I «Grandi spazi» nel pensiero internazionalistico di Carl Schmitt
Abstract:
Il saggio delinea il concetto di ‘grande spazio’ elaborato da Carl Schmitt nel 1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte. La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni internazionali.
Dopo aver illustrato il declino dello jus publicum europaeum e l’agonismo tra i contrapposti universalismi di USA e URSS, in questa terza parte si trascorre a descrivere la teoria dei ‘grandi spazi’, proposta da Schmitt quale fondamento di un nuovo e plurale nomos della terra.
La dottrina dei ‘grandi spazi’
Non sempre può pretendersi da uno studioso una pars construens. È talora già nella notazione critica che si concentra l’utilità di una riflessione, che può consentire di meglio comprendere il reale. Tuttavia, Schmitt non si sottrae all’elaborazione di una proposta di nuovo nomos della terra, in opposizione al potere globale americano o sovietico.
L’ideale schmittiano per conferire stabilità alle relazioni internazionali e garantire la pace è dunque il ‘grande spazio’[1], così definito per la prima volta nel 1941:
Il termine «grande spazio» esprime, dal nostro punto di vista, il mutamento delle dimensioni e delle rappresentazioni dello spazio terrestre che domina l’attuale sviluppo della politica mondiale. Mentre infatti la parola «spazio», accanto ai suoi vari significati specifici, mantiene un senso fisico-matematico generale e neutrale, l’espressione «grande spazio» costituisce per noi un concetto concreto, storico-politico, che guarda al presente[2].
Secondo Carlo Galli, il ‘grande spazio’ è
uno spazio messo in forma da un comando egemone, portatore del principio organizzativo dello Stato, ma ben più di questo capace di dar vita a un ordine politico concreto, consapevole di dovere governare al proprio interno una pluralità di organismi nazionali (che l’Impero gerarchizza nel proprio Grande spazio, escludendone le potenze estranee.
Un mondo diviso in grandi spazi governati da potenze egemoni potrebbe garantire la pace o – almeno – una limitazione della guerra. Osserva Stefano Pietropaoli che
alle soglie della seconda guerra mondiale la proposta teorica schmittiana rispecchiava l’anelito di una Germania che si sentiva stretta nella morsa di due universalismi: quello liberale a ovest, quello bolscevico a est. Schmitt sognava un’Europa forte, capace di difendere la propria autonomia dalle aspirazioni espansionistiche degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica[3].
Questo nuovo concetto ordinante viene elaborato movendo dall’analisi economico-organizzativa:
[…] con le prestazioni stupefacenti della grande industria tedesca nel dopoguerra […] diventa per la prima volta specificamente chiara come parola e come cosa; e ciò in virtù della collaborazione pianificata tra vaste reti di elettrodotti e gasdotti, e un «raggruppamento di centrali elettriche», il che significa razionale sfruttamento della varietà degli impianti per la produzione di energia, razionale ripartizione dei vari carichi, ricorso a riserve interscambiabili […][4].
È interessante osservare come Schmitt, pur critico riguardo allo scatenamento della tecnica, non esiti a trarre proprio dallo sviluppo industriale la nozione fondamentale del nuovo ordinamento spaziale della terra.
E, forse con maggiori implicazioni di quanto possa apparire, suggerisce che
la formazione economica del grande spazio può del resto – come accade spesso nell’economia dell’elettricità – svilupparsi dal basso in alto, con distretti spazialmente limitati che si associano più o meno «organicamente» in complessi più grandi; ma può anche – come appare evidente nella fornitura a distanza di coke metallurgico – essere intrapresa fin dall’inizio mediante reti che coprono grandi spazi e progettate in vista di grandi spazi, cui poi si allacciano le reti che servono i piccoli spazi[5].
Come si avrà modo di esporre in seguito, già da qui si può intuire l’ambiguità della nozione di ‘grande spazio’, suscettibile d’applicarsi sia a realtà federative bottom-up che processi impositivi top-down.
Riguardo il percorso bottom-up, Schmitt, nel Nomos della terra (1950), evoca anche il pensiero di Maurice Hauriou (1856-1929), secondo il quale le istituzioni politiche si formano in esito alla creazione di un mercato comune, quando esso «oltrepassa i confini della città-Stato e si fa territorio nazionale». Alla luce di queste considerazioni istituzionalistiche, Hauriou aveva proposto l’orizzonte di «un grande spazio unificato federalisticamente», ma a Ginevra era invece prevalsa la «pretesa ideologica di un universalismo acritico»[6].
Il ‘grande spazio’ mira a designare la nuova unità spaziale di diritto internazionale, a differenza delle precedenti nozioni di ‘sfera di interesse’, ‘back country’, ‘contiguity’, ‘settore’, incapaci di realizzare un nomos della terra[7], come pure si rivelava insufficiente il diritto demografico dei popoli, sostenuto da Giappone e Italia[8].
