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Commento a «Teoria del partigiano» di Carl Schmitt

Le bellezze della natura, Granze (RO), 23 maggio 2021
Ph. Francesca Russo / Le bellezze della natura, Granze (RO), 23 maggio 2021

Indice

1. Genealogia del concetto

1.1 La Spagna antinapoleonica e Clausewitz

2. Caratteri del partigiano

3. Figure e teorici della guerra irregolare

3.1 Lenin e Stalin

3.2 Mao Zedong

3.3 Raoul Salan

4. Nuove implicazioni della guerra partigiana

5. Partigiano bifronte

6. Il corsaro e il pirata

7. Il terrorista

 

Abstract

Il saggio analizza l’opera di Carl Schmitt ‘Teoria del partigiano’, ripercorrendone l’impianto fondamentale e saggiandone l’attualità. In particolare, viene discussa l’applicabilità delle categorie schmittiane al concetto di terrorista, che ha conquistato centralità teorica nella dimensione politica odierna.

 

1. Genealogia del concetto

La Teoria del partigiano, elaborata come integrazione a Il concetto di ‘politico’, è del 1963, all’apice della tensione della guerra fredda.

Non è casuale che l’opera nacque da due prolusioni tenute in Spagna: terra d’origine della guerrilla e sede della dittatura franchista, che aveva arrestato l’avanzata universalista del comunismo internazionale[1].

Schmitt aveva già stigmatizzato, in diverse opere, il duopolio USA-URSS, ritenendo entrambe le superpotenze depositarie di una visione universalista e impregnata di filosofia della storia[2]. È in questo contesto storico e intellettuale che Schmitt si dedica alla figura del partigiano, il combattente irregolare che, a difesa del proprio territorio, insidia l’egemonia capitalista o sovietica. Schmitt intende disegnarne una teoria, quindi una ricostruzione scientifica e critica, esente da posizioni ideologiche[3].

In questo senso, si distanzia dall’opera dello scrittore ed amico Ernst Jünger, Trattato del ribelle[4], che si concentra sulla resistenza dell’individuo ad un potere statale sempre più pervarsivo attraverso il «darsi al bosco».

Jünger delinea la figura di un partigiano della libertà, contro la prevaricazione diffusiva del potere tecnico-centralizzato. Analizza gli arcana imperii, che propiziano la nascita dell’archetipo del Lavoratore, inserito in una catena di montaggio e ingabbiato nel meccanismo del controllo sociale. Accanto al Lavoratore si erge il Milite Ignoto, destinatario di devozione e simbolo dell’abnegazione, sino all’estremo sacrificio, per il sistema. A questi idealtipi si contrappone il Ribelle, che riesce a conservare la propria libertà, opponendosi al Leviatano. È interessante osservare come per Jünger il numero non vada stimato in termini matematico-astratti, bensì qualitativi[5]. Pochi Ribelli, consapevoli e determinati, possono insidiare una potente dittatura, che proprio per questo si dota di organi di polizia sempre più diffusi e occhiuti[6].

Il Ribelle, dunque, «si dà al bosco», intendendosi con tale formula l’adesione a una visione di libertà, non solo interiore ma anche praticata, attraverso l’abbandono della paura.

Jünger esprime, insomma, un giudizio di valore sul Ribelle: lo ritiene esempio dell’essere umano liberato dalla paura, vagamente superomistico, in grado di opporsi allo scatenamento di un mondo tecnicizzato e di assumersi la responsabilità delle sue azioni contro il potere costituito.

In questo sta la forte divaricazione rispetto al pensiero schmittiano, che punta a una ricostruzione scientifico-sistematica del ‘partigianato’, indagandone la natura politica su un piano di neutralità assiologica[7]. Va tuttavia ammesso che Schmitt manifesta una certa simpatia per il partigiano, in quanto essere terraneo.

Al di là di questi profili di metodo e di oggetto, non si può disconoscere un legame tra le due opere e il pensiero degli autori.

Anzitutto, essi hanno la medesima postura intellettuale aperta al rischio[8].

Viene espressa la comune ammirazione per la rivolta antinapoleonica spagnola, evocata come antecedente sia del Ribelle, sia del partigiano[9].

Innegabile pare anche l’influenza schmittiana su Jünger, allorché questi riflette sull’utilità di un’opposizione nei regimi dittatoriali allo scopo di individuare un ‘nemico’[10].

Né è trascurabile la posizione critica di Jünger e Schmitt rispetto all’universalismo aggressivo delle due superpotenze, il cui dualismo potrebbe debordare in una guerra civile mondiale[11].

Affascinante è – infine – il simbolismo terra-mare in Jünger. Se per Schmitt lo Stato è eminentemente terraneo, in Jünger esso diviene una nave – il Titanic – mentre il bosco è la patria d’elezione del Ribelle[12]. In realtà, a meglio guardare, entrambi gli autori reputano la terra justissima tellus, e la nave un artificio tecnicizzato. Ma per Jünger è tale lo Stato, nella sua versione novecentesca totalitaria e dittatoriale.  

 

1.1. La Spagna antinapoleonica e Clausewitz

Schmitt principia la sua analisi da una genealogia del partigiano, la cui origine colloca nella Spagna ottocentesca al tempo dell’invasione napoleonica (1808-1813). Gli spagnoli, – animati dai loro trecentomila preti, nell’irritata lettura dell’Empereur[13] – avviarono una guerrilla, una piccola guerra, fatta di operazioni irregolari dirette a mettere in difficoltà logistiche l’armata francese.

Questa resistenza spagnola ebbe vasta eco in Prussia, tanto da essere considerata a fini di dottrina militare da Von Clausewitz, Gneisenau e Scharnorst, i vertici, anche intellettuali, dell’esercito.

Ne sortì un memorandum-proclama di Clausewitz (1812), in cui si professava la necessità di armare il popolo per una resistenza diffusa e irregolare all’invasore francese[14].

Clausewitz, in questo suo scritto, elegge il nemico in Napoleone, contro il quale evoca un’ostilità illimitata, che non rispetta le distinzioni regolarità-irregolarità, militare-civile, guerra-pace[15].

