A proposito di politica ed economia
A proposito di politica ed economia
Premessa
Il titolo della presente Nota non deve essere letto come un tentativo di affrontare un tema impegnativo, ampio, complesso. Esso richiederebbe, infatti, di essere esaminato sotto molteplici profili: teoretici, storici, etici, giuridici, sociali.
Il titolo della presente Nota è, piuttosto, un richiamo alla necessità di riflettere su un rapporto aperto ad opzioni diverse (talvolta addirittura fra loro contrapposte). Esso è, comunque, un invito a considerare un problema dell'esperienza sociale del nostro tempo. Attualmente, infatti, il cosiddetto potere politico usa con disinvoltura l'economia come strumento per l'acquisto del consenso; per l'acquisto di un consenso puramente volontaristico, quasi sempre «egoistico», che, a sua volta, usa la cosiddetta economia esclusivamente come strumento per il conseguimento di vantaggi delle categorie sociali o, addirittura, dei gruppi di potere e, persino, per il conseguimento di (discutibili) finalità individuali.
Alcune considerazioni preliminari
Andiamo per gradi. Osserviamo innanzitutto che l’economia (e, ancor meno, la ricchezza) non è il criterio regolativo né dell’agire individuale né dell’azione dei governi. Essa è un fattore che deve essere attentamente considerato sia nel primo sia nel secondo caso. Essa, però, non rappresenta il paradigma degli atti umani, né di quelli dei singoli né degli atti di coloro che sono a capo delle comunità, specialmente della comunità politica.
L’economia (come il benessere materiale) è strumento per l’uomo, non un suo fine, tanto meno il suo fine.
Questa osservazione confuta e smentisce diverse teorie riguardanti il primato dell’economia, sia quelle strettamente materialistiche (implicanti, a loro volta, un’opzione ateistica) sia quelle che si presentano con una maschera religiosa; meglio, come (presunta) dimostrazione della benevolenza divina, evidenziata dalla ricchezza. Anche questa «via» è materialistica al pari della prima. E se le dottrine della liberazione da ogni bisogno umano (esemplare, a questo proposito, è il marxismo) postulano coerentemente la morte di Dio, quelle che si presentano con il volto religioso (per esempio il calvinismo) lo rendono sì il risultato di un dovere compiuto ma, allo stesso tempo (almeno di fatto, di un fatto divenuto costume), strumento dell’individuo umano, il quale vede nella ricchezza lo strumento per la realizzazione dei propri desideri, di qualsiasi desidero, e, pertanto, per il conseguimento della liberazione dagli stessi (Weltanschauung propria dell’americanismo). In breve, la ricchezza sarebbe lo strumento per la realizzazione della gnostica «libertà negativa», vale a dire per l’esercizio della libertà regolata unicamente dalla libertà e, quindi, esercitabile senza alcun criterio. Le apparenti opposte dottrine del marxismo e del liberalismo si rivelano, sotto questo profilo, accomunate da un minimo comune denominatore, rappresentato – lo si è appena detto – dalla libertà gnostica che impone di considerare la libertà il valore supremo; rivendica il «diritto» all’autodeterminazione assoluta della propria volontà; postula l’utopia dell’eguaglianza con Dio, anzi la superiorità su di Lui[1].
Seconda osservazione preliminare. La liberazione integrale, rectius la convinzione che la liberazione assoluta sia un «diritto», postula, poi, che la libertà sia effettiva. Non basterebbe, quindi, la proclamazione dell’assoluto diritto alla libertà formale (propria della dottrina liberale classica, ossia delle origini del liberalismo). Essa, infatti, richiede che la libertà, sia pure quella gnostica, sia sostanziale: per essere liberi secondo questa teoria non basta essere posti astrattamente nella condizione di poter fare. È necessario che tutti possano effettivamente fare. Ogni essere umano, quindi, dovrebbe godere dei mezzi per l’autodeterminazione della propria volontà. Ciò comporta che l’eguaglianza (illuministica) sia condicio sine qua non della libertà. Non basta, per esempio, affermare che tutti hanno diritto di esprimere il proprio «pensiero». Bisogna che tutti siano posti nella condizione di poterlo fare. Fra chi dispone di testate giornalistiche o di televisioni e chi non può permettersi simili mezzi corre una distanza infinita. Per la qualcosa viene richiesta un’eguaglianza di mezzi: i finanziamenti pubblici garantirebbero l’eguaglianza dei diritti[2]. L’eguaglianza, in altre parole, sarebbe condizione della libertà, della «libertà negativa».