Per grande spazio si intende, sotto il profilo definitorio, un ambito eccedente il territorio statuale, dominato – per mezzo di un principio politico determinato[9] – da un impero, che escluda le ingerenze di altri attori geopolitici portatori di diverse idee ordinatrici.
Il ‘Grossraum’ non coincide con lo spazio vitale hitleriano[10], anche se alcune interpretazioni potrebbero rafforzare il secondo per il tramite del primo. Invero, Schmitt tende a dimostrare come un pezzo di mondo possa e debba, secondo il diritto internazionale che emerge dalla realtà effettuale, essere sottoposto all’influenza determinante di uno Stato-guida, che si fa garante dell’esclusione di soggetti estranei.
Non si tratterebbe neppure di evocare i confini naturali, privi di portata euristica, in quanto scollegati dalla dimensione politica, culturale, sociale e spirituale dei popoli, bensì di uno ‘spazio operativo politico’, sede di una potenza idonea a circoscriverlo. Il grande spazio non è infatti un dato, ma un esito concreto storicamente determinato.
Come detto, il soggetto politico che si proietta nel ‘grande spazio’, rifiutando l’altrui ingerenza, è l’impero.
Imperi, in questo senso, sono le potenze egemoni, la cui idea politica s’irradia in un grande spazio determinato, e che per questo spazio escludono per principio gli interventi di potenze esterne[11].
L’Impero rappresenta, per Schmitt, la nuova grandezza storico-politica protagonista del diritto internazionale, cui lo Stato – come struttura formale determinata ormai inane rispetto alla rivoluzione spaziale della tecnica scatenata – dovrebbe far luogo.
L’Impero non coincide con il ‘grande spazio’, sebbene ogni ‘grande spazio’ esiga un Impero. Quest’ultimo proietta la propria egemonia su un territorio più esteso di quello ove esercita una sovranità diretta, controllando anche popoli e Stati nella propria orbita di influenza.
Schmitt ha cura di sottolineare che – in relazione ai ‘grandi spazi’ – non debba farsi riferimento all’Empire britannico, universale e frammentario, né all’universalistico Imperium dei romani, ma al Reich tedesco, paradigma, anche spirituale, di un impero nazionale radicato sul suolo. Il Reich, dunque, espressione del Völk, dovrebbe controllare e garantire un ‘grande spazio’, da intendersi quale ‘spazio operativo’ eccedente i singoli territori nazionali[12].
Quale autorevole precedente storico, Schmitt invoca la dottrina di Monroe (1823), che consegna il ‘grande spazio’ americano a un regime internazionale distinto da quello legittimistico-dinastico europeo, nel quale non sarebbero più state ammesse conquiste coloniali da parte degli europei. Schmitt non mira a un’acritica recezione del principio, sostenendo invece che il suo
[…] compito consiste piuttosto nel rendere manifesta l’idea fondamentale in essa racchiusa – utile per il diritto internazionale – di un principio giuridico dei grandi spazi, in modo da renderla proficua anche per altri spazi vitali e altre situazioni storiche[13].
Nondimeno, la politica dei due presidenti Theodore (1901-1909) e Franklin D. Roosevelt (1933-1945) avrebbe riletto la dottrina di Monroe, travisandone il contenuto di affermazione di un grande spazio[14] e rivendicando invece agli Stati uniti un presenzialismo ubiquitario negli affari internazionali. La dottrina di Monroe cessa così di esprimere, avant la lettre, una teoria dei grandi spazi, per assurgere invece a versione statunitense dell’universalismo anglosassone[15], che non concepisce una ripartizione spaziale della terra, per accedere ad una politica di indifferenziazione pan-interventista[16]. Se si tratti di principio giuridico o politico è, secondo Schmitt, questione in fondo superflua. Il giurista evidenzia tuttavia come l’establishment americano abbia sempre propeso per una qualificazione politica, allo scopo di mantenere il monopolio della definizione del suo specifico contenuto, mediante una concretizzazione decisionistica di un principio ormai indeterminato.
Contro il concetto eminentemente terraneo dei ‘grandi spazi’, portato dalla dottrina di Monroe, si stagliava la dimensione oceanica del mondo. Questo principio divergente sarebbe risieduto nel principio della sicurezza delle vie di traffico dell’impero mondiale britannico, di cui si sono – mutatis mutandis – appropriati gli Stati Uniti[17].
A parere di Schmitt, connessa ai principi universalistici di interesse anglosassone è anche la tutela delle minoranze, che abiliterebbe un intervento tutorio delle grandi potenze liberali. Contraddittoriamente, peraltro, tale tutela ab externo sarebbe stata limitata esclusivamente ad un ‘grande spazio’, quello dell’Europa orientale dei nuovi Stati istituiti a seguito del primo conflitto mondiale[18].
