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La soluzione liberale di Guy Sorman

La solution libérale, 1984
La soluzione liberale
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PERCHÈ LEGGERE QUESTO LIBRO

Guy Sorman, giornalista e scrittore francese di idee liberali, racconta in questo reportage attraverso dodici Paesi i successi della rivoluzione liberale degli anni Ottanta, dopo che per trent’anni le idee stataliste avevano dominato incontrastate. In quegli anni, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, prende vita in tutto il mondo un potente movimento di rigetto delle pratiche socialiste e keynesiane. Come documenta Sorman con l’occhio del reporter attento alla realtà circostante, in America, in Europa e in Asia il pensiero liberale non solo conosce una nuova giovinezza ma tende a passare dalle parole ai fatti, a proporsi come soluzione in diversi settori come il fisco, la moneta, l’edilizia o i servizi pubblici. Le idee di pensatori come Friedrich von Hayek e Milton Friedman escono dai libri e diventano pratica di governo. Al termine del suo viaggio lo scrittore francese delinea un progetto di società basato in ogni ambito sulla libera scelta degli individui e su un’autonomia che diffida di ogni potere politico, qualunque esso sia: la soluzione liberale.

 

Riassunto

Il liberalismo è tornato di moda

Questo libro, scrive il politologo francese Guy Sorman, è anzitutto il resoconto di un viaggio nell’era del jet in dodici Paesi diversi. La quasi istantaneità del percorso consente raffronti e accostamenti quasi simultanei tra luoghi distanti migliaia di chilometri. In questo modo possiamo constatare che il liberalismo degli anni Ottanta è cosmopolita, dato che non è cosa da poco sentire uno stesso discorso, nell’arco di qualche giorno, a New York, Tokio, Bonn, Londra o Roma. Il liberalismo, inoltre, è diventato chic. Perfino una nazione statalista come la Francia ne è stata colpita: ecco infatti che se ne riesumano le grandi figure (Tocqueville), le si riabilita in vita (Hayek), le si seppelliscono con solennità (Aron). Questo liberalismo è, in un certo senso, “conservatore”. Affonda infatti le proprie origini nelle tradizioni, nella storia collettiva, nelle esperienze culturali. Conservatorismo e liberalismo sono diventati oggi complementari, ma non lo sono stati sempre: nel XIX secolo erano addirittura contrapposti.

La differenza tra i due, spiega Sorman, è che il conservatorismo è un atteggiamento, mentre il liberalismo è un progetto. Essere conservatore significa iscriversi nella continuità sociale, storica e morale della propria comunità, significa ammettere che vi è qualche saggezza nel passato, qualche assennatezza nell’ordine; significa al tempo stesso riconoscere la diversità delle situazioni culturali, religiose e nazionali, accettare che non vi è un unico modello di civilizzazione, un’unica spiegazione della Storia. Il conservatore crede inoltre a un ordine morale trascendente, che tuttavia non è necessariamente di natura religiosa. Diffida delle riforme e, in ogni caso, non ritiene che ogni riforma sia buona in quanto tale; al limite preferirà un male che conosce a un altro che non gli è ancora noto. L’ordine, la giustizia e la libertà gli sembreranno la conclusione di una lunga esperienza storica, non il risultato di un decreto o di un sovvertimento politico.

Tale conservatorismo, osserva Sorman, non è però in grado di opporre una seria alternativa allo statalismo e a soddisfare l’autentica fame di ideologia del nostro tempo. Da ciò nasce la necessità di essere liberale, ossia di aggiungere alla filosofia conservatrice quanto oggi viene chiamato un “progetto di società”, un modello utopistico al quale la politica possa far riferimento. Il liberalismo si fonda infatti su un chiaro principio: privilegiare sempre, ovunque e in ogni circostanza, la persona umana a scapito dello Stato. Si tratta di un principio esigente, che ci allontana da gran parte dei comportamenti abituali per condurci verso una società sostanzialmente diversa da quella in cui viviamo. Il liberalismo però non è soltanto una vecchia idea che sta ringiovanendo, ma una prassi su cui poggiano attualmente una mezza dozzina di governi. L’intento di questo libro non è di rifare la storia o la teoria del liberalismo, ma di studiare attentamente come esso procede.