È vero che per il conseguimento di questa uguaglianza illuministica si possono percorrere vie diverse. Talvolta persino opposte. Si può, per esempio, ritenere che la collettivizzazione dei mezzi di produzione sia la via obbligata (marxismo). Si può ritenere, come fa la dottrina socialdemocratica che, a tal fine, bastino i servizi pubblici (scuole, servizio sanitario nazionale, trasporti e via dicendo). Si può, inoltre, ritenere idoneo allo scopo un sistema «misto», vale a dire un forte intervento pubblico che sostenga e stimoli (a seconda dei casi) l’impegno privato. In tutti i casi, comunque, le risorse economiche sono considerate strumento principe per la liberazione dell’essere umano.
Nel secondo dopoguerra nei Paesi occidentali si è affermata, infine, la dottrina secondo la quale lo Stato sarebbe chiamato a garantire la liberazione della persona con interventi ed aiuti economici. Così, oltre ai servizi sociali, lo Stato sarebbe chiamato a garantire la possibilità delle opzioni individuali, di qualsiasi opzione individuale (personalismo contemporaneo, che non è riconoscimento della persona classicamente intesa ma presupposto per la radicalizzazione estrema del liberalismo dei secoli precedenti). Lo Stato sarebbe chiamato, quindi, a garantire prestazioni ovvero a consentire la realizzazione effettiva di qualsiasi pretesa: aborto procurato, cambiamento di sesso per finalità non terapeutiche, suicidio assistito, automutilazione per finalità di comodo, erezione di edifici di culto per ogni confessione «religiosa», stipendi ai cappellani militari di ogni religione e di ogni superstizione, e via dicendo. Si tratta dei cosiddetti «nuovi diritti»[3] che impediscono di adottare criteri che comportino di per sé limiti alle opzioni. In ultima analisi ogni ordinamento giuridico sarebbe «repressivo» e, pertanto, illegittimo se si adottassero rationes diverse da quella dell’autodeterminazione assoluta della volontà individuale. L’ordinamento giuridico, infatti, è considerato servente nei confronti della volontà e delle richieste dell’individuo. Lo Stato, pertanto, non potrebbe imporre un solo ordine, il suo ordine pubblico. La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, per esempio, ha «recepito» e imposto (e non avrebbe potuto non farlo, anche se di recente con la Sentenza n. 14/2023 si è contraddetta) il rispetto della dottrina del personalismo contemporaneo. La Corte costituzionale italiana, per esempio, ha ritenuto «diritto» dell’individuo disattendere persino a obblighi che la Costituzione stessa definisce inderogabili (cfr. Sentenza n. 467/1991). Lo Stato, così, si autodissolve in virtù del suo stesso ordinamento costituzionale.
Quello che qui rileva, però, è altro. Uno Stato che vuol essere servente nei confronti di qualsiasi opzione individuale, è costretto a praticare un’imposizione fiscale molto elevata: se tutti hanno diritto a tutto è chiaro che lo Stato deve disporre di entrate notevoli, sempre insufficienti ad assicurare i sussidi richiesti nel nome dei «diritti» della persona.