È dunque in questi termini che si pone, ad avviso di Schmitt, la sfida tra l’universalismo individualistico liberale, che propone una omogenea regolamentazione internazionale del pianeta, e il principio terraneo dei ‘grandi spazi’, che riserva a ciascun territorio il proprio diritto, incoercibile da potenze estranee.
Mette conto osservare, dunque, come secondo Alain De Benoist
‘il grande spazio’ appare così destinato a giocare un ruolo di katechon rispetto alla globalizzazione[19].
Il concetto di ‘grande spazio’ in Schmitt è sostanzialmente aperto[20]. Non viene precisato, infatti, il processo – storico e politico – attraverso cui esso dovrebbe essere istituito, né si chiarisce come se ne debba assumere la guida.
Osserva al riguardo Carlo Galli che
se il concetto di Reich abbia o non un «nocciolo statualistico», e se il Grossraumdenken schmittiano sia aggressivo o ordinativo, è questione che ancora oggi è dibattuta. Da una parte vi è chi, come Koenen, sostiene non solo una sintonia lessicale, ma anche una dipendenza concettuale di Schmitt – il cui pensiero sarebbe sempre una “teologia del Reich” – dall’analoga tematica tipica della “rivoluzione conservatrice”, così che gli scritti di questi anni sarebbero l’ultimo tentativo schmittiano di realizzare, su scala internazionale, il progetto politico “conservatore”; dall’altra, studiosi come Maschke propendono invece per una maggiore indeterminatezza del concetto schmittiano di Reich, e sottolineano che con esso Schmitt sicuramente riconosce, come da tempo aveva fatto, la fine del significato politico dello Stato, in politica interna, ma al contempo ne accetta, a livello internazionale, una sopravvivenza a scopi funzionali e ordinativi[21].
Essendo stato sviluppato nel milieu intellettuale nazionalsocialista – quantunque con le doverose precisazioni già svolte e pur non essendosi mai espresso l’Autore in questo senso – parrebbe plausibile un’interpretazione gerarchicamente connotata, segnata dall’egemonia di un Impero che assoggetta i Paesi circostanti[22]. Si assisterebbe così ad una rispazializzazione mediante l’istituzione di uno Stato-guida che – in varia guisa – predominerebbe sugli Stati-satellite a sovranità limitata.
Carlo Galli rileva, ancora, che il Reich
[…] esercita la propria egemonia in un Grossraum di dimensioni continentali; all’interno di questo grande spazio trovano posto, in ruolo subordinato, altre nazionalità con configurazione statuale, almeno da un punto di vista organizzativo (le nazioni, quindi, non valgono come immediatezza etnica ma devono anzi essere giuridicamente “elaborate”). A livello planetario si avrebbe così un “equilibrio di egemonie” continentali, ovvero un ordine giuridico-politico pluralistico, capace di risolvere la questione della guerra discriminatoria […][23].
In questa costruzione, peraltro, che lo Stato-guida, l’Impero, curi gli interessi dei Paesi sotto-ordinati resta, in verità, una petitio principii.
È tuttavia altrettanto sostenibile un’altra lettura del ‘grande spazio’, in prospettiva comunitaria e coordinamentale, piuttosto che gerarchica.
Se, infatti, si volessero ‘prendere sul serio’ le assicurazioni schmittiane, si potrebbe ritenere che l’influenza imperiale si propaghi, geopoliticamente, a salvaguardia di un’area culturale coesa:
allora si mostrerà che i grandi spazi trovano il loro centro e il loro contenuto non solo nella tecnica ma anche nella sostanza spirituale degli uomini che lavorano assieme per svilupparli, sulla base della loro religione, della loro razza, della loro cultura e della loro lingua, e sulla base della viva forza della loro eredità nazionale[24].
In questa logica, Caterina Resta argomenta che
la teoria schmittiana del Grossraum rappresenta un passaggio obbligato per riflettere sulla necessità di una nuova, diversa rispazializzazione del Politico, di un nuovo nomos della terra, che sappia, anche, contrastare l’utopia di un universalismo giuridico assolutamente despazializzato. Particolarmente fecondo, a tale proposito, appare il concetto di “iconografia regionale”, che Schmitt riprende dal geografo Jean Gottmann; esso mostrerebbe come «le differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni, tradizioni, dal passato storico e dalle organizzazioni sociali, costituiscono spazi peculiari»[25], contribuendo a costituire nel loro insieme «l’iconografia di una determinata regione»[26]. Si tratta, insomma, di riconoscere che lo spazio nel quale abitiamo non può ridursi a spazio meramente quantitativo, a tabula rasa […][27].