 

La rottura degli anni Ottanta

Il ribaltamento è profondo, quasi universale. Si è verificato in un breve periodo, in modo quasi istantaneo, in numerose nazioni. In termini politici, nel 1979 i liberal-conservatori accedono al potere in Gran Bretagna, nel 1980 negli Stati Uniti, nel 1982 in Germania, nei Paesi Bassi, in Belgio e nel Lussemburgo. Tra la primavera e l’autunno del 1983, avviene in Francia la conversione interiore dei socialisti a una sorta di nuovo liberalismo di sinistra. All’inizio degli anni Ottanta si manifesta infatti qualcosa che va al di là dei cedimenti elettorali o di un insuccesso momentaneo delle dottrine stataliste. Si tratta piuttosto di un completo rovesciamento dell’ideologia dominante, alla quale ovunque gli uomini politici cercano di conformarsi.

Vista da una prospettiva storica, si tratta di una rivoluzione. Il ritorno in forza del liberalismo non coincide infatti con una fugace alternanza politica tra partiti di destra e di sinistra. Siamo entrati in un nuovo lungo periodo che si può comprendere soltanto opponendolo ai quattro decenni precedenti. Da quarant’anni, infatti, nelle nazioni occidentali tutte le politiche erano social-stataliste, seppure a livelli diversi, quali che fossero i partiti al governo. Tutto era iniziato, ricorda lo scrittore francese, con le due guerre mondiali, quando gli Stati presero in mano il destino dei popoli per non restituirlo mai interamente.

Tale statalizzazione delle società occidentali si spinse ben oltre quanto richiesto dallo sforzo bellico. Alcuni se ne resero conto durante il conflitto, come l’economista Friedrich von Hayek che, nella Londra ancora sotto le bombe, pubblicò alla fine del 1943 un libro che fece scalpore: La via della schiavitù. In questo pamphlet Hayek denunciava il ricorso al pretesto dell’economia di guerra per statalizzare la società, e ricordava il rischio che tale statalizzazione facesse progressivamente sparire ogni differenziazione tra paesi democratici e paesi totalitari.

Dopo la guerra, per un’intera generazione tutti i governi in Occidente hanno in realtà più o meno condiviso la stessa ideologia fondata sulla fiducia nello Stato. Le opposizioni e le alternanze tra partiti, sino agli anni Ottanta, sono sempre state circoscritte all’interno di un comune ideale di prosperità economica e giustizia sociale, che la sinistra voleva raggiungere rapidamente e la destra con più gradualità. I mezzi per giungervi erano: la centralizzazione dello Stato, la democratizzazione dell’istruzione, la fiscalità progressiva, la redistribuzione sociale. Tutti i partiti hanno condiviso per quarant’anni una medesima teoria, quella keynesiana, che pretende di giustificare in modo scientifico gli interventi dello Stato quale garante dell’occupazione e della crescita.

 

La crisi del socialismo

Ora, afferma Sorman, questo lungo periodo di social-statalismo è finito. L’intera classe politica ha rovesciato un insieme di comuni convinzioni creandone uno nuovo. Gli uomini politici, che erano tutti socialdemocratici, diventano liberali tutti insieme, ovunque e nel medesimo momento. Oggi perfino il presidente francese François Mitterand, dopo tre anni di esercizio del potere, parla di economia di mercato, destatalizzazione e riduzione delle imposte. Questo storico ritorno, di un’ampiezza senza precedenti, non può essere spiegato unicamente da considerazioni tattiche.

Due sindacalisti intervistati dall’autore, l’inglese Frank Chapple e l’italiano Pierre Carniti, esprimono senza mezzi termini e senza imbarazzo il pessimismo ideologico che assale ovunque la sinistra. A sinistra, affermano, non vi è nessun aggiornamento culturale in grado di rispondere al nuovo dinamismo dei liberali. Il socialismo classico pare loro sconfitto sul terreno dell’efficacia economica, dell’etica sociale e della cultura dominante. La sinistra, che da sempre si identificava con l’idea del progresso, ormai non si agita più, mentre la destra liberale si ritiene portatrice di un radioso avvenire.