È in ciò che si manifesta l’indissolubile legame tra il ‘partigiano’ e il ‘politico’. La lotta partigiana è la radicalizzazione della decisione politica orientata contro un nemico esiziale, che a sua volta risponde alla guerriglia con altrettanta illimitata violenza:

la situazione del partigiano spagnolo del 1808 è caratterizzata prima di tutto dal fatto che egli s’impegnava nella lotta […] mentre il suo re e la famiglia di quest’ultimo non sapevano ancora chi fosse il vero nemico[16].

Del resto, tanto la guerra partigiana si accende e sviluppa, quanto la guerra trasmuta da confronto bellico regolato tra justi hostes a conflitto s-regolato, segnato dal disconoscimento del nemico e dalla sua degradazione a criminale. Finché ha retto lo jus publicum europaeum, dunque, il partigiano non poteva che rimanere una figura marginale, come lo è stato effettivamente nel corso dell’intera prima guerra mondiale[17]. […]

In Prussia – coerentemente con questa premessa, e nonostante un editto regio dell’aprile 1813, rapidamente rivisto – il piano di guerriglia non sarà mai attuato, anche per tema che la legittimità democratico-popolare ad esso sottesa potesse insidiare quella dinastica, da sempre presidio della monarchia degli Hohenzollern[18]. Vengono, però, gettate le basi teoriche della guerra partigiana, che saranno raccolte da Lenin.

Al contrario, la Russia conobbe forme di lotta partigiana antifrancese nel 1812, allorché militari guidarono la popolazione nelle azioni di disturbo dell’avanzata napoleonica alla volta di Mosca e, poi, nell’annientamento dei contingenti rimasti isolati durante la disastrosa ritirata verso la Francia. Questa esperienza «mitopoietica»[19] sarà funzionale alla resistenza antinazista diretta da Stalin.

 

2. Caratteri del partigiano

Schmitt, tradendo un metodo ricostruttivo di carattere giuridico, identifica gli elementi costitutivi del partigiano[20]. Si tratta, in particolare, dell’irregolarità; della politicità; della mobilità; della telluricità[21].

Riguardo l’irregolarità, essa può essere compresa per viam negationis:

il carattere «regolare» si manifesta nell’uniforme, che è qualcosa di più di una tenuta da lavoro, perché è simbolo di un’autorità che viene accresciuta dall’ostentazione delle armi. Il soldato nemico in uniforme è il vero e proprio bersaglio del partigiano moderno[22].

La regolarità si traduce nell’uniforme, nei distintivi, nell’osservanza delle regole della guerra formalizzata. L’irregolarità, invece, è appunto l’essere hors la loi[23], con, tra le altre, la conseguenza di essere privi di tutele legali davanti al nemico regolare.

Va comunque chiarito che, ad avviso di Schmitt, risulta essenziale per il partigiano un collegamento con un’autorità regolare[24]. L’esempio spagnolo dell’Ottocento soccorre: il movimento antinapoleonico trovava la propria legittimità nella monarchia ma dipendeva in concreto dall’appoggio delle truppe britanniche. Il sostegno del «terzo interessato», di una «potenza regolare» – in quel caso l’Inghilterra – è fondamentale per due ordini di ragioni: sul piano dell’approvvigionamento dei mezzi, ma, soprattutto, su quello della legittimazione[25].

Infatti, il potente terzo non fornisce soltanto armi e munizioni, denaro, sussidi materiali e medicinali di ogni tipo, ma procura anche quel riconoscimento politico di cui il partigiano che combatte irregolarmente ha bisogno per non sprofondare, come grassatore o il pirata, nel non politico, che qui significa nel criminale. A lungo andare l’irregolare deve legittimarsi orientandosi verso il regolare; e per questo gli si offrono due sole possibilità: il riconoscimento da parte di un regolare già esistente, oppure far valere una nuova regolarità con le proprie forze[26]

Del resto, il potenziamento degli strumenti bellici va rafforzando sempre più il ruolo del terzo interessato, in quanto accentua la dipendenza del partigiano dal sostegno logistico di un potente alleato.  

L’impegno politico differenzia poi il partigiano

dal comune delinquente e dal rapinatore, mossi dall’unico scopo del lucro personale. Il criterio concettuale del carattere politico ha (esattamente agli antipodi) la stessa struttura di quello del pirata […]. Il pirata ha, come dicono i giuristi, l’animus furandi. Il partigiano combatte entro uno schieramento politico, e proprio il carattere politico delle sue azioni riporta al significato originario della parola partigiano. Questo termine deriva infatti da partito […][27].

Del resto, partigiano deriva da parte e trova il suo verbo in parteggiare[28]. È dunque politicamente schierato, riconoscendo nel partito un’entità totalizzante. È una conferma della tesi schmittiana della priorità della politica rispetto allo Stato e del rischio di emersione di un soggetto politico oltre lo Stato, che ne minacci così la tenuta costituzionale[29]. Il partigiano è, in questo, un drammatico esempio.

In questo senso, Alain De Benoist rileva che in Carl Schmitt la figura del partigiano è fondamentale, perché costituisce una perfetta dimostrazione del fatto che lo Stato e la politica non sono necessariamente sinonimi, ma al contrario che possono separarsi. Il partigiano, in effetti, conduce una battaglia eminentemente politica, ma questa viene esercitata al di fuori del controllo statale e persino generalmente contro lo Stato. L’azione dei partigiani dimostra che ci sono delle guerre diverse dalle guerre interstatali e dei nemici che non sono degli Stati[30].

