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Italiani poca gente

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Italiani poca gente

'Il crollo delle nascite sta portando l'Italia all'invecchiamento e al declino'

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PERCHÈ LEGGERE QUESTO LIBRO

Italiani poca gente. Il Paese ai tempi del malessere demografico è un libro scritto dal decano dei demografi italiani, il professor Antonio Golini, in collaborazione con il giornalista Marco Valerio Lo Prete. Gli autori sono tra i pochi a prendere sul serio il problema della denatalità e dell’invecchiamento della società italiana, che negli ultimi anni sta facendo segnare continui record negativi in fatto di fecondità.

Nello stesso tempo criticano le tesi catastrofiste sulla sovrappopolazione diffuse da ambientalisti e neomaltusiani, sempre smentite dai fatti. Se, come recita un adagio sociologico, la demografia è destino, molto difficilmente la società italiana potrà sottrarsi al declino economico e culturale e, infine, all’estinzione, perché sembra ormai aver superato il punto di non ritorno.

Golini e Lo Prete evidenziano le cause culturali ed economiche del collasso demografico italiano, e nel finale del libro non escludono un cauto ottimismo, pur nella consapevolezza che le politiche pubbliche di incentivo alla natalità rischiano di risultare inefficaci o di generare effetti controproducenti e imprevisti.

 

Punti chiave

  • Da tempo l’Italia si caratterizza per una elevata e crescente durata della vita, e da un numero ridottissimo di figli
  • Il problema non è tanto il calo in termini assoluti della popolazione, quanto l’invecchiamento
  • Nel 1995 in Italia, per la prima volta nella storia dell’umanità, i giovani sono diventati meno numerosi degli anziani
  • L’invecchiamento della popolazione renderà la società meno produttiva e farà aumentare i costi del welfare
  • Da qui al 2050 la metà delle nascite a livello globale avverrà in Africa
  • La pressione migratoria sull’Europa attraverso il Mediterraneo resterà fortissima
  • Il declino demografico dell’Occidente determinerà anche il suo declino economico e politico
  • Se il XX secolo è stato il secolo del boom demografico, il XXI sarà il secolo dell’invecchiamento globale
  • Tutte le profezie catastrofiste sulla sovrappopolazione si sono rivelate grossolanamente sbagliate
  • Debito pubblico e denatalità sono cresciuti di pari passo
  • Anche il sistema previdenziale pubblico ha contribuito a ridurre i tassi di fecondità
  • Negli ultimi anni è molto cresciuta l’emigrazione dei giovani italiani all’estero
  • L’Italia si trova in una spirale demografica così negativa da aver raggiunto forse un punto di non ritorno
  • La demografia è stata spesso il fattore che ha determinato il destino di una civiltà o di una nazione
  • È difficile ipotizzare il successo di politiche pubbliche a favore della natalità
  • L’elemento determinante nell’aumento della fecondità è la fiducia nel futuro

 

Riassunto

Perché la denatalità italiana è un problema

Da tempo, scrive il professor Antonio Golini, l’Italia si caratterizza per una elevata e crescente durata della vita, e da un numero ridottissimo di figli: meno di 14 figli ogni 20 adulti, numero ben lontano dall’assicurare alla popolazione italiana la stazionarietà del suo numero, e che ne provocherebbe una consistente diminuzione se non ci fosse una massiccia immigrazione straniera.

Molti obiettano che la riduzione della popolazione non sarebbe un problema, considerato che l’Italia è un Paese affollato. Tuttavia il problema non è tanto il calo in termini assoluti della popolazione, quanto il suo invecchiamento. Quando crollano le nascite il calo della popolazione non riguarda tutte le classi d’età, ma solo quelle più giovani. In una società in cui il numero di figli per coppia è molto inferiore a due, cioè del numero che assicura nel ciclo delle generazioni la piena sostituzione dei genitori, si riducono via via i bambini e poi gli adolescenti, la forza lavoro, i possibili genitori, dando così luogo a una involuzione demografica di tipo qualitativo.