Ne conseguirebbe un legame ‘naturale’ tra Impero e Stati-satellite, cementato dall’identità del principio politico che anima il ‘Grossraum’. Il ‘grande spazio’ conserverebbe utilità euristica e normativa, per ipotizzare delle relazioni internazionali sottratte ad approcci monistico-universalistici.
Senza intenti anti-comunitari, la stessa Unione Europea potrebbe essere interpretata come concretizzazione – se non dell’idea – di un’idea di ‘grande spazio’[28].
Del resto, secondo Günter Maschke è proprio da Schmitt che dovrebbe muoversi per costruire l’Europa unita. In questo senso, Alessandro Campi rileva che l’Autore
affronta il tema di una unificazione politica del blocco continentale europeo sostenendo che una tale unificazione potrà avvenire solo in presenza di alcuni precisi fattori: un potere egemonico che faccia da traino all’intero processo di integrazione, un’idea politica direttiva intorno alla quale tutti i soggetti possano riconoscersi, una certa omogeneità culturale tra i membri della federazione europea, la chiara individuazione di un nemico politico. In mancanza di questi elementi, l’Europa in via di unificazione […] sarà un’area integrata di scambi commerciali e finanziari […], ma senza alcuna rilevanza politica[29].
In questa logica, è stato sostenuto che l’Europa è forse troppo poco schmittiana[30].
Anche Carlo Galli, pur distanziandosi dai ‘grandi spazi’, auspica
una rispazializzazione della politica che non vada né nella direzione conflittuale del potere dello Stato né in quella gerarchica dell’Impero né in quella moralistica e universalistico-discriminatoria della guerra giusta; e che si orienti invece verso una combinazione di nuovo federalismo e di nuovo efficace universalismo cosmopolita postmoderno (dunque diverso da quello statualistico dell’ONU) coagulato attorno non a Grandi spazi ma a nuclei di «potenza civile» che lo rendono concreto (l’Europa potrebbe esserne uno)[31].
Più critica la posizione di Pier Paolo Portinaro, ad avviso del quale i ‘grandi spazi’ restano concetto ancora schiacciato sull’idea statuale, intrinsecamente polemico e – comunque – inafferrabile nei contenuti e nel funzionamento:
geopoliticamente i grandi spazi vengono definiti e attivati soltanto mediante decisioni sovrane, che sono sempre decisioni sull’amico e sul nemico. Se a monte di un sistema di Stati sta sempre un ordinamento spaziale concreto, quest’ultimo non può assurgere a grandezza politica se non attraverso la contrapposizione polemica nei confronti di un altro ordinamento spaziale; solo un’unità giuridica che detenga il monopolio del politico può però farsi portatrice degli interessi di un Grossraum contro altri imperi o Stati estranei a quell’area. In questo modo il decisionistico Quis judicabit? continua a valere anche nella fase in cui gli Stati cessano di essere unità sovrane per ridursi a strutture burocratiche della società civile. Che cosa possa in questa fase determinare l’identità di un grande spazio, resta un problema aperto[32].
Anche Alessandro Campi argomenta che Schmitt ha lanciato, senza vincerla, la
[…] sfida […] verso la costituzione di un «nuovo ordine mondiale» e di nuove forme di aggregazione del «politico» […]. Analista lucidissimo, non gli è infatti riuscito di pensare fino in fondo un ordine politico post-statuale, di cogliere quindi le conseguenze estreme del suo stesso pensiero, sia sul piano della Verfassung materiale e dell’ordine civile interno, sia su quello dell’ordinamento planetario. Senza essersi mai abbandonato a lamentazioni nostalgiche, pure non è riuscito a liberarsi completamente dell’ombra maestosa dello Stato e dello sguardo severo dei suoi primi e geniali teorici; ha sempre agito su di lui, specie negli anni del secondo dopoguerra, l’incubo sinistro della «guerra civile mondiale», di un bellum omnium contra omnes mondiale destinato a dissolvere, insieme agli Stati, l’uomo e la stessa madre-terra. Naturalmente, da questo oggettivo limite della sua dottrina non si può certo prendere lo spunto per rinnegare il valore delle sue impostazioni metodologiche e concettuali.
Günter Maschke osserva poi, come limite intrinseco della teoria di Schmitt, che
il suo grande spazio era plasmato in termini puramente continentali, e in ultima analisi implicava niente di meno che le potenze marittime – proprio per il fatto di non disporre di un grande spazio chiuso e di controllare soltanto un reticolo di linee di traffico e di collegamento – avrebbero dovuto gentilmente «abdicare», per pura e semplice colpa geografica. Il problema dell’equilibrio tra terra e mare, nonché dell’equilibrio in mare, di cui si erano occupati ancora Napoleone e i giuristi francesi del suo tempo, nell’«ordinamento dei grandi spazi» di Schmitt fu semplicemente fatto sparire con un escamotage […][33].