In Italia le conversioni al liberalismo sono quotidiane perfino all’interno del Partito Socialista. Luciano Cafagna, docente dell’università di Pisa, le enumera con fervore, come se si trattasse di illuminazioni religiose. Cafagna è l’ispiratore della corrente socialista “neoliberale” che ha invaso Ie pagine di Mondo Operaio, la rivista culturale del partito, ove i riferimenti a Hayek e Tocqueville sono ormai più frequenti delle citazioni di Gramsci. Secondo Cafagna il liberalismo è una dottrina etica più che economica. A suo parere il Partito Socialista, come ha lottato contro il fascismo, deve oggi combattere contro la burocrazia, poiché lo Stato è luogo di corruzione, i suoi interventi si fondano unicamente sull’acquisto di clientele, i suoi impieghi sono distribuiti in base alle amicizie politiche. Lo Stato italiano non premia la capacità, bensì il servilismo; e genera una piccola borghesia amministrativa priva di vitalità economica e priva di morale sociale. Il liberalismo mira quindi a ridimensionare lo Stato al fine di moralizzare la nazione.

Tra gli uomini politici intervistati da Sorman, nessuno è apparso più agguerrito di Wataru Hiraizumi, esponente di quel Partito Liberal-Democratico che dal 1955 guida ininterrottamente il Giappone del miracolo economico. Per lui il liberalismo non è soltanto il partito della realtà, ma anche quello della normalità, e per questo non ha bisogno di giustificarsi. Poiché il liberalismo raduna tutti coloro che credono all’ordine, al lavoro e al merito, è naturale che gli spetti il potere: l’esercizio del potere è la sua ragion d’essere. I suoi avversari sono invece devianti che soffrono affezioni morali e intellettuali. L’esistenza di correnti socialiste o comuniste in Giappone si spiegherebbe unicamente con lo sradicamento, nell’arco di una generazione, di un popolo di agricoltori strappato dalle risaie per essere trapiantato nelle città e nelle fabbriche. La sinistra, a suo parere, sarebbe soltanto il grido di scontento dei villici contro la rivoluzione industriale.

 

La rivoluzione conservatrice americana

Negli Stati Uniti la rivoluzione liberale degli anni di Reagan è stata preparata da un potente movimento liberal-conservatore, che tende a reintrodurre l’etica nella teoria economica. Secondo Michael Novak, autore di una “teologia del capitalismo”, e secondo George Gilder, autore di Ricchezza e povertà, libertà e prosperità economica sono inseparabili dalle virtù cristiane. Gilder spiega la crisi economica degli anni ’70 con la decadenza della famiglia e della religione, accusa lo Stato di favorire la disoccupazione con l’aiuto alle ragazze madri e collega la scarsa produttività dei giovani alla permissività sessuale. Egli si riallaccia quindi alle teorie del vecchio liberalismo vittoriano, per le quali la povertà derivava dal vizio.

Forse, commenta Sorman, non è sbagliato reintegrare un certo nesso tra morale privata e virtù pubblica, ma nello stesso tempo ciò comporta un grosso pericolo per il liberalismo. Identificare il liberalismo con una certa società, con un’epoca superata, significa infatti privarlo di ogni universalità tramite un discorso conservatore. Se il liberalismo è così datato, non potrà assolutamente sedurre le nuove generazioni, e la sua rinascita sarà effimera. Ecco il motivo per cui, nella relazione tra ordine morale e ordine liberale, è fondamentale separare l’essenziale dal provvisorio. Il capitalismo è essenzialmente basato su principi morali senza i quali non può operare. È chiaro che senza il rispetto della parola data e senza onestà nei rapporti commerciali ogni impresa finisce per crollare. Non è tuttavia indispensabile andare a Messa per essere un manager coerente. Possiamo quindi dire che tra il giudeo-cristianesimo e il liberalismo esiste un’oggettiva alleanza al fine di salvare l’uomo dal totalitarismo: niente di meno, ma niente di più!

 

La rivoluzione liberale britannica

A Londra, a due passi dal Parlamento, si trova l’Institute of Economic Affairs, il laboratorio intellettuale del thatcherismo. Il direttore è Lord Harris of High Cross, il quale cerca con entusiasmo di far aderire alle tesi del nuovo liberalismo le élite del paese. Harris è un intransigente dottrinario. Per lui la lotta contro lo statalismo è una crociata, e ha impegnato ogni fibra del suo essere in cause come la stabilità monetaria o l’economia di mercato, così come altri si sacrificano per il comunismo o per una fede religiosa. Lord Harris è colui che in Gran Bretagna ha ridato rispettabilità alla libera iniziativa, e nella sua scia molti economisti inglesi sono diventati intellettuali impegnati.