Un’altra frequente obiezione a chi si preoccupa del calo delle nascite è la seguente: qual è il problema se la popolazione italiana dovesse scomparire, visto che ormai quella mondiale ha superato i 7 miliardi di persone e vi è quindi un gran numero di persone che affollano questo mondo? Una popolazione, tuttavia, non può essere vista soltanto in termini quantitativi, come un mero aggregato demografico di individui intercambiabili, ma deve essere considerata anche come storia e come cultura. La sua scomparsa, pertanto, significa la perdita di una specifica cultura e di tutte le sue particolari creazioni con cui avrebbe arricchito il mondo: tant’è che in Occidente consideriamo come dolorosa la scomparsa di una popolazione indigena, anche la più ridotta e arretrata.

 

Un’Italia spopolata e vecchia

Le nascite in Italia, ricorda il giornalista Marco Valerio Lo Prete nell’introduzione, diminuiscono senza soluzione di continuità dal 2008, quando furono 576.659; nel 2017 sono state 458.151, mai così poche [nel 2018 ci sono state 439.747mila nascite, ossia 18mila in meno del 2017; nel 2019 le nascite sono ulteriormente scese a 435mila. N.d.r]. I decessi, sempre nel 2017, sono stati 649mila: un picco di mortalità che nell’ultimo secolo di storia nazionale è stato superato unicamente nel corso della Seconda guerra mondiale. Nel 2015, per la prima volta nell’Italia contemporanea, anche la popolazione complessiva del Paese, compresi gli immigrati, è diminuita da un anno all’altro: nel 2014 aveva sfiorato quota 61 milioni, all’inizio del 2018 invece è di 60milioni 494mila.

Il quadro si fa ancor più preoccupante se si guarda all’invecchiamento della popolazione. Nel 1980 l’Italia aveva circa 17 milioni di under 20 e quasi 10 milioni di over 60; nel 2015 il rapporto si è invertito: abbiamo 10 milioni di under 20 e oltre 17 milioni di over 60. La Liguria, passata da 12.142 nascite nel 2006 a 9.878 nel 2016, è diventata la regione più anziana d’Europa. Ma tutto il vecchio continente assomiglia sempre più a una “grande Liguria”: nel 2015 in Europa il numero dei decessi ha superato quello delle nascite, mettendo in moto una decrescita naturale della popolazione che finora è stata contrastata soltanto dai nuovi importanti flussi migratori, e che ha spinto il numero due della Banca centrale europea, l’economista portoghese Vítor Constâncio, a parlare di un “suicidio demografico in corso”.

 

L’Italia, un caso mondiale

«È accaduto in Italia per la prima volta. Correva l’anno 1995». Inizia con queste parole il recente saggio intitolato Lo storico capovolgimento delle popolazioni dell’illustre demografo Joseph Chamie. Lo “storico capovolgimento” di cui Chamie rintraccia le origini nel nostro Paese è il punto di svolta demografico in corrispondenza del quale i ragazzi di una certa popolazione diventano meno numerosi degli anziani. Tale svolta nella storia delle società umane si è verificata perla prima volta in Italia nel 1995, quando gli over 65 hanno superato gli under 15. Lo stesso fenomeno si è poi replicato in altri 23 paesi, tra cui Giappone, Germania e Spagna.

 

Per avere un’idea della radicalità del mutamento in corso, ancora 50 anni fa la popolazione mondiale contava 3,3 miliardi di persone, con una proporzione di oltre 7 ragazzi al di sotto dei 15 anni di età per ogni persona con più di 65 anni di età. Oggi, su 7,5 miliardi di persone che popolano il pianeta, la proporzione si è dimezzata: ci sono 3 ragazzi per ogni anziano. In Italia la medesima proporzione si è prima capovolta e poi ingigantita, al punto che oggi per ogni 3 ragazzi ci sono 5 anziani. Alla metà degli anni 90 l’Italia toccò un altro record, quello del numero minimo di figli per donna: 1,19.

Tra pronunciata denatalità e conseguente rapido invecchiamento, il nostro Paese attraversa oggi, ancora una volta a mo’ di apripista, una delicatissima fase di transizione, nel corso della quale i singoli individui, la società nel suo complesso e la macchina statale faticano ad adattarsi a squilibri repentini e crescenti della popolazione, a volte fallendo miseramente e pericolosamente. Esempi di tali difficoltà sono: l’impatto dell’invecchiamento sull’innovazione e sull’imprenditorialità; il progressivo ridimensionamento della forza lavoro; il rischio di insostenibilità per previdenza e pensioni pubbliche in un Paese già gravato da un indebitamento record; le incognite legate ai flussi migratori in entrata soprattutto dal Sud del mondo e il depauperamento del capitale umano causato dalla nuova emigrazione.