Interessante l’opposta visione di Antonio Cantaro, secondo il quale, in prospettiva attualizzante, nei ‘grandi spazi’
[…] Schmitt sembra alludere alla possibilità di un nuovo nomos duale, di un ordine giuridico della terra frutto dello scontro/incontro tra il nomos della tecnica e il nomos dei grandi spazi di civiltà. Un ordine alternativo a quello dei falsi universalismi del XX secolo[34].
Non pretendendo di rispondere a interrogativi di tanta portata, non sfugge il profondo legame tra ‘grande spazio’ e ‘terza forza’ come concetti antinomici all’impero globale (Empire). I ‘grandi spazi’ sono ontologicamente plurali e, pertanto, implicano l’esistenza di ‘terze forze’, capaci di limitare l’intervento delle potenze estranee sul territorio di propria influenza.
Di qui si intravede la genealogia del ‘grande spazio’, superamento ma non abiura dello Stato dell’età moderna.
Se Magni homines di pari dignità erano gli stati dello jus publicum europaeum, eredi della res publica christiana, su quali nuove basi si potrebbero oggi confrontare grandi spazi continentali, la cui storia e cultura hanno spesso ben poco in comune? Se in passato l’equilibrio della forza è stato l’elemento che ha consentito la limitazione della guerra e impedito la criminalizzazione del nemico, come evitare che, fondandosi su questo stesso principio, i conflitti tra i grandi spazi non si traducano in uno «scontro di civiltà», ove avrebbe la meglio la civiltà più “forte”[35].
Per Schmitt la politica dell’equilibrio rappresenta, dunque, un’innegabile garanzia di pluralismo in un ordinamento spaziale[36]. Tramontato, per consunzione interna e caos esterno, il prodotto intellettuale ‘Stato’, questo alto compito di bilanciamento di forze e controforze può essere affidato ai ‘grandi spazi’, nuova costruzione del diritto dimensionata allo scenario mondiale della tecnica scatenata[37].
[1] In verità, una nozione di ‘grande spazio’ parrebbe già isolata da Schmitt nel 1926 ne La società delle nazioni. Il nocciolo della questione, Le due rose, Milano, 2018 [1926], quantunque ne desse una lettura ancora descrittivo-avalutativa se non apertamente critica. Al riguardo, Giuseppe Perconte Licatese nella Postfazione all’opera appena citata, p. 168, osserva che «a quest’altezza, il concetto non è presentato in positivo come spazio di una – presunta – tutela della libertà e delle differenze tra i popoli (sarà questa la formula schmittiana del «grande spazio» negli anni del nazismo), ma ha connotazioni che vanno da quella negativa, imperialistica – lo spazio di un imperialismo che oggettifica i popoli subordinati, di cui è dettata la costituzione politica ed economica – a quella neutrale, avalutativa […]».
[2] C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze estranee (1941), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 107.
[3] S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 129.
[4] C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi, cit., p. 108.
[5] Ivi, p. 109.
[6] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., pp. 311-312.
[7] ID., L’ordinamento dei grandi spazi, cit., p. 110.
[8] Ivi, p. 114.
[9] Secondo Schmitt «il diritto internazionale è un ordinamento concreto, la cui “concretezza” si trova non soltanto nella comunità di sangue di un popolo, ma anche – e soprattutto nel suo nesso con uno spazio definito che, secondo Schmitt, non può che essere uno spazio politico. Dal punto di vista del diritto internazionale il concetto di spazio non può essere separato da quello di “idea politica”. Per Schmitt non esistono idee politiche senza uno spazio a cui siano riferibili, così come non esistono spazi cui non corrisponda un’idea politica». Così S. PIETROPAOLI, Schmitt, Carocci, Roma, 2012, p. 122.
