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Monarchia

Dante Alighieri, 1312-1313
Statua di Dante, Piazza dei Signori, Verona
Statua di Dante, Piazza dei Signori, Verona
Monarchia

Monarchia - Dante Alighieri

 

Perché leggere questo libro

L’importanza di Dante non è limitata al campo poetico e letterario, ma si estende anche alla riflessione politica. Il Monarchia, trattato scritto in un latino logico e rigoroso, ha avuto una considerevole eco, per l’autorità dell’autore, per gli argomenti svolti e soprattutto per la posizione assunta riguardo la questione politica fondamentale del suo tempo: se la supremazia spetti all’autorità religiosa o all’autorità laica.

Non sorprende che l’Alighieri, il quale durante la sua attività politica aveva lottato per difendere l’autonomia del Comune fiorentino dalle pretese temporali di papa Bonifacio VIII, in quest’opera si schieri a sostegno dell’imperatore, pur distinguendo l’autonomia dei rispettivi ambiti. A suo avviso solo un unico potere supremo, di natura universale, può garantire la pace e l’armonia sociale. Nei secoli successivi, tuttavia, l’affermazione degli Stati nazionali renderà sempre più anacronistico l’ideale politico di Dante.

 

Punti chiave

  • La monarchia universale è la forma di governo che consente la pace e la giustizia
  • Occorre che vi sia un unico re che governi, perché ogni regno diviso va in rovina
  • Il popolo romano si è avocato giustamente il ruolo di Monarca universale
  • Perfino Dio, nella persona di Cristo, ha inteso nascere sotto l’Impero romano, accettando la sua giurisdizione terrena
  • L’autorità del Monarca universale viene direttamente da Dio, non dal Papa che è solo un suo vicario in terra
  • La storia del potere secolare è più antica di quella della Chiesa e pertanto quest’ultima non può essere il fondamento di qualcosa di anteriore
  • Tra i due poteri dev’esserci un rapporto di rispetto ma non di subordinazione
  • Gli uomini hanno due finalità da raggiungere: la felicità terrena e la felicità eterna
  • Le due autorità, quella laica e quella religiosa, guidano e aiutano gli uomini nel perseguimento di questi fini

 

Titolo originale: De Monarchia

 

Riassunto

La Monarchia universale come unica garante di pace e giustizia

Il Monarchia è un trattato che raccoglie la summa del pensiero politico di Dante. É scritta in latino perché l’autore intende rivolgersi a un pubblico di dotti non necessariamente italiano e in quanto il tema affrontato è la necessità di una monarchia universale, che unifichi sotto il suo dominio tutta l’Europa. É diviso in tre libri, dedicato ognuno a un quesito: se la monarchia universale, cioè l’impero, è necessaria al benessere dell’umanità; se i Romani abbiano attuato nel passato un giusto esempio di monarchia; se il potere dell’Impero derivi dal Papa o direttamente da Dio.

Nel primo libro Dante sostiene la necessità, storica e filosofica, della monarchia universale, cioè di un dominio politico che unifichi sotto di sé tutto il mondo cristiano. Questa istituzione ha come fine principale quello di assicurare la pace e la giustizia, condizione indispensabile affinché gli uomini raggiungano la felicità terrena. Questo mondo ordinato e pacifico si può realizzare solo grazie all’opera di un Monarca che, disponendo di tutto il potere, non abbia ambizioni personali da seguire e amministri il suo popolo ispirandosi alla giustizia. Storicamente una situazione del genere si è verificata durante l’Impero di Augusto, che assicurò la pace a tutto il mondo romano. Quando invece manca questo potere unificatore, nel mondo si crea uno stato di perenne discordia.