 

Lo scontro mondiale delle demografie

Se l’Italia, e più in generale il mondo avanzato, si trova attualmente in una fase di denatalità e invecchiamento, lo stesso non può dirsi per altre parti del mondo. Nei primi dieci anni del XXI secolo, il 95% dell’intero incremento della popolazione mondiale (752 milioni su 794 milioni di nuovi nati) è stato registrato nei Paesi economicamente meno sviluppati. Se guardiamo al futuro, da qui al 2050 la metà delle nascite a livello globale avverrà in Africa, continente destinato a crescere di 1,3 miliardi di persone. Solo la Nigeria avrà nel 2050 410 milioni di abitanti. Alla fine del XXI secolo la popolazione africana toccherà quasi il 40% di quella globale, e la pressione migratoria sull’Europa attraverso il Mediterraneo resterà inesorabile e fortissima.

Per effetto di queste dinamiche demografiche divergenti, ha osservato lo studioso americano Samuel P. Huntington, gli occidentali rappresentano una minoranza sempre più esigua della popolazione mondiale. Anche dal punto di vista qualitativo, tuttavia, gli equilibri tra l’Occidente e le altre popolazioni stanno mutando. I popoli dei paesi non occidentale stanno diventando più agiati, più urbanizzati, più alfabetizzati, meglio istruiti. All’inizio dell’Ottocento, Europa, Stati Uniti e Canada producevano circa un terzo della ricchezza mondiale; poi, tra boom industriale e demografico, sono arrivati a produrne quasi il 70% alla metà del 900; oggi la percentuale di Pil mondiale loro attribuibile è scesa al 50% e nell’arco di un trentennio si può prevedere un ritorno alla situazione di fine Settecento. L’Italia, tra calo demografico accelerato e crescita economica asfittica, rischia di mettersi alla testa della ritirata della presenza occidentale dalla scena mondiale.

 

Dal secolo del boom demografico al secolo dell’invecchiamento

Si calcola che dopo un lunghissimo periodo di esistenza dell’uomo sulla Terra, in corrispondenza della nascita di Cristo tutto il pianeta fosse popolato da 300 milioni di esseri umani, poi diventati 550 milioni nel 1650.  Solo dopo la rivoluzione industriale, cioè a partire dal XVIII secolo, la popolazione ha iniziato ad aumentare con continuità, dapprima lentamente poi molto rapidamente. Per arrivare al traguardo del primo miliardo di abitanti, che si stima raggiunto nel 1804, sono occorsi quindi centinaia di migliaia di anni; per passare dal primo al secondo miliardo sono bastati 123 anni; poi, dal quinto al sesto miliardo, così come dal sesto al settimo, di anni ne sono stati sufficienti 12.

Infatti nell’anno 1900 vivevano sulla Terra 1 miliardo e 650 milioni di persone. 50 anni dopo gli abitanti della Terra erano aumentati di un altro miliardo di unità, diventando 2 miliardi e 536 milioni. Solo 15 anni dopo, nel 1965, la popolazione mondiale era cresciuta di un altro miliardo di abitanti. Nel 2000 la popolazione della Terra ha superato i 6 miliardi di unità. Nel 2018 siamo arrivati a 7 miliardi e mezzo di persone. Non c’è dubbio che questo strabiliante aumento demografico avvenuto nel XX secolo sia stato un enorme successo, e non una catastrofe, per l’umanità. Si è offerta infatti a un numero crescente di persone la possibilità di vivere. Tuttavia questo boom potrebbe essere stato temporaneo, e non è detto che debba ripetersi in futuro.

In estrema sintesi, il XX secolo che ci lasciamo alle spalle è stato, soprattutto nella sua seconda metà, il “secolo del boom demografico”. Il detonatore di questa esplosione è il fatto che solo nella seconda metà del XX secolo siamo riusciti a sconfiggere, o quantomeno a tenere sotto controllo, i “cavalieri dell’Apocalisse” – guerre, epidemie, carestie – che nel passato falcidiavano la popolazione. In particolare quasi dappertutto è stata sconfitta la morte precoce dei neonati e dei bambini, sicché ogni persona rimane più a lungo sulla faccia della Terra grazie a una durata della vita media che si è allungata in misura straordinaria, per merito soprattutto dei vaccini e degli antibiotici. Il XXI secolo che ci troviamo davanti, invece, ha iniziato a caratterizzarsi come il “secolo dell’invecchiamento demografico”, di cui ancora non siamo in grado di prevedere tutte le conseguenze, siano esse negative o positive.