Come esempio di conversione riuscita si può citare quella sir Keith Joseph, un uomo politico appartenente all’establishment, ministro britannico dell’istruzione. A sua volta, Keith Joseph ha fatto aderire Margareth Thatcher al nuovo liberalismo e, insieme con lei, ha reso vittorioso il tentativo di riconquista interna del partito conservatore contro la tendenza centrista. Più di ogni altro, Keith Joseph ha convinto i propri amici a passare dall’inconsistenza dottrinale alla coerenza ideologica. Nei quattro anni che hanno preceduto l’ascesa al potere dei conservatori, ha tenuto seicento conferenze nelle università britanniche parlando di un solo argomento: la difesa intellettuale e morale del capitalismo.

 

I delusi del liberalismo

John Hoskyns è stato per quattro anni collaboratore della Thatcher. Il suo compito, molto specifico, consisteva nel ridurre le spese dello Stato, e in particolare di sbarazzarsi una volta per tutte, attraverso dei prepensionamenti, dei 3000 alti funzionari della Corona. Hoskyns, in quanto imprenditore, pareva l’uomo più adatto alla situazione, ma non ce l’ha fatta. Alla fine è stato lui, non i burocrati statali, a doversene andare.

Del resto, dopo cinque anni di governo conservatore, in Gran Bretagna lo Stato non è sostanzialmente indietreggiato. Il prelievo pubblico sulla ricchezza nazionale è persino aumentato, tra il 1979 e il 1983, dal 35 al 39 per cento. I risultati non sono migliori negli Stati Uniti. Dopo quattro anni di discorso antistatale, sotto Reagan le spese federali sono salite dal 27,8 al 31,6 per cento del reddito nazionale; si tratta di una progressione paragonabile a quelle delle nazioni socialdemocratiche, che non segna alcuna rottura con il passato. Tutto il discorso di Reagan contro gli eccessi dello Stato assistenziale non ha avuto, al momento, alcun effetto finanziario di rilievo.

Per tutti coloro che si rifanno al liberalismo, questi dati sono un evidente fallimento sperimentale. Se dopo quattro o cinque anni di esercizio del potere lo Stato non si è indebolito, significa che tutto il discorso liberale è una retorica di facciata ideologica e nulla più, oppure che l’analisi liberale non è stata ancora messa a punto. Risulta quindi evidente che la retorica antistatale non basta. Il motivo è che lo Stato non è un’astrazione, ma è costituito da uomini e donne in carne ed ossa che lo gestiscono e che formano tra loro una vera classe sociale.

 

Gli ostacoli: la nuova lotta di classe

Secondo il sociologo tedesco Michael Zöller ciò che viene chiamato Stato è proprio un sistema di interessi personali organizzati, una Nuova Classe che, a suo parere, dovrebbe essere al centro della riflessione liberale. Se i liberali non valutano meglio l’aspetto sociologico dello Stato, si condannano ad affrontare un nemico inafferrabile. I membri della Nuova Classe, i burocrati che amministrano lo Stato, i funzionari e i politici, sono esseri umani terribilmente normali, quindi lontani dalla santità e dal disinteresse. Al pari di tutti noi, ambiscono ad aumentare la loro remunerazione e la loro autorità. In quanto classe, si prodigano nell’incrementare i loro poteri e la loro “quota di mercato”, ossia il prelievo finanziario tramite l’imposta sulla società civile. Da queste persone non ci si può aspettare un comportamento diverso: sarebbe molto strano che la Nuova Classe organizzasse con la migliore volontà il proprio declino. 

Lungi dall’essere apolitica, la Nuova Classe è diventata la moderna espressione del social-statalismo, un socialismo tecnico liberato dall’originaria ideologia. Statalismo e Nuova Classe si sono fusi: lo si può verificare nelle professioni di quanti aderiscono ai partiti di sinistra in Occidente. Da quindici anni le basi di reclutamento sono profondamente cambiate; gli insegnanti e i funzionari hanno scacciato ovunque la vecchia guardia operaia. Impadronitasi della sinistra tradizionale, la Nuova Classe ha sostituito i nuovi valori della burocrazia a quelli degli operai. Odio del denaro, mancanza di competizione, sicurezza economica: tutti questi elementi costituiscono lo scenario e il privilegio della vita burocratica.