[10]C. RESTA, op. cit., pp. 100-101 rileva che «per quanto ‘rischiosamente prossima’ alla categoria di Lebensraum, coniata da Hausofer e dalla sua scuola di geopolitica messasi al servizio del nazionalsocialismo, quella di Grossraum non può assolutamente esser confusa con essa, non fosse altro che per la totale distanza di Schmitt da ogni ‘vitalismo giuridico’, nonché da qualsivoglia concezione razziale in senso biologistico. Non è un caso se, illustrando nel suo intervento del ’39 la propria concezione di “grande spazio”, Schmitt prende decisamente le distanze sia da un concetto di delimitazione territoriale desunto dalla teoria dei cosiddetti “confini naturali”, ripresa dalla geopolitica hausoferiana, sia da quell’altra concezione- caposaldo della politica espansionistica hitleriana – del “diritto demografico”, ossia del diritto dei popoli ad uno spazio vitale che consenta il loro libero accrescimento». Analogamente, S. PIETROPAOLI, recensendo nel 2016 M. SCHMOECKEL, Die Grossraumtheorie. Ein Beitrag zur Geschichte der Völkerrechtswissenschaft im Dritten Reich, insbesondere der Kriegszeit, Berlin, 1994 in «Jura Gentium», osserva che «il tentativo di accostare il Grossraum schmittiano al Lebensraum nazista pare fuorviante, se si pensa che quest’ultimo aveva per scopo la legittimazione di una superiorità ‘biologica’ della razza tedesca ed il relativo annichilimento delle popolazioni circostanti, e non certo la creazione di un Grossraum all’interno del quale i diversi Stati non erano considerati neppure frazioni dell’Impero ‘di riferimento’». Anche A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 50 rileva che «questo ‘grande spazio’ non deve essere evidentemente confuso con lo ‘spazio vitale’ (Lebensraum) cui si attribuiva molta importanza sotto il III Reich. I teorici nazisti, d’altronde, non si sono ingannati a questo riguardo». C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 144 rileva che, riguardo il ‘grande spazio’, i teorici più ortodossi del nazismo manifestarono riserve […] perché lo vedevano […] troppo tradizionalmente statuale, e al tempo stesso rispettoso della complessità plurale delle etnie che abitano il Grossraum, e troppo poco orientato alle esigenze vitali, in senso biologico, del popolo tedesco, e alle conseguenti politiche di svuotamento del Lebensraum per fare spazio allo Herrenvölk». Conforme anche TOMISSEN, op. cit., p. X. Più problematicamente, P. P. PORTINARI, op. cit., p. 193 osserva che la polemica antiuniversalista di Schmitt «trova nella riflessione sul significato geopolitico della dottrina Monroe una direttrice di sviluppo che si accorda con l’ideologia nazista dello spazio vitale e del Reich come grande spazio». Anche G. GIURISATTI, op. cit., p. 13 osserva, riguardo le tesi sul Grossraum, come «pronunciate nell’aprile 1939, dopo l’Anschluss dell’Austria e l’invasione della Cecoslovacchia, queste parole appaiono giustificare l’accusa, di cui Schmitt fu chiamato a rendere conto a Norimberga, di avere “offerto la base teorica della politica hitleriana del grande spazio”. Anche tenendo conto, infatti, della distinzione tra il suo concetto “razional-costruttivistico” di Grossraum, e quello di Lebensraum, - “spazio vitale” – caro ai nazisti, incentrato su valori biologico-razziali, discriminatori ed espansionisti, non ci si può sottrarre all’impressione che, almeno in un primo momento, Schmitt abbia visto opportunisticamente nel Terzo Reich il soggetto in cui la sua idea scientifico-giuridica di grande spazio e di impero acquisiva un senso politico effettuale». Più in generale, G. MIGLIO, I novant’anni di Carl Schmitt, cit., p. 24 rileva come sia «storicamente ormai accertato che gli intellettuali nazional-fascisti provarono per le tesi schmittiane la stessa diffidenza che sentivano i liberali». A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 40 rievoca invece l’opinione di A. CASSESE, I «regali avvelenati di Carl Schmitt, in «Iride», 8/1992, pp. 219-227, secondo il quale gli argomenti del Nomos della terra sarebbero «motivati dal desiderio di Schmitt di elaborare concettualizzazioni che potessero rivelarsi utili al nazismo» e «il concetto di “grande spazio” non poteva che fare il gioco di una Potenza Imperialistica come era la Germania nazista così come, del resto, l’esaltazione e la mitizzazione della dottrina di Monroe che infatti, non a caso, venne ripresa da Hitler». Anche L. ALBANESE, Schmitt, Laterza, Bari, 1996, p. 72 rileva che i giornali inglesi definirono Schmitt «l’uomo chiave della linea politica del signor Hitler» e «che non si trattasse di esagerazioni giornalistiche, è confermato dal fatto che lo stesso Hitler, rispondendo al presidente Roosvelt (28 aprile 1939) si riferì alla dottrina dei grandi spazi, alla dottrina Monroe, d quindi, implicitamente, ai lavori di Schmitt».
[11] C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi, cit., p. 147.
[12] C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 868 osserva che «la nozione di Reich implica, per Schmitt, uno spazio politico ‘striato’, recintato e ‘plurale’».
[13] C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi, cit., pp. 118-119.
[14] Ivi, p. 123, l’Autore rileva che «il significato originario della dottrina di Monroe, nell’analisi di Schmitt, era caratterizzato da tre punti: l’indipendenza di tutti gli Stati americani; il divieto di colonizzazione nel loro spazio; il divieto di intervento di potenze extra-americane nel medesimo spazio».