Ecco come l’Alighieri spiega la necessità dell’unico comando: «Se consideriamo una singola contrada, il cui fine è il comodo soccorso di cose e persone, occorre che vi sia uno solo che regoli la vita degli altri, o perché imposto dall’esterno o per il fatto di essere primo fra tutti con il consenso degli altri … occorre che vi sia un solo governo … occorre che vi sia un unico re che regni e governi … ogni regno diviso in se stesso sarà distrutto» (p.13).

 

Il popolo romano ha per diritto l’Imperium

Nel secondo libro Dante dimostra come gli antichi Romani abbiano costituito il loro impero basandolo sulla giustizia e sul diritto, e non sulla sopraffazione. Per Dante i Romani riuscirono ad unificare il mondo intero sotto un unico impero grazie al valore militare e alle virtù civili. L’Impero romano simboleggiò la vittoria della civiltà sulla barbarie: come se il popolo di Roma fosse un popolo eletto, ovvero scelto da Dio per realizzare il suo progetto provvidenziale.

Successivamente, nel terzo libro, Dante analizza il rapporto tra l’Imperatore e il Papa. Dante ritiene che l’Impero e la Chiesa siano entrambi necessari al benessere della civiltà, e li paragona a due soli splendenti sul mondo. È necessario però che questi due soli s’illuminino a vicenda e creino tra di loro una situazione di concordia. Questo discorso politico di Dante venne accusato di utopismo, poiché fu difficile realizzare questa collaborazione tra Chiesa e Impero alla luce delle ambizioni personali dei diversi regnanti.

Dante, che nella prima fase della sua esistenza aveva nutrito dubbi, molto probabilmente nel solco delle considerazioni contenute nella Città di Dio di Agostino, sulla legittimità delle pretese accampate dal popolo romano al dominio universale, si trova ora, dopo una riflessione profonda, a condividerle e a ritenerle fondate. Per arrivare a questa conclusione Dante si appella all’autorità divina ed alla ragione umana. A suo parere la nobiltà del popolo romano, attestata storicamente, ne certifica l’egemonia, come pure le testimonianze dei prodigi e del favore divino che hanno costellato la sua epopea.

Dante si sofferma sul carattere provvidenziale dell’Impero romano, voluto da Dio per assicurare una condizione di pace e stabilità al mondo e unificare i popoli sotto un’unica legge, così da preparare l’umanità alla nascita di Gesù Cristo. A buon diritto, quindi, il popolo romano ha esteso il suo dominio sul mondo intero, e lo stesso vale, implicitamente, per il Sacro Romano Impero, che dell’Impero di Roma antica è legittimo erede.

Dante invoca anche il Diritto fra i grandi meriti di cui la civiltà romana si è fregiata nel progresso dell’umanità, soprattutto laddove ha imposto delle leggi attente al bene della società politica piuttosto che all’utilità individuale dei potenti. Le ha quindi estese alle terre conquistate, che in tal modo hanno potuto beneficiare di un superiore livello di incivilimento. A ulteriore sostegno del diritto dei romani a governare sul mondo intero, Dante osserva che il popolo romano è giunto per primo a definirsi e a regolarsi come organismo universale.

Se a questo si aggiunge l’ulteriore argomento per il quale il popolo romano è divenuto Monarca universale grazie alle continue vittorie in una serie di regolari duelli contro i propri avversari, abbiamo un quadro di prove razionali e storiche che l’autore ritiene probanti. Perfino Dio, nella persona di Cristo, ha inteso nascere sotto l’Impero romano, prestandosi al censimento e accettando la giurisdizione terrena di un Monarca che è stato implicitamente ammesso nella stessa storia di salvezza come una componente necessaria e non certo illegittima.

 

Da chi venga l’autorità del Monarca

Nel terzo libro vengono presentate diverse problematiche concernenti il supremo potere d’imperio. Per la materia che tratta, Dante è consapevole del fatto che possa rappresentare una possibile fonte di scontri, e sospetta che alcuni accoglieranno con sdegno le sue tesi. Dopo aver stabilito che lo sviluppo storico e provvidenziale ha scelto il popolo romano come custode legittimo del ruolo di Monarca universale, ossia come la civiltà e la cultura che ha degnamente assunto la figura di guida terrena del mondo, ora si tratta di stabilire se l’autorità di questa Monarchia universale dipenda direttamente da Dio.