La nostra storia, osserva Sorman, è proprio quella della lotta delle classi, ma non delle classi di cui parlava Marx. Abbiamo da una parte tutti coloro che vivono dell’economia privata, sottomessi alla legge della concorrenza e condannati a dare costante prova di iniziativa e di inventiva, capaci di cambiamento ma incerti del futuro. Costoro sono dei produttori e degli inventori. Sia il temperamento sia il posto che occupano nella società li portano ad adottare una filosofia liberale. Dall’altra parte vi è la Nuova Classe, la quale produce soprattutto parole e vive grazie al prelievo che opera sugli altri giustificandosi in nome dell’interesse generale. Essa amministra l’insegnamento e l’informazione, e offre ai propri membri il potere e la sicurezza del posto.

 

La rivolta fiscale parte dalla California

La conclusione cui sono giunti molti liberali è che l’unico modo per sconfiggere quella che Milton Friedman ha chiamato la “tirannia dello status quo”, e ridimensionare la Nuova Classe, consiste nel tagliarle i viveri. Da qui l’idea della rivolta fiscale, nata in California grazie agli sforzi dell’industriale Howard Jarvis, il quale è riuscito a far firmare da un milione di cittadini la “proposta 13” che vieta l’aumento dell’imposta fondiaria oltre l’1% del valore dei beni tassati. A quel punto il testo è stato obbligatoriamente sottoposto a referendum ed è stato adottato. Venti Stati americani hanno fatto altrettanto, riducendo le imposte sul capitale e le imposte locali sul reddito. La rivolta fiscale, ben lontana dal placarsi, attacca ora nuove tasse: nel 1983 lo Stato della California ha dovuto rinunciare anche a ogni imposta sull’eredità.

Grazie all’economista californiano Arthur Laffer – che a 35 anni ha realizzato il sogno di ogni economista, tracciando una curva che ha preso il suo nome­ – le rivolte fiscali sono diventate intellettualmente rispettabili. Laffer spiega che quando lo Stato aumenta le imposte non ne ricava necessariamente un beneficio proporzionale alla pressione fiscale, perché ogni aumento dell’imposta induce alcuni contribuenti a rallentare l’attività, a passare al mercato nero o a impegnarsi nell’elusione o nell’evasione fiscale. Al limite, un’imposta del 100 per cento frutta allo Stato lo 0 per cento, dato che blocca ogni attività privata. Al contrario, una diminuzione delle imposte può fruttare allo Stato un aumento di gettito, perché la rinnovata motivazione delle imprese incrementa il prodotto soggetto a tassazione.

Per merito di Laffer la diminuzione delle imposte diventa il mezzo per uscire dalla crisi e per la ripresa del lavoro produttivo, dell’inventiva, dell’entusiasmo creatore di ricchezze. E, per di più, la teoria funziona! Negli Stati americani in cui la diminuzione delle imposte locali è stata più precoce e sostanziosa, California e Massachusetts, sono quelli in cui la crescita si manifesta con maggiore vivacità. Lo stesso discorso vale per l’intera nazione americana, poiché la diminuzione del tasso massimo delle imposte federali, passato dal 70 al 50 per cento nel 1982, ha preceduto di un anno la ripresa.

Dalla rivolta fiscale degli anni Ottanta si dovrebbe ricavare un insegnamento più generale: la democrazia rappresentativa non ci assicura più che i parlamentari facciano prevalere gli interessi dei contribuenti su quelli della Nuova Classe. È quanto mai evidente che succede il contrario. Per questa ragione Milton Friedman ha suggerito un emendamento della Costituzione, affinché il pareggio del bilancio diventi obbligatorio e le spese pubbliche non possano aumentare più rapidamente della ricchezza nazionale. Un tale emendamento sarebbe l’unica protezione per i contribuenti. Tuttavia occorrerebbe anche che lo Stato, dopo aver ceduto alla rivolta fiscale, non recuperasse grazie all’inflazione quanto ha perso sul piano fiscale. Da qui la necessità di recuperare la nostra moneta.