 

La disfatta dei catastrofisti maltusiani

Anche per queste ragioni, in campo demografico è sempre saggio l’atteggiamento di chi non si abbandona a un eccessivo catastrofismo sulla base delle previsioni odierne. Fin dal XVIII secolo gli studiosi si sono divisi sulla questione della sovrappopolazione tra i pessimisti come Thomas R. Malthus, e gli ottimisti come Adam Smith o Condorcet. Gli allievi di Malthus sono stati a lungo e senza dubbio i più numerosi e rumorosi nel dibattito pubblico. Nel 1968 il biologo e ambientalista americano Paul Ehrlich tracciò un quadro allarmistico dell’esplosione demografica nel suo best-seller La bomba della popolazione, profetizzando carestie di massa e distruzioni ambientali. A questa scuola di pensiero si può ricondurre il Club di Roma, che nel 1972 promosse la diffusione del celebre rapporto sui Limiti dello sviluppo, secondo il quale la crescita economica e demografica avrebbe comportato l’esaurimento delle risorse, pregiudicando la stessa sopravvivenza della specie umana.

Come si spiegano questi errori di previsione, che oggi appaiono così grossolani? I catastrofisti della demografia, spiegano gli autori, hanno sviluppato tesi fallaci perché accomunate da un punto debole: non tenevano conto della capacità dell’uomo di modificare la propria organizzazione sociale ed economica. Il loro assillo sull’esaurimento delle risorse alimentari è diventato alla fine quasi risibile al cospetto della “rivoluzione verde”, quel mutamento dell’agricoltura che nella seconda metà del XX secolo ha quadruplicato la produttività di un ettaro di terra, grazie soprattutto alle ricerche di Norman Borlaug (1914-2009). A Borlaug è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace per il suo contributo al contrasto di fame e malnutrizione, ma egli rimane meno celebre di Malthus e discepoli agli occhi del grande pubblico.

Un destino simile è capitato all’economista americano Julian Simon, autore nel 1981 del libro The Ultimate Resource, la cui tesi principale è che gli esseri umani sono la “risorsa primaria” della nostra società. Per questa ragione la crescita anche indefinita della popolazione non deve mai spaventare, perché l’ingegnosità dell’uomo produrrà nuove soluzioni. All’aumento della popolazione corrisponde quindi un parallelo aumento delle risorse disponibili, come frutto della creatività dell’uomo. Nel 1990 l’ottimista Simon vinse anche una celebre scommessa con il catastrofista Paul Ehrlich, azzeccando la diminuzione del prezzo di cinque metalli d’uso industriale (nickel, rame, cromo, stagno e tungsteno), dei quali Ehrlich aveva profetizzato l’esaurimento.

 

L’inverno demografico italiano

Per tutto il XX secolo, tuttavia, le previsioni demografiche più in voga, in ambito e scientifico e mediatico, sono state sempre quelle che prospettavano una espansione “catastrofica” del numero degli abitanti del pianeta. Il prof. Golini ricorda lo stupore e a volte il fastidio con cui negli anni 80 vennero accolte alcune sue valutazioni che invitavano a considerare i pericoli per l’Italia dello scenario opposto a quello prospettato dai neomaltusiani, vale a dire l’eccesso di bassa fecondità.

Sulla base di analisi dell’epoca, Golini parlò di una sorta di “legge dell’invecchiamento”: se un Paese arriva ad avere una percentuale di ultrasessantenni superiore al 30% della popolazione totale, allora quel Paese raggiunge un punto di non ritorno demografico. Con una struttura simile, una popolazione va dritta verso l’estinzione. L’Italia purtroppo sembra ormai finita in una “trappola demografica”, da cui non è detto sia possibile uscirne. Tutti capiscono che avere una media di 5-6 figli a donna è scarsamente sostenibile. Quasi nessuno, invece, sembra accorgersi che avere in media zero o un solo figlio sia altrettanto insostenibile.