La risposta di Dante è affermativa a dispetto di quanto affermano i Decretalisti, ossia coloro che, appoggiandosi ai soli documenti ecclesiastici, si oppongono all’Impero in nome della superiorità papale. Al Papa, obietta l’Alighieri, dobbiamo l’obbedienza che si deve al successore di Pietro, non certo lo stesso tipo di obbedienza che dobbiamo a Cristo. Le tesi dei Decretalisti, che Dante chiama “figli del diavolo e cùpidi ostinati”, non trovano infatti fondamento né nelle Scritture, né nei Concili e negli scritti patristici che hanno definito i dogmi. Come si vede, Dante non esita a prendere partito, in un momento di grandi inquietudini e di pericolosi schieramenti contrapposti, condannando in maniera inequivocabile coloro che affermano che l’autorità dell’Impero dipende da quella della Chiesa.

Giunto al momento di costruire una propria tesi in merito, Dante afferma che l’Impero deriva la propria autorità da Dio, il Sommo Essere. Questa tesi viene dimostrata rilevando come la storia del potere secolare sia più antica di quella della Chiesa e pertanto essa non può essere il fondamento di qualcosa di anteriore. Esso deve quindi derivare la propria legittimità dall’Essere Primo assolutamente anteriore, e cioè Dio. La Chiesa non può conferire l’autorità a nessun potere temporale, perché il suo compito è profondamente diverso: è l’imitazione del modello di Cristo, che ha esplicitamente rifiutato il regno ed il potere di questo mondo davanti a Pilato. Se non è dalla Chiesa che il potere d’imperio deriva la sua autorità, essa deriva dunque da Dio.

 

I due fini dell’uomo

Dante ricorda che due sono le finalità umane: quella spirituale e quella temporale. Per ognuna di esse l’uomo necessita di una guida, che deve identificarsi rispettivamente nell’Imperatore, erede della tradizione del popolo romano, e nel Romano Pontefice. Due sono pertanto i fini che la provvidenza ha indicato all’uomo come meta: la felicità di questa vita, che si raggiunge attraverso l’agire virtuoso ed è raffigurata dal paradiso terrestre; e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, a cui non si può giungere senza l’aiuto della luce divina, e che noi intendiamo come paradiso celeste.

Alla prima, spiega l’autore, giungiamo per mezzo degli insegnamenti filosofici nella misura in cui li seguiamo operando secondo le virtù morali ed intellettuali; alla seconda giungiamo per mezzo degli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, nella misura in cui li seguiamo operando secondo le virtù teologali, cioè fede, speranza e carità. Questo non significa che le due guide siano fra loro completamente estranee, anzi si deve postulare un rapporto che le leghi tanto quanto è legata la vita terrena alla vita spirituale: un rapporto di rispetto, ma non di subordinazione.

«Questo è il fine supremo al quale deve tendere il tutore del mondo, che è chiamato Principe romano, e cioè che in questa aiuola terrena si viva liberamente in pace» (p. 145). Ma l’autorità del Monarca temporale deriva direttamente da Dio, che è fonte dell’autorità universale. «Cesare dunque – conclude l’Alighieri – si rivolga a Pietro, con quel rispetto che il figlio primogenito deve al padre: affinché, illuminato dalla grazia della luce del padre, possa irradiarla con più efficacia sul mondo terreno, al quale è stato preposto da Colui solo che è guida di tutte le cose spirituali e temporali» (p. 147).