 

L’inflazione all’origine del moderno statalismo

Nell’ufficio di Lord Harris a Londra un grafico rappresenta l’aumento dei prezzi dal XIV secolo ai nostri giorni: + 2930 per cento, di cui i nove decimi dopo la pubblicazione della Teoria generale di Keynes, nel 1936. Secondo lo studioso inglese Michael Oakeshott, è l’inflazione che, rovinando i risparmiatori, ha portato lo Stato a sostituirsi alle persone. Senza inflazione, ognuno potrebbe capitalizzare la propria pensione e le proprie assicurazioni sociali. Con l’inflazione, la garanzia dello Stato diventa indispensabile. A suo parere, l’inflazione è dunque il presupposto dello Stato-Provvidenza, del social-statalismo. L’inflazione inoltre consente agli Stati moderni di finanziare senza ritegno le spese. Tale metodo ha il vantaggio di essere quasi inavvertibile e incontrollabile, dato che l’inflazione è un’imposta furtivamente prelevata ogni mattina dal nostro potere d’acquisto. In tale ottica, la difesa della stabilità monetaria diventa la causa centrale dei liberali.

Milton Friedman paragona l’inflazione all’alcolismo. In entrambi i casi si tratta di un eccesso di liquidi. L’inflazione ha infatti un’unica causa, sempre e ovunque la stessa: la quantità eccessiva di moneta. Quando i prezzi aumentano, quindi, non si può incriminare il commerciante, i sindacati o il padronato. I prezzi non salirebbero se il governatore della Banca Centrale non facesse lievitare la massa monetaria. Per lottare contro l’inflazione è quindi del tutto inutile bloccare i salari e i prezzi. Tutti i paesi che hanno vinto l’inflazione dopo il 1980 – Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Giappone – si sono ispirati alla ricetta di Friedman. Tutti hanno ridotto la quantità di moneta e ciò ha portato a uno spettacolare calo dell’inflazione: in Gran Bretagna dal 22 al 4 per cento tra il 1981 e il 1983; negli Stati Uniti dall’11 al 5 per cento nello stesso biennio.

Per farla finita con l’inflazione Friedman pensa occorra introdurre un divieto costituzionale di manipolare la moneta. Hayek invece, partendo dalla medesima analisi delle cause statali dell’inflazione, ha avanzati una proposta più radicale: la privatizzazione della moneta. A suo parere bisognerebbe consentire alle banche l’emissione di monete private in concorrenza tra loro. I clienti utilizzerebbero le monete meglio gestite e meno svalutate. L’inflazione sparirebbe grazie al solo gioco della concorrenza.

 

Una nazione di proprietari

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti si sta sviluppando rapidamente un movimento a favore della privatizzazione, che mira a restituire alle persone le proprietà pubbliche e alle imprese private tutto ciò che possono amministrare meglio dello Stato. Ben poche, infatti, sono le cose che appartengono per natura allo Stato. Quanto viene definito “servizio pubblico” è in genere il prodotto tanto di circostanze storiche quanto della deliberata volontà di socializzare una nazione. I conservatori inglesi, ad esempio, hanno privatizzato la NFC, una società di trasporti stradali che era stata nazionalizzata dalla sinistra nel 1968, attraverso la vendita di azioni ai dipendenti e ai pensionati della società. A due anni di distanza le azioni acquistate a 1 sterlina si scambiano a 2,60 sterline, cosa che consente di valutare la spettacolosa ripresa della società. È questa infatti la principale virtù del capitalismo popolare: tutto il personale si è svegliato, a cominciare dalla dirigenza.

Il governo della Thatcher intende inoltre rendere ogni inglese proprietario del suo appartamento. A partire dal 1980, ogni occupante di un alloggio sociale costruito con denaro pubblico può procedere al riscatto. Per la filosofia conservatrice, infatti, la proprietà è la base di ogni società libera e la garanzia del comportamento socievole. La proprietà collettiva, al contrario, è un modo di omogeneizzare gli individui, al fine di renderli la naturale clientela del social-statalismo.