Altro carattere, la mobilità, consiste nella «celerità, attacchi e ritirate a sorpresa, in una parola la massima agilità»[31]. Il partigiano è – secondo Schmitt – imprevedibile per i suoi stessi superiori: l’imprevedibilità con cui il partigiano compare, è soprattutto a questo a cui si deve pensare quando si parla di mobilità. Anche quest’aspetto ha direttamente a che fare con lo svincolamento del partigiano da prescrizioni regolari, in particolare dall’uniforme. Un uomo che può cambiare uniforme o anche soltanto un distintivo obbligatorio è mobile. Quando parliamo di mobilità non dobbiamo pensare soltanto agli spostamenti sulla terra o, che ne so, in aria nel senso in cui vola un aereo, ma dobbiamo saper pensare insieme anche la mobilità di un rapido cambio, la mobilità nel modo di entrare in scena. È un termine importantissimo: contiene di fatto la superiorità del partigiano rispetto all’avversario in uniforme, vale a dire rispetto a quell’avversario reso pubblicamente conoscibile[32].

Il carattere tellurico implica «la posizione fondamentalmente difensiva del partigiano, il quale si snatura quando si identifica con l’aggressività assoluta di un’ideologia tecnicizzata o di una rivoluzione mondiale»[33]

Per il partigiano il legame con la terra, con la popolazione indigena e con le particolarità geografiche del paese – montagne, foreste, giungla o deserto – non ha perso nulla della sua attualità. Il partigiano è e resta nettamente distinto non solo dal pirata, ma anche dal corsaro, così come la terra e il mare rimangono distinti quali spazi dell’attività umana e del contrasto bellico fra i popoli[34].

A Schmitt non sfuggiva come l’universalismo ideologico di Occidente e Oriente e l’accresciuta tecnologizzazione sminuissero la portata della terraneità, accentuando invece la mobilità del partigiano.

Tuttavia, pur ammettendo questi indubbi mutamenti tecnico-militari e culturali, l’Autore confermò la definizione teorica appena esposta.

È stato anzi osservato come la guerra fredda e l’astratta ideologizzazione dello scontro nucleare tra gli opposti universalismi USA-URSS trovasse un contrappunto proprio nei movimenti partigiani, strategicamente territorializzati e orientati a uno spazio concreto da difendere[35].

D’altronde, Schmitt non nascondeva l’intima duplicità del fenomeno partigiano. Da un canto, espressione di una fedeltà tellurica, connotata da un’ostilità relativa e limitata, disordine proiettato verso l’ordine statuale. Dall’altro, esso assurge a strumento di battaglie universalistiche, portatrici di inimicizie assolute, radicalmente distruttrici dell’ordine statuale in nome di una visione ideologica monista.

Questo carattere multiforme del partigiano è evidenziato da Michele Nicoletti, che afferma come

nella storia contemporanea si possono distinguere due tipi diversi di partigiano: «il tipo del difensore autoctono del suolo nazionale e il tipo dell’attivista rivoluzionario che ha per campo d’azione il mondo intero». Entrambe queste figure si situano al di fuori della logica della politica e della guerra statale, ma mentre il primo, colui che conduce una lotta per l’indipendenza nazionale, si colloca su un piano pre-statuale in quanto mira a alla costituzione di un proprio stato indipendente, il secondo invece si pone su di un piano che potremmo definire post-statuale, nel senso cioè che lotta per un ordine sociale e politico nuovo che supera i confini dello stato moderno. È questo il caso del combattente rivoluzionario per il quale lo stato non esercita più il monopolio del politico, nel senso che il suo referente politico – ciò che gli dà identità e lo vincola – non è più lo stato, ma il partito[36].

 

3. Figure e teorici della guerra irregolare

3.1. Lenin e Stalin

La linea di sviluppo del concetto di partigiano trascorre – secondo Schmitt – da Clausewitz a Lenin.

Agli spagnoli dell’Empecinado era mancato il necessario substrato teorico per la costruzione di una teoria pratica del partigiano, e cioè per coniugare pensiero e azione.

Per contro, la Prussia, pur avendo edificato solide basi concettuali della nozione, mancava dell’elemento personale per dar luogo ad una guerriglia partigiana. Troppo forte era, nella temperie culturale dell’Ottocento prussiano, lo jus publicum europaeum per tollerare un’invasione anomica del puro ‘politico’ oltre lo Stato, referente primo e ultimo della politicità e – quindi – della guerra.

Fu invece Lenin, rivoluzionario di professione – a differenza degli speculatori puri Marx e Engels – a dare concretezza alla teoria del partigiano, mediante la radicalizzazione del rapporto Freund-Feind:

Lenin fu il primo a vedere nel partigiano una figura decisiva della guerra civile nazionale e internazionale, e che cercò di trasformarlo in efficace strumento agli ordini della direzione centrale del partito comunista[37].

Lenin escludeva il ricorso a qualsivoglia indirizzo riformista parlamentarista, ritenendo necessario dar luogo a una lotta armata senza quartiere, da condurre nell’irregolarità e nell’illegalità. È la sottrazione allo Stato del monopolio del politico ad opera del partito armato. Anzi, «solo la guerra rivoluzionaria è, per Lenin, vera guerra, perché nasce dall’inimicizia assoluta. Il resto è gioco convenzionale»[38]. La sua grandezza, per Schmitt, sta nell’aver individuato il suo nemico assoluto, il capitalista borghese e il suo ordine sociale, contro il quale muove una guerra illimitata:

L’alleanza della filosofia con il partigiano realizzata da Lenin scatenò inaspettatamente nuove, esplosive forze, producendo niente di meno che il crollo dell’intero mondo eurocentrico, che Napoleone aveva sperato di salvare e il Congresso di Vienna di restaurare.

La cultura russa del partigiano – dopo la presa di potere della rivoluzione d’ottobre – ebbe un momento di nuova gloria nel secondo conflitto mondiale, allorché partigiani sovietici travagliarono le retrovie tedesche nell’operazione Barbarossa[39]. Qui

Stalin riuscì a combinare il forte potenziale della resistenza nazionale e patriottica – vale a dire la forza tellurica, essenzialmente difensiva, contro un invasore straniero – con l’aggressività della rivoluzione comunista mondiale[40].

 

​​​​​​​​​​​​​​3.2. Mao Zedong

Un livello superiore nell’elaborazione teorica e nella conduzione pratica di una guerra partigiana fu raggiunto da Mao Zedong, a partire dalla sua Lunga Marcia, protrattasi per ben 12.000 km nella Cina rurale[41]. Questo «nuovo Clausewitz»[42] era stato il teorizzatore della nazione in armi, da intendersi in un’accezione assai più intensa rispetto all’analoga visione degli ufficiali dello stato maggiore prussiano, giacché era intanto stato superato ogni limite convenzionale all’inimicizia.