 

Il valore politico dell’opera

La posizione che Dante sostiene nel Monarchia è in realtà del tutto personale e originale, diversa non solo da quella teocratica dei Guelfi e della Curia papale, ma anche da quella dei Ghibellini antipapali. Egli infatti distingue l’ambito temporale da quello spirituale, in ragione del duplice fine che la Provvidenza divina ha posto di fronte all’uomo, assegnando così compiti diversi e autonomi ai due vertici delle massime istituzioni politiche in Europa. Questa sua visione politica è ribadita anche nella Divina Commedia, sia nel Canto XVI del Purgatorio, dove espone la teoria “dei due soli”, sia nel Canto VI del Paradiso dove l’anima di Giustiniano contesta le posizioni dei Guelfi e dei Ghibellini d’Italia, che in modo troppo unilaterale si opponevano o sostenevano le posizioni imperiali.

Il trattato conobbe una grande diffusione, suscitando varie reazioni, specialmente di condanna da parte dei Guelfi e della Chiesa per l’affermazione della totale autonomia del potere imperiale da quello del papa, tanto che nel 1329, pochi anni dopo la morte di Dante, l’opera fu bruciata pubblicamente per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto. Gli sviluppi politici successivi, tuttavia, evidenzieranno sempre di più il carattere anacronistico del progetto politico di Dante, il quale sognava un’Europa dominata da un solo imperatore, che estendeva la sua autorità politica su tutte le nazioni e al quale i sovrani nazionali si dovevano assoggettare, pur mantenendo il potere nei loro rispettivi paesi.

La posizione di Dante esprimeva chiaramente una reazione contro il particolarismo dell’Italia comunale e le divisioni politiche che considerava causa della debolezza del nostro Paese, e al tempo stesso anche una ferma opposizione alle pretese della monarchia francese e in particolare di Filippo il Bello, doppiamente colpevole ai suoi occhi di aver imposto il trasferimento della sede papale ad Avignone e di contrastare l’autorità imperiale. Le vicende italiane ed europee del XIV secolo smentiranno totalmente questo disegno, perché proprio dalla Francia emergerà il primo embrione di quell’entità politica, il moderno Stato nazionale, che finirà per prevalere contro tutti i suoi antagonisti: l’Impero, il Papato e le autonomie comunali.

 

Citazioni rilevanti

La missione dell’uomo di cultura

«Sembra che tutti gli uomini che sono stati indotti dalla natura superiore ad amare la verità si riconoscano in questo supremo dovere: come si sono arricchiti del lavoro degli antichi, così dovrebbero lavorare essi stessi per i posteri, affinché questi ricevano da loro nuova ricchezza» (p. 3).

 

Il fine dell’umanità: perseguire la virtù dell’intelletto

«È dunque evidente che il termine ultimo della potenza dell’intera umanità è potenza o virtù intellettiva. E poiché questa potenza tutta insieme non può essere ridotta in atto per mezzo di un unico uomo o per mezzo di una delle comunità particolari distinte più sopra, è necessario che esista nel genere umano una moltitudine, per mezzo della quale tutta questa potenza si attui; come è necessaria una moltitudine di cose generabili affinché l’intera potenza della materia prima sia sempre in atto … così è ormai chiaro il detto della Politica: cioè che coloro che hanno vigore di intelletto dominano naturalmente sugli altri» (p. 9).

 

L’omologazione di stato-bene comune e fine del diritto

«Chi mira al bene dello stato, mira al fine del diritto. E la dimostrazione è la seguente: il diritto è un rapporto reale e personale fra uomo e uomo che, mantenuto, mantiene la società umana e, corrotto, la corrompe … Se dunque i romani hanno mirato al bene dello stato, sarà giusto dire che hanno mirato al fine del diritto» (p. 57-59)

 