Ai tempi del miracolo economico la fecondità aumentò fino a superare il milione di nascite nell’anno record 1964 (2,7 figli per donna). Il livello si mantenne elevato fino alla metà degli anni 70, con nascite superiori a 800mila all’anno. E tuttavia trent’anni dopo, nel 1995, l’Italia toccò il punto più basso a livello mondiale, con 1,19 figli per donna. Cosa è successo in questo trentennio? Sono state date diverse risposte. Da un lato l’aumento del livello d’istruzione ha spinto la donna a cercare altre vie di realizzazione personali alternative alla maternità. Secondo un’altra spiegazione sociologica, la causa sarebbe il “narcisismo di massa”, inteso come liberazione integrale dell’individuo e ricerca spasmodica dell’appagamento personale, che si è diffuso a partire dalle contestazioni del Sessantotto. Altri ancora puntano il dito sulla secolarizzazione e sulla crisi di religiosità.

 

Debito pubblico e debito demografico

Sulla denatalità hanno però influito anche le scelte di politica economica. Gli autori rilevano un istruttivo parallelismo tra il “debito demografico”, cioè la proporzione di persone sopra i 65 anni rispetto a quelle con meno di 15 anni, e il debito pubblico. I due debiti hanno avuto una dinamica temporale simile. Entrambi iniziano a essere accumulati negli anni 70, poi sempre più rapidamente nei decenni successivi. Un’altra similitudine che caratterizza l’accumulo dei debiti gemelli è il fatto che a lungo nel dibattito pubblico i due problemi sono stati negati in ossequio a una veduta corta che ha dominato il confronto sia sulla politica economica sia quello su natalità e demografia.

I due debiti, accrescendo entrambi il tasso di ingiustizia intergenerazionale, interagiscono fra loro e si alimentano ulteriormente l’uno con l’altro. Denatalità e invecchiamento pronunciati, infatti, generano aggravi di costo per il welfare state, ai quali i governi tentano di fare fronte con l’emissione di altro debito. Il debito pubblico alimenta altro debito demografico perché sulle intenzioni di procreare incide l’incertezza economica futura, ingigantita dai debiti pubblici monstre, o meglio dall’instabilità finanziaria e dalla rapacità fiscale che tali debiti pubblici causano. Dal punto di vista teorico è pertanto ipotizzabile che la crisi demografica assottigli fino all’insignificanza le future generazioni, al punto da far venire meno i beneficiati stessi della giustizia intergenerazionale.

 

Immigrazione ed emigrazione

L’invecchiamento incide anche sulla crescita economica, perché aumenta il “tasso di dipendenza” di una società, cioè la somma delle persone con meno di 15 anni e con almeno 65 anni, divisa per il numero di persone in età attiva. La forza lavoro diventa più esigua e più anziana, ma avere troppi lavoratori anziani in proporzione al totale diminuisce l’imprenditorialità di una società. Esiste infatti una chiara relazione negativa fra età media della popolazione e tassi di imprenditorialità fra Paesi, dato che i giovani sono mediamente più creativi ed energici.

A questo problema ha dato parziale sollievo l’immigrazione, dato che i residenti stranieri in Italia sono passati da 356mila secondo il censimento del 1991 a oltre i 5 milioni di oggi, costituendo ormai l’8,5% della popolazione del Paese. Gli stranieri hanno dato anche un contributo alla natalità, dato che su 458mila nuovi nati nel 2017 il 14,8% hanno entrambi i genitori stranieri e il 21,7% hanno almeno un genitore straniero.

Nello stesso tempo, però, è aumentato anche il numero degli italiani che “votano con i piedi”, emigrando all’estero. Nel 2017 sono stati 115mila i cittadini che sono espatriati: un dato tre volte superiore a quello di dieci anni fa. Sono soprattutto i giovani istruiti a emigrare, tanto che, rispetto al 2012, sono raddoppiati i laureati in fuga all’estero. Tanti giovani italiani, in modo spesso razionale, abbandonano un Paese impegnato a inseguire altre priorità. I dati infatti confermano che la crisi che ha investito il Paese nell’ultimo decennio ha colpito con durezza i giovani ma non gli anziani, i cui rediti da pensione sono aumentati in termini reali del 31,6%. Il divario economico tra i due gruppi d’età, a causa dei trasferimenti Inps, è andato crescendo notevolmente a vantaggio dei secondi.