[15] S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 126 osserva che l’Autore «sottolinea in qualche modo sarcasticamente» come la dottrina Monroe si fosse rovesciata nel suo contrario, la «teoria britannica della sicurezza delle vie di traffico». Cfr. C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi, cit., p. 129.
[16] Ad avviso di Schmitt è, peraltro, dubbio se il principio abbia o meno carattere giuridico. Cfr. S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 126: «L’interesse a negare la giuridicità della dottrina, osserva Schmitt, stava nel fatto che in tal modo essa rimaneva sotto il controllo esclusivo degli Stati Uniti, indipendentemente dal consenso degli altri Stati. La versione originale della dottrina Monroe si riferiva allo “spazio ininterrotto” del continente americano. L’Impero britannico era invece l’antitesi di uno spazio ininterrotto, in quanto non era un “continente unito”, ma era “un collegamento politico di possedimenti territorialmente disgiunti e sparsi sui più lontani continenti”».
[17] Ivi, pp. 132 e ss.
[18] Ivi, pp. 142-143.
[19] A. DE BENOIST, Il pensiero politico di Carl Schmitt, cit., p. 50.
[20] C. GALLI, La genealogia della politica, cit., p. 872 ricorda «la strutturale impossibilità del suo [di Schmitt] pensiero di andare – su questo tema – al di là di indicazioni e allusioni». Analoga accusa di ambiguità è mossa da PORTINARO, op. cit., p. 200: «che cosa […] effettivamente si nasconda sotto questa formula dei “grandi spazi” (o sotto formule analoghe) Schmitt non ha mai chiarito in modo soddisfacente». Osserva G. GIURISATTI, op. cit., pp. 24-25 che «a sorpresa qui Schmitt smarrisce la leggendaria vocazione per le “formulazioni nette”, limitandosi – come è stato più volte notato – ad accenni, allusioni, esigenze, auspici». Secondo G. MASCHKE, Epilogo, cit., p. 503 «[…] è evidente la sua incertezza […]» e ivi, p. 511 parla di «fecondità seminale» dell’opera schmittiana.
[21] Ivi, pp. 870-871.
[22] C. RESTA, op. cit., p. 104 nota la «sorprendente cecità» di Schmitt, che non si sarebbe avveduto dell’evidenza dell’imperialismo nazista: «l’annessione dell’Austria […] e l’occupazione della Cecoslovacchia […] non gettano forse già più di un’ombra sul proclamato “rispetto di ciascun popolo”?».
[23] C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 871.
[24] C. SCHMITT, L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale, cit., p. 247. G. MASCHKE, Epilogo, cit., p. 506 osserva che, nolente Schmitt, sul piano applicativo «il grande spazio non diventò l’antitesi all’universalismo, ma finì per assomigliargli, se non altro perché dovette assumerne le forme belliche: anch’esso si trovò infatti costretto a organizzare la propria “autodifesa” nell’Atlantico e nel Pacifico».
[25] C. SCHMITT, La contrapposizione planetaria tra oriente e occidente e la sua struttura storica (1955), in E. JUNGER – CARL SCHMITT, Il nodo di Gordio. Dialogo su oriente e occidente nella storia del mondo, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 139. A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 54 rileva che per Schmitt «la tensione fra il ‘blocco comunista’ continentale e il ‘mondo libero’ di ispirazione liberale e atlantista non oppone soltanto l’Est all’Ovest, ma costituisce anche una nuova metamorfosi della vecchia opposizione della terra e del mare. L’America ha soltanto dato il cambio alla potenza inglese, mentre l’intera Eurasia ha assunto il ruolo un tempo attribuito alla Germania e alla Russia». C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 146 ritiene invece che «capitalisti e comunisti […] sono per Schmitt in realtà fratelli; sono due universalismi in guerra per il dominio del mondo, certo, ma figli entrambi di unico universalismo, di una sola delle modalità del Moderno, quella “marittima” della società e della tecnica illimitata […]».
[26]. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 54.
[27] C. RESTA, op. cit., pp. 108-109.