Secondo Schmitt, Mao è il condottiero che si avvicina più di chiunque altro al modello puro del ‘partigiano’.

La rivoluzione di Mao ha un fondamento più tellurico di quella di Lenin. L’avanguardia bolscevica che si impadronì del potere in Russia nell’ottobre del 1917 sotto la guida di Lenin mostra grosse differenze nei confronti dei comunisti cinesi che raggiunsero finalmente il potere nel 1949 – dopo una guerra ultraventennale –, differenze sia nella struttura interna dei gruppi sia nei rapporti con il paese e con il popolo di cui si impadronirono […]. I bolscevichi russi del 1917, dal punto di vista nazionale, erano una minoranza «guidata da un gruppo di teorici la cui maggioranza era composta da ex emigranti». Nel 1949 i comunisti cinesi sotto la guida di Mao e dei suoi amici avevano già alle spalle due decenni di lotte sul proprio suolo nazionale contro un avversario interno – il Kuo Min Tang –, condotte sulla base di una gigantesca lotta partigiana[43].

Fu questa travagliata esperienza, vissuta soprattutto nella realtà rurale del Paese, a segnare il volto del maoismo e a rendere la guerriglia cinese diversa da quella bolscevica, ancora elitaria e avanguardista.

Il carattere tellurico del partigiano cinese risiede anche negli obiettivi politici maoisti, che realizzano una complexio oppositorum tra la rivoluzione marxista, a vocazione universale, e la difesa del suolo cinese.

In questa prospettiva, anche alla luce delle posizioni antisovietiche di Mao, Schmitt intravede nella sua figura un’adesione implicita alla teoria dei grandi spazi, testimoniata dal rifiuto dell’universalismo – patrocinato dalle due superpotenze industrial-coloniali di Ovest ed Est.

L’assolutizzazione del nemico è assai più chiara e concreta in Mao rispetto a Lenin. Il primo, a differenza del secondo, identifica il nemico non solo nel borghese, ma anche nel bianco sfruttatore, nell’invasore giapponese, nel connazionale del Kuo Min Tang. Ed è per questo che la sua teoria partigiana rappresenta un livello superiore di intensità.

 

​​​​​​​​​​​​​​3.3. Raoul Salan

Altra figura presa in considerazione da Schmitt, Salan era stato un giovane ufficiale nelle colonie francesi, ove aveva appreso le tecniche di guerriglia autoctone. Era poi divenuto comandante generale delle truppe di stanza in Algeria e – nel 1958 – aveva appoggiato Charles De Gaulle. Allorché questi, però, aveva deciso di rinunciare alla sovranità francese sull’Algeria, Salan aderì all’OAS[44] (1961) e, come suo vertice, condusse una campagna di terrore nei confronti degli algerini e degli stessi suoi connazionali nel territorio metropolitano. Fu per questo catturato e condannato all’ergastolo.

Salan rappresenta l’estremo frutto della teoria del partigiano. Non era un rivoluzionario di professione, ma – appunto – un alto ufficiale. E come Clausewitz e lo stato maggiore prussiano, pur conoscendo teoricamente la guerriglia e le sue tecniche, non poté dismettere la propria uniforme di uomo dello Stato e trasformarsi in un cospiratore. Schmitt chiarisce come la frontiera possa essere traversata solo dal lido dell’irregolarità a quello della regolarità, e non viceversa. Salan agì, dunque, da alto ufficiale, anche quando al vertice dell’OAS, senza dunque accedere pienamente alla logica partigiana.

Altro limite della guerrilla dell’OAS era la carenza del riconoscimento di un terzo interessato[45] e, comunque, di qualunque legittimità. In una repubblica, infatti, la legittimità non può che coincidere con la legalità: a nulla valse invocare la nazione contro lo Stato e il diritto contro la legge. Sicché

La posizione di Salan […] naufragò tragicamente perché a livello di politica interna, in patria, divenne illegale, e all’esterno, nella politica mondiale, non solo non trovò nessun terzo interessato, ma al contrario cozzò contro il fronte compatto dell’anticolonialismo[46].

L’OAS si trovò tra due fuochi anche quanto alla decisione sul nemico[47]. L’Organizzazione dichiarò guerra sia all’Algeria (una guerra tanto regolare quanto irregolare) che alla Francia (una guerra irregolare e illegale). E la particolare drammaticità di militari che dichiarano guerra e si volgono come nemici contro i propri commilitoni aiuta anche a comprendere il fallimento della rivolta degli ufficiali, dovuto anche a questa intrinseca contraddittorietà.

 

4. Nuove implicazioni della guerra partigiana

La moderna guerra partigiana ha implicazioni plurali con lo spazio; la tenuta sociale; il contesto politico mondiale; l’avanzamento della tecnica.

Il partigiano è un combattente irregolare e – nella sua tipicità – illegale. Già questa sua primaria caratteristica implica una rivoluzione spaziale di cui deve aversi conto. Il partigiano altera la dinamica bellica tradizionale, mutando il teatro di guerra. Le incursioni, le azioni di disturbo, i diversivi rappresentano un indubbio ampliamento dello spazio operativo, sovvertito dal nuovo attore militare. Come osserva Schmitt, è come se si aggiungesse la dimensione della profondità[48]. In questo senso, l’Autore traccia un parallelo col sottomarino. Anch’esso modifica lo spazio marittimo, includendo in quell’ambiente operativo le profondità del mare. Non casualmente, allora, i combattenti regolari di terra e di mare hanno condannato, rispettivamente, il partigiano e il sottomarino: dietro questa moralistica censura si nascondeva piuttosto la sorpresa per un’inattesa rivoluzione spaziale.  