I due fenomeni dell’immigrazione di stranieri in Italia e di emigrazione dei giovani italiani all’estero prelude a un cambiamento etnico della popolazione in senso multiculturale. Questa trasformazione è vista come soluzione al problema demografico da un ampio schieramento politico e culturale, ma in questo ragionamento c’è un’evidente forma di nichilismo culturale. Un Paese, osservano gli autori, è fatto anche della sua cultura, e la sua cultura è fatta di persone. È innegabile che se cala bruscamente il numero di persone che condividono una certa cultura, allora tenderà a svanire anche la cultura di quel popolo e di quel Paese.

A qualcuno tutto questo potrebbe non importare, ma non va sottovalutato il disagio psicologico, non semplicemente etichettabile come “xenofobia”, di vedere la propria città o il proprio paese che scompare o cambia completamente aspetto, assistere al passare degli anni e all’invecchiamento dei tuoi amici che poi muoiono senza lasciare nessuno dietro di sé. Il dispiacere di assistere a tutto questo è naturale.

 

La demografia è destino

L’adagio “demografia è destino”, attribuito al sociologo francese del XIX secolo Auguste Comte, sintetizza la convinzione secondo cui l’andamento di una popolazione rappresenta il fattore più determinante del futuro di una comunità, di un Paese o addirittura del mondo intero. I grandi esempi storici non mancano: si calcola che prima della Rivoluzione agricola vivessero sulla Terra solo 6 milioni di persone, ma l’addomesticamento delle piante e degli animali permise di disporre di più cibo, e quindi consentì all’Homo sapiens di moltiplicarsi in misura esponenziale. La caduta dell’impero romano d’Occidente, secondo alcuni storici, fu determinato principalmente dallo spopolamento dovuto alla denatalità: Pierre Chaunu ha calcolato che l’impero romano a partire dal III secolo d.C. abbia perso tre quarti della propria popolazione, incarnando uno dei primi casi di “rifiuto della vita”. Anche il collasso demografico dei nativi americani dopo l’arrivo degli europei si deve, oltre alle epidemie, al crollo della fecondità, segno di mancanza di fiducia nel futuro.

L’Italia, dopo la crescita economica e demografica dalla fine del Duecento alla fine del Cinquecento, nel Seicento conobbe una fase di declino nello stesso tempo economico e demografico. Un altro esempio è quello della Francia nel XIX secolo, la cui crescita della popolazione fu molto più bassa rispetto a quella dei paesi vicini: dal 1850 al 1910 aumentò solo di 3,4 milioni di unità, mentre nello stesso periodo in Germania aumentò di 25 milioni, in Gran Bretagna di 18 milioni, in Italia di 16 milioni. Il relativo declino demografico della Francia determinò il suo relativo declino politico-militare, e la sconfitta a Sedan contro i prussiani nel 1870 fu una conseguenza anche di questa dinamica demografica. Un ultimo esempio è il confronto demografico tra la Cina e l’India: entro qualche anno la popolazione indiana supererà quella cinese a causa dei gravi squilibri demografici prodotti dalla brutale e coercitiva politica cinese del figlio unico.

 

La demografia non è destino

Si può sperare che, per quanto riguarda l’Italia, la demografia non sia destino. Molti auspicano che attraverso l’immigrazione o intelligenti politiche pubbliche il Paese riesca a curare il proprio malessere demografico. Questo auspicio, osservano gli autori, pecca però di eccessivo “costruttivismo”, un approccio molto in voga nelle scienze sociali fondato sull’idea, per dirla con Friedrich August von Hayek, che l’uomo possa modificare a suo piacimento le istituzioni della società e della civiltà. Gli eventi sociali, tuttavia, non sono sempre il frutto di piani intenzionali, per cui ogni tentativo di riforma deve tener conto degli effetti non intenzionali delle azioni intenzionali.

Ad esempio, secondo diversi studiosi l’introduzione in Europa di un sistema pensionistico pubblico ha contribuito a ridurre i tassi di fecondità, perché i figli hanno perso in buona parte la loro funzione di “assicurazione” per il futuro. Nello stesso tempo la necessità di contribuire a schemi previdenziali avrebbe ridotto il reddito disponibile dei potenziali genitori, scoraggiando la procreazione. Un sistema contributivo e fiscale “a misura di figlio”, cioè meno vessatorio verso i giovani, potrebbe dunque favorire la ripresa della natalità più di sussidi o complesse riforme.