Negli Stati Uniti ha molto successo la privatizzazione dei servizi comunali. Le statistiche dimostrano infatti che il settore privato è mediamente due volte meno caro del settore pubblico, a parità di servizio. Ad esempio, il servizio antincendio privato di Scottsdale, che viene gestito dalla Metro Rural Fire Company, risulta due volte meno caro per l’abbonato rispetto a una gestione pubblica equivalente, e fornisce un servizio superiore: intervento più rapido e meno danni dopo il passaggio dei pompieri. Vi è però qualcosa di più strabiliante dei pompieri privati: le prigioni private! La Correction Corporation di Houston chiede ai contribuenti il 30 per cento in meno del costo di una giornata in una prigione pubblica e provvede a tutto: alloggio, vigilanza e sostentamento.

La privatizzazione intacca alle radici la società burocratizzata. È un’autentica pedagogia della libertà per l’azionista, che diventa giudice del buon andamento della sua impresa; e per l’utente, che conosce il prezzo esatto dei servizi pubblici e li paga al loro costo, il più basso possibile. In tal modo si può anche ridimensionare l’ingannevole concetto di “gratuità” del servizio pubblico. Niente è mai gratuito; quanto apparentemente lo è, in realtà è sempre pagato dal contribuente. L’unica differenza sta nel fatto che il servizio gratuito è concepito e selezionato dalla burocrazia al potere, mentre il servizio a pagamento è scelto dal cittadino cliente.

 

La soluzione liberale

Niente però, commenta Sorman a conclusione del libro, è meno liberale della speranza in un governo che instauri esso stesso il liberalismo. Il liberalismo consiste invece nel non investire in maniera particolare la propria fiducia nella classe politica, poiché la vocazione dei politici non è quella di essere liberali. Invece di seguire i capi, è meglio sorvegliarli. La soluzione liberale sta nel lasciare il libero gioco all’iniziativa privata, alla democrazia diretta sul modello dei comuni svizzeri, alle associazioni di genitori o alle mille comunità della società civile.

Che si tratti di democrazia municipale o di privatizzazione dei servizi locali, non è necessario cambiare lo Stato e neppure il governo per passare ai fatti. Queste autentiche trasformazioni della società possono cominciare ora e subito, purché i liberali lo vogliano veramente.

 

CITAZIONI RILEVANTI

Il riflusso della gioventù negli anni Ottanta

«Ripercorrendo a quindici anni di distanza l’itinerario delle rivolte studentesche … ciò che colpisce è la spoliticizzazione di una gioventù politicamente amorfa. Ovunque regnano la calma e la costanza. Sembra che quei milioni di studenti si dedichino con passione soltanto agli studi e al successo personale … l’idea che gli studenti possano costituire una “classe” portante del futuro è completamente screditata. Ogni forma di provocazione, verbale o nell’abbigliamento, lascia ormai indifferenti. Per i giovani, l’avvenire è retrò: si sia clean, ci si vesta preppie, si trovi un buon lavoro e si formi una famiglia» (p. 24)

 

I danni della teoria keynesiana

«Siamo nel pieno della crisi degli anni ’30. I liberali – quali Jacques Rueff in Francia – ritengono che l’unico modo d ridurre la disoccupazione consista nel permettere il ribasso dei salari. Keynes rifiuta però questa visione delle cose e sostiene al contrario che bisogna aumentare la pubblica spesa per rilanciare la produzione. Benché si tratti solo di un “colpo” ideologico, in seguito egli lo maschera da teoria scientifica. La teoria è però indimostrabile, probabilmente falsa e per di più fallisce negli anni ’30, come fallirà negli anni ’70. Ma in tal modo Keynes ha dato uno straordinario appoggio alle aspirazioni, per natura megalomani, dei burocrati politici. Prima di Keynes, i governi liberali temevano, a buon diritto, che se avessero manipolato la moneta, il budget, le imposte e i tassi d’interesse avrebbero turbato gli equilibri economici. Adesso sono giustificati a farlo, lo statalismo è diventato “scientifico”, intellettualmente rispettabile. Da ciò nasce il dramma del XX secolo: i liberali, aderendo a Keynes contro Marx, si trasformano tutti in statalisti. In nome delle teorie keynesiane, ogni intervento pubblico è ormai circondato a priori dal favore, da un’apparente logica scientifica.» (p. 54)

 