Sotto il profilo sociale, il partigiano ambisce a deteriorare il tessuto connettivo della comunità. Solo attraverso una tensione interna egli può scatenare la logica amico-nemico dentro l’ordinamento, vanificando la spoliticizzazione realizzata dallo Stato. È in questa prospettiva che si comprende l’interesse dei partigiani a provocare sanguinose rappresaglie contro la popolazione civile da parte dell’esercito regolare, nonché il costante tentativo di indebolimento e delegittimazione dell’amministrazione – civile o militare – nemica. 

Ad avviso di Schmitt,

basta riflettere a fondo su questa logica terroristica e controterroristica e applicarla poi a ogni tipo di guerra civile per vedere con chiarezza la disgregazione delle strutture sociali oggi in atto. Bastano pochi terroristi per mettere sotto pressione grandi masse. Allo spazio dell’aperto terrore si aggiungono quelli ulteriori dell’insicurezza della paura e della diffidenza generale […][49].

Riguardo, invece, al profilo della politica mondiale, è da sottolineare come, ad avviso di Schmitt, l’universalismo (nel caso di specie comunista) stesse incidendo sull’ontologia stessa del partigiano, depotenziandone il carattere difensivo e asservendolo a fini umanitari-escatologici estranei alla sua natura terranea. La centralizzazione di un potere rivoluzionario mondiale, cui è peraltro condizionato il rifornimento logistico dei partigiani, ne scalfisce così la telluricità, inscrivendoli in un ordine mondiale che non gli è proprio[50].

Nella misura in cui il partigiano si motorizza, perde il suo terreno naturale e aumenta la sua dipendenza dai mezzi tecnico-industriali di cui necessita per la sua lotta. Con ciò cresce anche il potere del terzo interessato, che alla fine raggiunge dimensioni planetarie[51]

Con riferimento, infine, alla tecnica, Schmitt osserva che i partigiani sono costretti a dotarsi di armi sempre più sofisticate per competere con gli eserciti regolari. Peraltro, a suo avviso, l’evoluzione militare non eliminerà il partigiano, giacché questi, autentica figura dello spirito universale, potrà riproporsi in contesti anche assai differenziati. L’equilibrio del terrore, scriveva l’Autore, avrebbe potuto favorire – e in effetti ha favorito – una cautelativa rinuncia all’utilizzo dell’ordigno atomico da parte delle grandi potenze e la contestuale creazione di aree di conflitto a intensità controllata (dog-fights).

 

5. Partigiano bifronte

Carl Schmitt elabora la teoria del partigiano come integrazione al concetto di ‘politico’. Con ciò – si è ricordato – evidenzia immediatamente la stretta connessione tra questo tema e la generale categoria che lo ha impegnato sin dal primo periodo della sua speculazione teorica.

Può comprendersi questo legame movendo dalla definizione schmittiana del concetto di ‘politico’. La teoria del partigiano vi si sussume in ragione dell’estremizzazione del nesso Freund-Feind. Il partigiano elegge un ‘vero nemico’ e la sua ostilità si traduce in una lotta irregolare e illegale.

Al conflitto partigiano è dunque inerente un’intensificazione dell’ostilità. L’irregolarità si traduce nell’alterazione dell’ordine della guerra di gabinetto, con il superamento dei limiti convenzionali ad essa posti dallo jus publicum europaeum. È questo un carattere che si rinviene sin dai tempi della guerriglia dell’Empecinado. In quanto tale, la guerra partigiana rappresenta, in sé, un vulnus alla guerra-duello, provocando una inevitabile escalation di violenza[52].

Come scrive Portinaro,

nell’impossibilità di distinguere in modo univoco tra guerra partigiana, guerra rivoluzionaria, guerra civile, guerra coloniale, emerge in modo inequivocabile la distanza che ormai separa questo insieme di fenomeni di ostilità dell’età contemporanea dalle situazioni classiche dello jus publicum europaeum.

La guerra partigiana, dunque, è eversiva dell’ordine statuale, spossessando la machina machinarum del monopolio del politico e determinandone la crisi.

Al riguardo, Emanuele Castrucci afferma, in relazione a questo tipo di conflitto, che

si rivivono quegli aspetti della guerra civile che l’epoca della statualità era riuscita faticosamente ad abolire. Lo Stato garante della pace interna e signore della guerra esterna ha cessato definitivamente di esistere[53].

Ma la guerra partigiana ha, per Schmitt, anche un altro valore, che potrebbe dirsi ‘catecontico’ rispetto alla mondializzazione del conflitto. Il partigiano ha infatti vocazione difensiva e terranea, e rappresenta dunque un argine rispetto a visioni planetarie e ideologizzanti della guerra[54].

La sua telluricità, tuttavia, sta venendo compromessa dai mutamenti dello scacchiere internazionale e dell’avanzamento tecnologico.

Schmitt rileva che la centralizzazione comunista delle istanze rivoluzionarie stava incidendo profondamente sulle lotte partigiane, conferendo loro una propensione globalizzante che le sradicava dal proprio humus naturale.

D’altro canto, il partigiano ‘motorizzato’ era sempre più dipendente per la logistica dai terzi interessati, ciò che gradualmente lo stava privando del proprio centro gravitazionale terraneo.

L’evoluzione degli armamenti corrobora questa tendenza. L’utilizzo di armi sempre più sofisticate, anche a grande distanza, va rarefacendo il rapporto partigiano-territorio, rendendo quello piuttosto un soldato globale.

Queste evoluzioni della figura determinano il transito da un nemico ‘vero’ e determinato, ma ‘relativo’, ad un nemico ‘assoluto’.

Tradizionalmente, infatti, il partigiano dirigeva la propria inimicizia avverso l’invasore a difesa del suolo patrio: la sua inimicizia era dunque contingente e legata alla peculiare situazione storico-territoriale. Con l’affermazione dell’ideologia universalista marxista, invece, l’inimicizia si assolutizza, svincolandosi dalla concretezza della storia e ascendendo all’iperuranio dei concetti[55].

Questo illimite del conflitto si manifesta anche in ragione della nuova disponibilità di armi di distruzione di massa, che esigono – per l’asimmetricità e il nichilismo che le contraddistinguono – la de-umanizzazione del nemico: sia esso il regolare, sia esso il partigiano[56].