La strumentalizzazione dell’economia da parte della politologia
L’uso dell’economia per l’incremento della ricchezza delle categorie sociali che riescono ad imporsi, dei gruppi di potere che riescono a dettare condizioni, dei singoli che – almeno di fatto, direttamente o indirettamente – vengono avantaggiati dalle scelte legislative relative alla «politica sociale», è un’inevitabile conseguenza della dottrina politologica di derivazione nordamericana. Questa dottrina, infatti, affermatasi innanzitutto negli Stati Uniti d’America, si è imposta in tutto l’Occidente man mano che l’egemonia culturale e politica degli U. S. A. si è affermata e diffusa. Essa ha messo in crisi persino la Weltanschauung politica della modernità. La Francia, per esempio, è uno dei Paesi ove questa crisi è maggiormente evidente. Non più lo Stato moderno, quello che affonda le sue radici in un aspetto del protestantesimo luterano e che Rousseau (anch’egli protestante anche nei periodi in cui aderì al cattolicesimo) teorizzò «giustificando» la Rivoluzione francese e «motivando» gli eserciti di Napoleone I; non più lo Stato moderno – si diceva – è l’istituzione che esercita la «ragion di Stato» (che è, comunque, negazione della politica) ma i gruppi di pressione (ideologici – con i partiti politici anche quando il partito è unico -, e corporativi – con le associazioni di categoria (associazioni industriali, sindacati, etc.) - dettano le scelte del potere erroneamente definito «politico». L’«istituzione Stato» (anche se in Diritto pubblico viene ancora usata come categoria per legittimare l’esercizio del potere) diventa un contenitore entro il quale viene esercitata la lotta per l’affermazione dei propri interessi. Il bene comune scompare dall’orizzonte. Esso, infatti, è generalmente identificato con il vantaggio materiale che deve essere, certamente, il più possibile diffuso ma che mai può assurgere a bene comune vero e proprio, essendo per sua natura «privato» anche quando viene erroneamente definito «pubblico», il quale non è comune essendo il bene privato della persona civitatis.
La politologia è la negazione della politica Essa ha orientato molte scelte governative in diversi Paesi (si pensi, per esempio, per quanto riguarda l’Italia a diverse «riforme»: a quella agraria realizzata dai governi De Gasperi) e ha ispirato e tuttora ispira la legislazione (si pensi – è un ulteriore esempio – alla politica sanitaria dell’OMS e dell’UE, varata considerando gli interessi delle case farmaceutiche, non il bene salute delle persone).
Conseguenze
Non solo la politica come scienza ed arte del bene comune scompare, accogliendo e praticando la dottrina politologica. La politologia porta con sé anche altre rilevanti conseguenze. Ci limiteremo a indicarne tre, particolarmente evidenti nel nostro tempo.
La prima è rappresentata dallo «svuotamento» del ruolo del Parlamento. Essa, quindi, investe una questione essenziale della liberal-democrazia. Il Parlamento, infatti, è ormai chiamato (e ridotto) a ratificare, non è cioè più chiamato a deliberare; rectius, formalmente delibera ma sostanzialmente ratifica. Ratifica ciò che è stato convenuto altrove fra le «forze» partitiche prima della elezione del Parlamento medesimo. In altre parole esso dà esecuzione agli accordi raggiunti con le varie componenti sociali che giuocano un peso notevole circa il «consenso» elettorale. Questo consenso è dato sulla base dei vantaggi assicurati agli elettori tramite le associazioni. Così, per esempio, gli accordi raggiunti nella Prima Repubblica fra la Democrazia cristiana e la Coltivatori diretti sono stati indicazioni di fare o non fare in sede parlamentare per coloro che avevano goduto del suffragio di questo sindacato. In altre parole ancora i parlamentari si comportarono, anzi «dovettero» comportarsi, seguendo un vincolo di mandato, contrariamente a quanto prescrive l’art. 67 Cost.. Essi diventarono non rappresentanti della Nazione ma rappresentanti degli interessi delle varie categorie. Usarono (e usano) la stessa economia non secondo le regole e le finalità dell’economia stessa, nonché considerando le esigenze della collettività, bensì secondo la convenienza della parte di appartenenza. Ciò investe tutti i settori della vita sociale: i piani regolatori dei Comuni e delle Regioni, gli espropri definiti di pubblica necessità e d’urgenza, le regole per le affittanze e le locazioni, le prelazioni stabilite per la vendita e l’acquisto dei terreni agricoli a favore dei coltivatori diretti e via dicendo.
