia. In tal modo, si potrebbe quasi dire che il giovanissimo Ercole II d’Este (1508-1559), futuro erede di Alfonso, contribuiva già, indirettamente, alla tenuta del ducato estense!
A ennesima riprova della duttilità e pervasività della comunicazione cifrata, si colloca un ulteriore cifrario attribuito all’uso di Alfonso I. Si tratta, peraltro, di un cifrario complesso, in cui vengono memorizzati due diversi tipi di codice.
Sulla parte superiore, è possibile ricostruire un modello classico di scrittura cifrata, a diretta sostituzione alfabetica, in cui, a data lettera in carattere latino, corrisponde un preciso simbolo, spesso dalla forte ispirazione greca. Una missiva composta con tali caratteri sarebbe stata immediatamente identificata come cifrata, ma la complessa astrusità di alcuni simboli e la possibilità di farli corrispondere, in teoria, a una qualsiasi lettera dell’alfabeto latino, rendeva terribilmente lento e difficoltoso un teorico processo di decrittazione, ossia di comprensione del testo incognito tramite una decodifica forzata.
Nella restante parte della pagina di questo cifrario, viene poi presentata la legenda per una scrittura dissimulata, che ricorre all’impiego alternato di parole in latino e numeri in cifre arabe: si tratta, dunque, di un artificio dall’impiego pratico piuttosto efficace, perché i vocaboli latini elencati erano di uso comune anche nella corrispondenza in volgare, mentre la numerazione araba era ormai entrata nella quotidianità dell’epoca, andando progressivamente a soppiantare quella in caratteri romani. Per la massima efficacia, si doveva ricorrere, lo si è detto, all’uso di una terminologia quotidiana, così da introdurre le informazioni in maniera anonima, cesellando il testo con cura particolare, senza dare adito a sospetti sulla presenza di informazioni nascoste.
Si inseguivano, dunque, tante diverse prospettive, accompagnate da altrettanto numerose invenzioni e soluzioni: nessuna era ritenuta perfetta e inviolabile, ma la loro moltiplicazione ne amplificava la portata. Certo, al giorno d’oggi, esse tendono ad apparirci forse datate, eppure tutti i moderni sistemi crittografici, stretti tra la macchina di Turing e le chiavette di firma digitale, non sono altro che i complessi eredi computazionali di una ricca tradizione millenaria.