Può allora dirsi che, per Schmitt, il partigiano è bifronte.

Da un canto, per la propria irregolarità, egli attenta all’ordine dello jus publicum europaeum, il diritto che ha infrenato la violenza discriminatoria e senza limiti del bellum justum.

Dall’altro, però, «sentinella della terra»[57], è un elemento tellurico, propenso alla relativizzazione del nemico e all’invocazione di principi politici spazialmente determinati. Queste ultime caratteristiche del partigiano erano tuttavia poste a repentaglio dalla rivoluzione mondiale, che ne faceva un soldato globale al servizio delle superpotenze.

Schmitt, anche alla luce di queste considerazioni, riconosceva come il fenomeno osservato andasse mutando rapidamente, e come quindi la sua teoria fosse suscettibile di revisioni e aggiornamenti[58].

 

6. Il corsaro e il pirata

È evidente che Schmitt, teorico dell’eccezione, concentra la propria attenzione sugli istituti liminari, che rappresentano la negazione della regola[59].

In questa prospettiva, non sfugge come abbia dedicato pagine importanti al corsaro e al pirata[60], istituzioni irregolari come il partigiano.

È allora forse opportuno tracciare dei paralleli tra queste figure, allo scopo di comprendere se sussistano o meno tra loro delle analogie.

Va anzitutto premesso che il corsaro è un privato dotato di una lettera da corsa del suo sovrano, che pone dei (blandi) confini al suo diritto di preda. Egli è dunque un irregolare quanto ai modi della guerra – estesa ai civili e ai neutrali – e alle finalità apolitiche della sua azione, consistenti nell’arricchimento del capitalismo da rapina, ma non in senso tecnico-giuridico, essendo provvisto di un titolo giuridico per le sue scorrerie[61].

Il pirata è invece lo schiumatore del mare privo di qualsiasi titolo o bandiera, salvo – appunto – quella nera della pirateria. Si identifica pienamente con l’anomia del suo elemento, versando nella più radicale illegalità e illegittimità[62]. È per questo hostis humani generis, destinato alla forca se catturato[63].

Alla stregua di queste considerazioni, emerge come il partigiano non sia ragguagliabile a nessuno dei due tipi marinari sopra descritti.

Rispetto al corsaro, infatti, manca di una patente di legittimità di un sovrano. Certo, di solito gode dell’appoggio di un terzo interessato: ma ciò non ne legittima l’azione, avendo soltanto un rilievo politico. Il partigiano è tout court irregolare: sia quanto ai mezzi di guerra, sia quanto al difetto di un titolo giuridico. Peraltro, il corsaro – come detto – è guidato da ambizioni di locupletazione privata, sebbene sotto la bandiera del proprio Paese. Al contrario, il partigiano – pur irregolare – è spinto da un movente ideale.

Il partigiano è, dunque, distinto dal corsaro,

così come la terra e il mare rimangono distinti quali spazi elementari dell’attività umana e del contrasto bellico fra i popoli. La terra e il mare non solo hanno prodotto mezzi strategici diversi, non solo teatri di guerra differenti, ma anche concetti differenti di guerra, nemico e bottino. Il partigiano rappresenterà dunque un combattente attivo di tipo specificamente terrestre, almeno fintantoché esisteranno guerre anticoloniali[64].

Ma il partigiano non è neppure un pirata di terra. A differenza del pirata, mosso dal solo animus furandi in una primordiale elementarità marina[65], il partigiano agisce a scopo prettamente politico e su un terreno limitato. Se quest’ultimo può invocare una qualche legittimità, il pirata non può mai. E in questo sta la profonda differenza tra l’irregolare di terra e quello di mare[66]. In questa prospettiva, [il] marcato carattere politico va tenuto in considerazione, proprio perché differenzia il partigiano dal comune delinquente e dal rapinatore, mossi dall’unico scopo del lucro personale. Il criterio concettuale del politico ha (esattamente agli antipodi) la stessa struttura di quello del pirata del diritto di guerra marittima, il cui concetto prevede il carattere apolitico delle sue malefatte, tese al bottino e al guadagno privato[67].

In questo senso, Portinaro osserva che L’intensità dell’impegno politico consente invece di distinguere il partigiano dal bandito e dal pirata che, rispettivamente in terra e in mare, perseguono l’unico scopo del lucro personale[68].

Non basta, dunque, la comune irregolarità per fondare un genus comune a partigiano e corsaro, appartenenti a due elementi irriducibili tra loro: «la contrapposizione tra terra e mare resta troppo grande»[69].

 

7. Il terrorista

È chiaro che – dall’11 settembre 2001[70] – una nuova figura ha definitivamente fatto irruzione nel teatro della storia: il terrorista globale[71].

Secondo Alain De Benoist, il terrorismo non è più un fenomeno nuovo. Ciò che invece è nuovo è il posto centrale che esso occupa (o che gli è attribuito) ai nostri giorni sulla scena internazionale[72].

Ne consegue l’esigenza teorica di affrontare il tema secondo le lenti interpretative Schmitt.

Sul piano etimologico, il terrorismo origina dalla Rivoluzione francese e i terroristi erano combattenti regolari, i quali, per affermare l’ideale sanculotto, inaugurarono un regime di violenza politica contro la classe moderata[73]. È solo dall’Ottocento che la voce trasmoderà in un’accezione antistatale e recisamente negativa (il terrore robespierriano si autodefiniva tale, così escludendo una connotazione deteriore – almeno nelle intenzioni – del termine). Da allora, il terrorismo si attaglierà a fenomeni antistatali, mentre l’azione dei governi – come le dittature nazista e comunista – sarà definita terrore.

Il terrore giacobino, del resto, coincide anche con la levée en masse e con il superamento della guerra di gabinetto. Si instaura il paradigma del popolo in armi e – soprattutto – la guerra viene combattuta non più tra sovrani eguali, dotati di ragioni insindacabili dall’esterno, ma in nome di valori assoluti, per la cui affermazione è ammessa una violenza illimitata[74].