I privilegi accordati per norma alle categorie – trattasi della seconda conseguenza della politologia - rappresentano evidentemente una contraddizione profonda circa l’eguaglianza, invocata, proclamata e vieppiù rivendicata. Quello che lo Stato moderno si impegnava a garantire e, cioè, l’eguaglianza dei cittadini, viene sempre più sacrificato sull’altare dei vantaggi da assicurare (ed assicurati) ai propri clientes: una specie di «relazione di patronato» viene, così, istituita o reintrodotta.
La terza conseguenza – inevitabile – della politologia è la legge patteggiata, per usare una definizione di Gustavo Zagrebelsky[4]. Il patteggiamento della legge priva la legge stessa delle caratteristiche che ci si ostina ad attribuirle: la generalità, l’astrattezza e l’impersonalità. La legge alla luce della dottrina politologica è particolare, concreta, personale. Esattamente il contrario di quanto si continua a scrivere nei Manuali di Diritto pubblico e si continua a ripetere in maniera tralaticia dalle cattedre universitarie. Con la dottrina politologica si sono perse le caratteristiche della legge «moderna», la quale aveva già perso con la modernità giuridica il suo fondamento di giustizia[5]. Inevitabile diventa la considerazione e l’applicazione del solo criterio del vantaggio materiale, considerato (anche quand’esso rappresenta, a ben osservare, solamente una partita di giro) fattore economico essenziale. Sempre più si sentono frasi come l’«economia gira» che racchiudono un messaggio ingannevole. Il fine dell’economia in questo caso non è, infatti, necessariamente economico. Parlando per metafore si potrebbe dire che come il correre a vuoto non porta alla meta, così l’economia che produce solamente un giro di denaro o uno scambio di beni non produce necessariamente ricchezza, la quale, per altro, è solamente un aspetto dell’economia.
Politica e giustizia
Regola e fine della politica è la giustizia. Lo sostenne fondatamente Agostino d’Ippona[6]. Lo insegnò recentemente anche Benedetto XVI[7]. Ciò significa che una politica che tenda unicamente al benessere (spesso solamente animalesco) senza curarsi della giustizia è potere esercitato illegittimamente. La politica, infatti, non è una tecnica come non è esclusivamente una tecnica l’economia. Se così fosse, esse sarebbero rispettivamente puro dominio e criterio senza criteri di produzione.
La questione della giustizia fiscale
È per questo che la politica non può ignorare, per quel che attiene al prelievo fiscale, la questione della giustizia, propriamente la questione della giustizia legale. Lo Stato, in altre parole, non è legittimato a stabilire arbitrariamente prelievi fiscali. Essi debbono sempre essere giustificati da legittime finalità e da un giusto rapporto sinalagmatico fra compiti assolti nell’interesse della generalità dei cittadini, di tutti i cittadini e dei cittadini che maggiormente godono delle prestazioni dello Stato. Il problema fiscale, in altre parole, deve essere effettuato con criteri di giustizia.
Lo Stato, d’altra parte, non deve considerare e stabilire arbitrariamente i criteri di distribuzione. Essi non possono trovare fondamento e legittimità né nelle ideologie né in calcoli demagogici. I contributi, le regalie, le agevolazioni non debbono essere fatte né con criteri clientelari né ad nutum da parte di chi detiene il potere. I contributi, le regalie, le agevolazioni non possono trovare legittimazione né morale né giuridica[8] nemmeno nelle finalità di incentivare la produzione o di migliorare le condizioni socio-economiche dei cittadini.