[28] Cfr. P. CAPPELLINI, Carl Schmitt revisited. Ripensare il Concetto di ‘Grande Spazio’ (Grossraum) in un Contesto Globale, in MECCARELLI, M. - SOLLA SASTRE, M. J. (a cura di), Spatial and Temporal Dimensions for Legal History, Frankfurt am Main, 2016, p. 178 sottolinea come, predicandosi invece tradizionalmente l’intrinseco carattere dittatoriale della nozione di ‘grande spazio’, il legame tra quest’ultimo e l’Unione Europea è sempre stato negato, ripugnando per la costruzione di Spinelli e Rossi un antecedente schmittiano, compromesso col nazismo. A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 20 ricorda come «nel 1993, in un articolo a firma Paul Piccone e Gary L. Ulmen intitolato Schmitt’s Testament and the Future of Europe […], la prospettiva schmittiana di un’Europa politicamente unita e con una forte identità culturale capace tuttavia di salvaguardare al proprio interno l’autonomia e l’indipendenza degli Stati membri, di un’Europa intesa come “grande spazio” inserito all’interno di un ordine internazionale pluralistico a sua volta basato sull’equilibrio competitivo di più Grossraüme di eguale potenza ed indipendenti tra di loro, viene considerata dai due autori un modo corretto di intendere una prospettica politica autenticamente federalista […]». C. DE FIORES, op. cit., pp. 156-157 osserva, peraltro, come l’Europa sia stata costruita secondo cadenze liberiste e liquide, e non già, come auspicato anche da Habermas, in termini di area di civiltà, portatrice di specificità che la distinguono dall’altro versante dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America.
[29] A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 23, dove si fa riferimento a G. MASCHKE, La unificación de Europa y la teoria del gran espacio, in «Carl Schmitt Studien» n. 1, 2000, pp. 75-85. G. GIURISATTI, op. cit., p. 16 rileva del resto come «[…] se c’è un elemento di continuità, in Schmitt, è il suo affetto per la terra d’Europa, la quale, a prescindere dal tentativo contraddittorio e fallimentare di egemonia da parte del nazismo, si pone a suo avviso ab origine come katechon, “forza frenante”, di fronte all’apparizione dell’Anticristo».
[30] Sull’idea di costruire un’Europa imperiale da parte della nuova destra francese, e in particolare di De Benoist, cfr. D. ZOLO, L’impero e la guerra, in www.juragentium.it, 2007, che ne pone in rilievo anche gli aspetti tuttora dubbi e critici. A. CANTARO, Il nomos preso sul serio, in «Teoria del diritto e dello Stato» 1-2/2011, p. 4 ricorda «la profonda identificazione di Schmitt con il destino dell’Europa».
[31] C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 172.
[32] P. P. PORTINARO, op. cit., p. 202. In senso conforme V. ANTONIOL, Al crepuscolo della statualità: Carl Schmitt e lo spettro di Benito Cereno, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto» 1/2018, secondo cui Schmitt «non riesce […] a fornire soluzioni definitive e soddisfacenti per descrivere la condizione post-statuale, e questo non solo ne Il nomos della terra, ma nemmeno in altre sue opere precedenti e successive. Schmitt non è, infatti, l’iniziatore di una nuova epoca, come per esempio possiamo dire di Hobbes, con riferimento alla modernità politica europea. Egli è piuttosto un pensatore ancora moderno, senza dubbio cosciente dei limiti della modernità, ma non capace di superarli. Non a caso […] si definisce come l’ultimo rappresentante dello jus publicum europaeum».
[33] G. MASCHKE, Epilogo, cit., p. 508.
[34] A. CANTARO, op. cit., p. 42.
[35] C. RESTA, op. cit., p. 108.
[36] Cfr. C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi, cit., pp. 113, laddove afferma che «nel diritto internazionale del XIX secolo si è spesso fatto ancora riferimento alla dottrina giuridica secondo cui l’equilibrio tra Stati costituisce, se non proprio il fondamento specifico, quantomeno una garanzia supplementare e contingente del diritto internazionale. Questa idea senza dubbio racchiudeva anche elementi di un certo ordinamento spaziale, e quantomeno non si limitava a escludere come non giuridica la concezione delle relazioni spaziali concrete». Queste tesi erano sostenute da Schmitt sin dagli anni Venti: cfr. G. PERCONTE LICATESE, op. cit. In proposito, può essere importante osservare come questa stessa idea di equilibrio e di ordine internazionale si accompagni alla svolta schmittiana dal decisionismo all’istituzionalismo: cfr. P. P. PORTINARO, op. cit., p. 198, ove osserva che «l’esistenza di equilibrio tra le potenze, gli imperi, i grandi spazi, tutto ciò che Schmitt abitualmente designa come Raumstruktur, rappresenta il limite oggettivo contro cui si infrange il soggettivismo apparentemente assoluto del decisionismo statale. In una parola, rappresenta la normalità di fronte allo stato d’eccezione».
[37] Sulla capacità ordinativa del concetto di ‘grande spazio’ nell’età post-moderna dubita C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., pp. 168-169: «l’organizzazione di Stati formalmente sovrani in rapporti gerarchici imperiali è tanto difficile quanto lo è bloccare i “barbari” nemici ai confini dell’Impero. Inoltre, l’elemento essenziale della globalizzazione è uno sviluppo mondiale dell’economia che male si presta, con l’interconnessione reciproca che ha generato, a subire il controllo e il confinamento della politica che l’ipotesi imperiale implica».