Il terrorista tout court è colui che muove una violenza indiscriminata per costringere un organo pubblico ovvero soggetti privati ad aderire alle sue richieste. Ne consegue che anche il partigiano può essere un terrorista, laddove eserciti il terrore sul proprio territorio per il conseguimento di scopi tellurico-difensivi.

È per questa ragione che sembrerebbe dotato di portata euristica soltanto il concetto di terrorista globale, esito della parabola di “deterraneizzazione” del partigiano descritta da Schmitt[75].

Il terrorista globale, infatti, è sicuramente irregolare, mobile e politicizzato, ma ha perduto la telluricità. Si batte per ideologie universali, sradicate dal territorio.

Peraltro, la frontiera tra “resistenti” e “terroristi” è apparsa tanto più porosa in quanto certi paesi devono in parte la loro nascita o la loro indipendenza a un ricorso al terrorismo, e in quanto certi avvenimenti o cambiamenti di regime hanno portato al potere ex-terroristi, trasformandoli all’improvviso in validi interlocutori o in rappresentati rispettati nel loro paese. Gli ex-terroristi Menahem Begin e Itzhak Shamir, che si erano fatti una fama negli attentati contro dei civili arabi prima della proclamazione dello Stato di Israele, sono saliti in seguito alle più alte cariche del loro paese. Così anche per dirigenti algerini o sud-africani, per Ahemed Ben Bella o Nelson Mandela[76].

In tema, occorre prendere in considerazione l’osservazione di Franco Volpi, che ipotizza che la storia abbia prodotto lo sradicarsi del partigiano da una collocazione territoriale, il suo organizzarsi sul piano internazionale e il suo operare ovunque e in qualsiasi modo possa colpire interessi nemici […]. E questo non per un’arbitraria escalation della violenza, bensì per combattere con maggiore efficacia in una situazione d’inferiorità in cui altrimenti avrebbe partita persa[77].

In realtà, l’elemento tellurico può essere conservato sul piano concettuale a circoscrivere la figura del partigiano, a patto che per terraneità si intenda un orizzonte di senso, un’appartenenza e un fine ultimo del partigiano, e non invece un mero teatro operativo.

In questo senso – tralasciando ogni considerazione morale – gli attentatori di Settembre Nero del 1972 resterebbero ancora partigiani, sebbene assumendo una postura aggressiva extra-territoriale.

Al contrario di Carlos[78], che assume i caratteri del terrorista globale, del tutto sradicato dalla terra e puro combattente ideologico.

A questo ultimo schema parrebbero corrispondere anche i terroristi islamici di Al Qaeda[79]. Anch’essi muovono una guerra globale, esente da riferimenti territoriali, puramente ideologico-religiosa[80].

In senso parzialmente contrario, tuttavia, Pietro Montanari rileva che anche il terrorismo suicida, apparentemente globale e nichilistico, sarebbe terraneo, in quanto sorretto da una logica di liberazione del proprio territorio dalla presenza neocoloniale, economica e culturale, di potenze straniere[81].

La deterritorializzazione e la tecnica scatenata si manifestano con tutta evidenza nell’attentato dell’11 settembre 2001, condotto dall’aria[82] su territorio straniero, in nome di un astratto jihad universale[83].

Anche questo fronte, apparentemente confliggente con l’universalismo ‘pacifista’ occidentale, pare analogamente privo di qualsiasi senso spaziale degli ordinamenti. Nelle visioni estreme di entrambi gli universalismi si assiste infatti a una dicotomia bene-male, da superare con l’imposizione di un ordinamento globale e indifferenziato. Il nemico è così ‘assoluto’, e ogni attacco nei suoi confronti ‘giusto’. In questo senso, sovviene la teoria dei valori schmittiana, per cui l’affermazione di un valore (che è concetto mutuato dall’economia) implica la negazione di un dis-valore[84], che – in quanto tale – può essere distrutto[85].

Del resto, fu proprio Schmitt a indicare che il più elevato livello di inimicizia discende dal conflitto religioso, come testimoniato dalle guerre di religione e dal ‘miracolo’ dello jus publicum europaeum che vi pose fine.

Opinione dissenziente, riguardo all’applicabilità delle categorie schmittiane, è espressa da Carlo Galli. Nello Sguardo di Giano, l’Autore espone infatti come

si vede che la guerra globale è l’aperta manifestazione del fatto che l’ostilità assoluta che emerge dal crepuscolo permanente della guerra globale non è propriamente «il politico»: il terrorista non è descrivibile in termini di hostis, né di partigiano e neppure di rivoluzionario mondiale, e forse neppure di partigiano tecnologico. La sua è infatti una fattispecie nuova, tanto soggettivamente (egli non ha amici ma solo nemici, ed è al limite nemico di se stesso perché col suicidio rinuncia al proprio corpo e alla propria vita) quanto oggettivamente (il terrorismo non ha propriamente altra strategia che il terrore, né la sua ostilità prefigura ordini se non immaginari); e la motivazione religiosa che egli dà della propria ostilità non è una teologia politica (neppure in un’accezione non secolarizzata) ovvero non ha funzioni ordinative, quanto piuttosto è una «teologia immediata» ed «estrema», un’identificazione paranoide con Dio che ha il solo scopo di protrarre il conflitto all’infinito[86].

In realtà, la tesi appena esposta non pare convincente nella misura in cui squalifica come folli i terroristi, slegandoli anche da qualsiasi relazione con un terzo interessato. In realtà, come Pape ha evidenziato, il terrorista ha un proprio scopo razionale e dietro di lui si celano potenti alleati regolari[87].

Resta ora da valutare se il terrorista globale sia ragguagliabile al pirata. Ciò dovrebbe escludersi questo parallelo in ragione della mancanza di politicità del pirata[88]. Sebbene anche il terrorista risponda a logiche anomiche e di violenza indiscriminata, non può sottacersi come egli abbia un fine politico che lo differenzia dal criminale. Alain De Benoist ha fatto notare come l’equiparazione morale tra criminale comune e terrorista, o tra terrorista e folle, non coglie nel segno, e anzi tende a impedire la comprensione del fenomeno. In questa prospettiva, il terrorista agisce secondo definite linee strategiche, miranti a conseguire obiettivi politici determinati: costringere il nemico a ritirarsi, a capitolare, a concedere un trattamento differenziato ai sodali arrestati, a pagare un riscatto per finanziare l’azione del gruppo. Cade dunque ogni sovrapposizione con la figura del pirata, che invece, animato da un movente lucrativo, è un criminale comune[89].