Breve conclusione
La politica che si subordina all’economia commette almeno due errori fondamentali. Il primo è rappresentato dalla rinuncia a veramente governare. Il secondo è rappresentato, invece, da un uso del potere/dovere di governare per sgovernare.
Cerchiamo di spiegarci. Il primo errore è dato dal primato assegnato all’economia sulla politica. L’economia – si dice – ha le sue regole (che riguardano propriamente la tecnica economica, quella che generalmente viene usata, per esempio, nelle Banche e dalle Banche per gli investimenti azionari ed obbligazionari). Le regole tecniche sono, però, strumenti e gli strumenti si possono usare con finalità diverse. Lo strumento, quindi, necessita di decisioni diverse che rappresentano la ratio nell’uso dell’economia. Le rationes, a loro volta, possono essere autenticamente politiche oppure simulazioni politiche. Sono, comunque, «altro» rispetto all’economia. Sono rationes di cui l’economia necessita. Esse evidenziano l’ineliminabilità delle decisioni «politiche» nelle gestioni economiche.
Il secondo errore comporta la preliminare accettazione del conflitto come essenziale elemento della vita sociale (che è teoria protestante). Che nell’esperienza le controversie (che non sono necessariamente conflitti) siano costanti è un dato di fatto. Le controversie, però, sono «superabili». Esse, cioè, si possono risolvere ascoltando le parti e adottando soluzioni conformi a giustizia, in primis conformi alla giustizia «naturale», in secondo luogo conformi alla giustizia «legale» (usiamo questi termini in senso strettamente aristotelico[9]). In altre parole la controversia non esclude il bene comune (che è – lo vado ripetendo da tempo – il bene proprio di ogni uomo in quanto uomo e, perciò, bene comune a tutti gli uomini); anzi lo implica riconoscendo alla comunità politica il suo dovere di perseguirlo usando innanzitutto l’ordinamento giuridico come strumento a tal fine necessario.
[1] Per quel che attiene alla questione dell’autodeterminazione si rinvia a R. DI MARCO, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, nonché ad AA.VV., La autodeterminación: problemas jurídcos y políticos, a cura di Miguel Ayuso, Madrid, Marcial Pons, 2020.
[2] Questa sembra essere anche la ratio apparentemente «nobile» del finanziamento pubblico ai partiti politici per il quale si invocò il «principio dell’eguaglianza delle opportunità». In Italia la cosiddetta «Legge Piccoli», ovvero la Legge n. 195/1975, successivamente più volte modificata (Legge n. 659/1981; Legge n.422/1980; Legge n. 412/1985) lo istituì. Nel 1993 si tenne un referendum che lo abrogò. Fu indirettamente reintrodotto con la Legge n. 157/1999, a sua volta modificata con Legge n. 156/2002, con Legge n. 51/2006, con Legge n.96/2012. Successivamente il Decreto legge n. 149/2013, convertito in Legge n. 13/2014, lo abolì.
[3] Utile, a questo proposito, è la lettura di R. DI MARCO, Diritto e «nuovi» diritti, Torino, Giappichelli, 2021.
[4] Cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, passim.
[5] La legge moderna, infatti, ritiene di trovare il proprio fondamento nella sovranità (intesa come supremazia), sia essa sovranità dello Stato sia essa sovranità del popolo.
[6] Cfr. AGOSTINO, De civitate Dei, IV, 4.
[7] Cfr. BENEDETTO XVI, Enc. Deus caritas est, Roma, 2005, n. 28.
[8] Nella vasta letteratura sulla questione, con riferimento non solo agli aspetti della giustizia legale e distributiva, si rinvia a M. DE CORTE, Economie et morale, in «Persona y Derecho», Facultad de Derecho-Universidad de Navarra, vol. IV, 1977, pp. 425-559, e al più recente volume AA.VV., Derecho y economia, a cura di Miguel Ayuso, Madrid, Marcial Pons, 2021.
[9] Cfr. ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, l. V.