La proposta di tassare le spese invece del reddito

«James Meade osserva che è assurdo tassare i redditi, ossia le ricchezze che ciascuno apporta alla collettività, e non tassare invece il consumo, ossia quanto ciascuno toglie alla collettività. È quindi necessario permettere al contribuente di detrarre dalla dichiarazione dei redditi tutto ciò che egli risparmia. Grazie al risultato di questa sottrazione, saranno tassate soltanto le spese. I vantaggi economici di tale imposta sulle spese sarebbero immensi. ll livello generale del risparmio aumenterebbe, consentendo una ripresa dell’investimento privato … Le qualità politiche sarebbe ancora più evidenti, poiché la detrazione del risparmio finirebbe con il permettere al contribuente di “scegliere” il livello della propria imposta … Tale meccanismo instaurerebbe un controllo democratico e permanente dei contribuenti sulla burocrazia, incoraggerebbe l’iniziativa economica e terrebbe presente l’effetto Laffer. Infine, manterrebbe a pieno una gerarchia fiscale, al fine di garantire la stabilità delle relazioni sociali» (p. 91)

 

Punti DA RICORDARE

  • Negli anni Ottanta il liberalismo è tornato di moda in tutto il mondo
  • Non si tratta di un cambiamento temporaneo, ma di una duratura rivoluzione culturale
  • Le idee social-stataliste che hanno dominato negli ultimi quarant’anni sono entrate in crisi
  • In molti paesi le classi politiche si sono convertite a un discorso politico liberale
  • In America la rivoluzione reaganiana è stata preparata da una rivoluzione conservatrice che sottolinea gli aspetti etici del mercato
  • In Inghilterra Lord Harris e Keith Joseph hanno convertito Margareth Thatcher e il Partito Conservatore al liberalismo economico
  • Tuttavia dopo quattro anni di retorica antistatale la spesa pubblica non si è ridotta
  • L’ostacolo principale all’arretramento dello Stato è costituito dalla Nuova Classe burocratica
  • Oggi i partiti di sinistra non rappresentano più la classe operaia, ma i funzionari e gli insegnanti
  • Dalla California è partita la rivolta fiscale contro la tassazione eccessiva
  • La lotta all’inflazione è diventata per i liberali la causa centrale
  • Si sta diffondendo anche un forte movimento a favore della privatizzazione delle proprietà pubbliche e dei servizi pubblici locali
  • I liberali non devono avere fiducia nella classe politica, ma devono cambiare la società agendo dal basso

 

L’autore

Guy Sorman

Guy Sorman, giornalista e scrittore di idee liberali classiche, è nato a Nérac, in Francia, il 10 marzo 1944. Attualmente vive a New York, e dal 2015 ha acquisito anche la cittadinanza americana. Scrive regolarmente come editorialista per importanti quotidiani di tutto il mondo, tra cui Le Figaro in Francia, Wall Street Journal negli Stati Uniti, abc in Spagna. Dal 1970 al 2000 ha insegnato economia all’Istituto di Scienze Politiche di Parigi e presso altre università estere. È autore di trenta libri sull’attualità, diversi dei quali tradotti in italiano come La soluzione liberale (1984), La nuova ricchezza delle nazioni (1987), I veri pensatori del nostro tempo (1989), Made in Usa (2004). Nel 2018, è stato premiato con la Legion d’onore, il più alto riconoscimento francese.

 

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INDICE DEL LIBRO

7          L’ora planetaria

11        Parte prima. Alla ricerca di un’ideologia

13        1. La fine delle masse

24        2. Il ritorno dei miti

35        3. Il realismo non basta

45        Parte seconda. I principi: l’utopia liberale

47        4. La modernità delle vecchie idee

59        5.  La presa del potere

69        Parte terza. Gli ostacoli: la nuova lotta di classe

71        6. I delusi del liberalismo

85        7. Contribuenti di tutti i paesi

95        8. Come ricuperare la nostra moneta

105      Parte quarta. I successi: arricchiamoci

107      9. La crescita senza lo Stato

121      10. Il principio d’armonia

134      11. Un posto a vita

145      Parte quinta. Il progetto: la società della libera scelta

147      12. Una nazione di proprietari

159      13. Il capitalismo è ottimo per la salute

170      14. Per una scuola competitiva

183      15. In diretta dal vostro schermo, la democrazia

193      Epilogo. Il liberalismo è francese?

197      Carta dei luoghi citati e visitati

198      Ringraziamenti

NOTA BIBLIOGRAFICA

Guy Sorman, La soluzione liberale, Longanesi, Milano, 1985, p. 205, traduzione di Anna Silva.