L'autore

Dante

Dante Alighieri (1265-1321) nacque a Firenze nel 1265, in una famiglia della piccola nobiltà guelfa, di non eccessive disponibilità economiche. Decisive, per la sua formazione, furono gli apprendistati compiuti sotto il grande maestro di arte retorica Brunetto Latini e la conoscenza del movimento stilnovista e cortese che animava la sua città al periodo. Le discussioni e le influenze ricevute dall’incontro con Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia rimarranno importantissime per la elaborazione di una propria poetica, oltre che per la condivisione di un ideale di vita. Nel 1274, con tutta probabilità, incontrò per la prima volta Bice di Folco Portinari, la celebre Beatrice, di cui si innamorò perdutamente, ma che andò sposa a Simone dè Bardi e che morì nel 1290. Nel 1277 Dante fu promesso dal padre a Gemma di Manetto Donati, alla quale si sposò nel 1295 per averne tre o quattro figli.

La vicenda della passione di Dante per Beatrice oltre che lo sconforto provato per la sua morte e le decisioni successive di dedicarsi agli studi, alla filosofia e alla politica testimoniano come questa relazione, quantunque vissuta nella pura idealità, abbia rappresentato l’evento decisivo nella sua vita. Dante, che non aveva esitato a combattere a Campaldino contro i ghibellini aretini e nell’assalto del castello pisano di Caprona, si iscrisse dal 1295 alla Corporazione dei medici e degli speziali al fine di partecipare alla vita politica di Firenze. La città era divisa tra guelfi bianchi (capeggiati dai Cerchi e fautori dell’autonomia dalle dispute extra-cittadine) e guelfi neri (filo-papali per interessi mercantili ed aventi come riferimento la famiglia dei Donati).

Dante, da un’iniziale posizione di neutralità, passa decisamente alla fazione bianca in polemica con quelli che riteneva degli insopportabili eccessi da parte di Papa Bonifacio VIII. Mandato a Roma come ambasciatore per dissuadere il Papa dall’inviare in Firenze Carlo di Valois, Dante si ritrovò lontano dalla sua città proprio mentre Corso Donati ed i Neri prendevano il potere ed iniziavano una repressione contro i bianche che coinvolse anche il poeta. Alle accuse rivoltegli preferì l’esilio e questa sua decisione lo fece condannare al rogo in contumacia. L’esilio fu perpetuo, Dante non rivedrà più la sua Firenze. Errerà per il Nord, in un percorso tortuoso ed angoscioso, che lo vedrà riannodare le fila dei fuoriusciti per poi distaccarsene, giungere una prima volta nella Verona dei Della Scala, poi nel trevigiano da Gherardo del Camino, nel 1306 dai Malaspina in Lunigiana.

L’ultima delusione gli viene dalla discesa in Italia di Arrigo VII, l’Imperatore che gli riaccese le speranze di un ritorno a Firenze, speranze svanite nel 1313. Gli ultimi anni sono divisi tra Verona e Ravenna, dove morì nel 1321. Tralasciando le opere minori o dubbie, la produzione di Dante ha veramente giustificato (e continua peraltro a giustificare) la fama che lo accompagna. Dalla sezione più propriamente letteraria o poetica (Vita Nuova, Rime, Convivio, De vulgari eloquentia, Egloghe, Epistole latine) si passa al registro trattatistico e filosofico-politico del Monarchia. La Divina commedia è una summa del pensiero e della cultura giunti fino a lui, una straordinaria cattedrale edificata con la sistematicità di un Tommaso d’Aquino in un impianto di originalità e di grandezza per molti versi ineguagliata.

 

INDICE DEL LIBRO

Libro I: Dissertazione sulla questione se l’ufficio dell’Imperatore sia necessaria al bene (Cap. 1 - 15)

Libro II: Dissertazione sulla questione se l’Impero romano si sia imposto di diritto sul mondo o meno (Cap. 1 – 11)

Libro III: Dissertazione sulla questione se l’autorità imperiale derivi dal Pontefice o direttamente da Dio (Cap. 1 – 15)

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Dante Alighieri, Monarchia, Garzanti, Milano, 1985, p. 184, a cura di F. Sanguineti.