In ultima analisi la decisione di fare un figlio, o un figlio in più, è sensibile ai cambiamenti delle aspettative future. Le aspettative sulle possibilità di realizzazione personale dei propri discendenti, insomma, contano eccome, soprattutto nel lungo periodo: un Paese e un continente con maggiori prospettive di crescita non solo economica, concludono Golini e Lo Prete, è sicuramente un luogo più ospitale per i suoi futuri abitanti, dunque di per sé un incentivo affinché tali futuri abitanti siano concepiti ed esistano.

 

CITAZIONI RILEVANTI

La demografia è implacabile

«Gli uomini (e ancor più le società) tendono solitamente a reagire solo quando un pericolo diventa direttamente visibile, ma non quando è necessario simularlo mentalmente. Inoltre il futuro appare sempre incerto, mentre il presente è sempre molto importante. Per la demografia però non è così: la demografia lavora sui tempi lunghi, nell’arco di generazioni. Ed è implacabile. Qualcuno ha fatto l’esempio della scala mobile: i pochi, o i molti, che ormai vi sono saliti non potranno più aumentare o diminuire: sono già in movimento sui vari scalini e rappresentano la struttura della futura società, non più modificabile.» (Piero Angela, Prefazione, p. 8)

 

L’immigrazione illimitata non è la soluzione

«Né d’altro canto da parte dei Paesi di destinazione vi è la possibilità di accogliere incessantemente nei propri confini milioni di migranti e profughi che rischiano di compromettere equilibri faticosamente raggiunti fra popolazione ed economia, fra popolazione e territorio; equilibri che non sono soltanto numerici, ma anche storici e culturali, frutto di retaggi assai complessi e radicati nella società. Ipotizziamo, per assurdo, che l’odierna Libia, con i suoi 6,2 milioni di abitanti, accolga nell’arco dei prossimi cinque anni 20 milioni di italiani che la scegliessero come destinazione per farsi una nuova vita; non sarebbe questa una forma “patologica” di immigrazione, al limite una forma di colonizzazione di fatto?» (p. 176)

 

Procreazione e ottimismo

«Quanto è difficile oggi, in Italia, scommettere sul domani? E un figlio non è forse uno degli investimenti più importanti che possiamo fare sul futuro? Ciò è talmente vero che ormai alcuni economisti, falsificando ancora una volta l’idea troppo semplicistica in base alla quale le crisi economiche in corso o passate, con i loro contraccolpi negativi sul reddito, spiegherebbero da sole la bassa natalità in Occidente, dimostrano che il numero delle nascite può essere influenzato piuttosto dalle crisi economiche future … Il declino della natalità, dunque, appare come uno dei più sorprendenti indicatori anticipatori dei guai economici in arrivo.» (p. 212)

 

GLI AUTORI

Antonio Golini

Antonio Golini è professore emerito alla Sapienza, dove ha insegnato Demografia per oltre cinquant’anni. Insegna Sviluppo sostenibile alla Luiss. Accademico dei Lincei, è stato presidente dell’Istat e presidente e presidente della Commissione su popolazione e sviluppo all’Onu.

 

Marco Valerio Lo Prete

Marco Valerio Lo Prete è giornalista del Tg1. Già vicedirettore de Il Foglio e collaboratore di Radio Radicale.

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Antonio Golini con Marco Valerio Lo Prete, Italiani poca gente. Il Paese ai tempi del malessere demografico, Luiss University Press, Roma, 2019, p. 224, prefazione di Piero Angela.

 

INDICE DEL LIBRO

Prefazione di Piero Angela, p. 7

Premessa di Antonio Golini, p. 13

Introduzione di Marco Valerio Lo Prete, p. 17

1. Il “caso Italia” e la demografia mondiale, p. 25

2. L’inverno demografico italiano, p. 61

3. Le sfide per un’Italia in crisi demografica, p. 89

4. Demografia è destino, p. 129

5. Demografia non è destino, p. 173

Note, p. 215

Per approfondire, dello stesso autore, p. 223