Ogni studio futuro sul terrorista, spogliandosi delle categorie della morale, dovrebbe dunque inquadrarlo obiettivamente nella sua dimensione eminentemente politica.

 

[1] Così L. GIROLDO, Note sul rapporto tra politica e strategia a partire da “Teoria del partigiano” di Carl Schmitt, in «Philosophy kitchen» 3/2, p. 113. Schmitt tenne in Spagna, tra l’altro, la prolusione sull’Ordinamento del mondo dopo la seconda guerra mondiale nel 1962, in occasione della concessione, in suo favore, di un’onorificenza da parte dell’Istituto di studi politici. Nel suo discorso, Schmitt sottolineò il suo rapporto con la Spagna, che riteneva essere il Paese che prima degli altri avesse vinto, nella lotta mondiale, la propria guerra di liberazione nazionale, pietra di paragone per gli altri Stati anticomunisti. Cfr. C. SCHMITT, L’ordinamento del mondo dopo la seconda guerra mondiale (1962), in ID., Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, Vicenza, 2012. Sui rapporti tra Schmitt e il franchismo, cfr. anche M. RAKOSI, Carl Schmitt e la Spagna franchista: una “ragion di Stato sovrana”, in «Il primato nazionale», 18 luglio 2020. Va del resto osservato che l’unica figlia di Schmitt, premorta al padre nel 1983, aveva sposato il giurista spagnolo De Otero. Anche J. F. KERVÉGAN, Che fare di Carl Schmitt?, Laterza, Bari, 2016 [2011], p. 47 osserva che, mentre nel resto del mondo la diffusione dell’opera schmittiana ha subito una forte accelerazione dagli anni ‘90, in Spagna già durante il franchismo «la presenza di Schmitt e le traduzioni dei suoi scritti sono state importanti, in ragione dei suoi stretti rapporti accademici e di alcuni suoi legami familiari».

[2] C. SCHMITT, L’unità del mondo (1952), in ID., Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, p. 278.

[3] Altra radice dell’interesse schmittiano per il tema è la valorizzazione delle eccezioni, che hanno sempre rappresentato elemento centrale nella riflessione del giusfilosofo. Al riguardo, v. F. RUSCHI, Gli irregolari: pirateria e «Klenikrieg» in Carl Schmitt, in AA. VV., Crisi della legittimità e ordine internazionale. Lo scontro sui principi costitutivi della società internazionale (a cura di A. COLOMBO), Guerini, Milano, 2012, p. 136.

[4] E. JÜNGER, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 1990 [1951]. Nel senso di un forte distacco di Schmitt da quest’opera di Jünger, tacciata di «dilatazione e dissoluzione del concetto», si esprime F. VOLPI, L’ultima sentinella della terra, in C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 166. Analogamente, v. F. RUSCHI, Gli irregolari: pirateria e «Kleinkrieg», cit., p. 137.

[5] E. JÜNGER, op. cit., p. 31.

[6] Ivi, p. 32.

[7] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., pp. 31-32. C. GALLI, Genealogia della politica, Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1996., p. 768 afferma che «[…] è questa politicità che differenzia, al di là delle assonanze “antitecnologiche”, la figura schmittiana del partigiano e quella, precedente, jüngeriana del Waldgänger. Le distanze sono infatti imponenti, dato che quello di Jünger è un pensiero, a questa altezza, dopo tutto “anarchico”, mentre quello di Schmitt è pur sempre orientato all’arché, così che il Ribelle, il “selvatico” jüngeriano, è un Singolo non politico, la cui destinazione è - nonostante sappia combattere - la libertà non politica, fuori dal tempo, mentre il Partigiano schmittiano è, per quanto anch’egli Singolo, una funzione concreta della creazione di ordine attraverso il conflitto».

[8] C. SCHMITT, Risposte a Norimberga, (a cura di H. QUARTISCH), Laterza, Bari, 2006, p. 73 si definisce, davanti all’accusa, «un avventuriero intellettuale», che si prende il rischio su di sé. Del resto, ricorda P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Edizioni di comunità, Milano, 1982, p. 20 che «in epoche di guerra civile aperta o latente il lavoro scientifico nel campo del diritto pubblico si carica di rischi supplementari […]». Anche Jünger, in apertura al suo Trattato, cit., p. 9 afferma che tratterà «di una questione cruciale del nostro tempo, ossia di una questione che comporta comunque dei rischi».

[9] E. JÜNGER, op. cit., pp. 39-40. Riguardo a Schmitt, cfr. infra, al successivo paragrafo.

[10] Ivi, p. 15.

[11] Ivi, p. 48 afferma che «l’Occidente vive nel terrore dell’Oriente e l’Oriente vive nel terrore dell’Occidente. In tutti i luoghi della terra si vive nell’attesa di spaventose aggressioni: a cui si aggiunge, per molti, il timore della guerra civile». Riguardo Schmitt, v. C. SCHMITT, Unità del mondo, in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., nonché ID., Il nuovo nomos della terra, in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit.

[12] E. JÜNGER, op. cit., pp. 53 e 57.

[13] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 63.

[14]C. SCHMITT, Clausewitz come pensatore politico, in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 376.

[15] «La sua formula della guerra come continuazione della politica contiene già, in nuce, una teoria del partigiano […]»: C. SCHMITT., Teoria del partigiano, cit., p. 18. 

[16] Ivi, p. 16.

[17] Ivi, p. 19.

[18] In area tedesca, l’unica insurrezione popolare fu guidata in Tirolo da Andreas Hofer, successivamente giustiziato per volere di Napoleone dopo la pace con gli Asburgo.

[19] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 23.

[20] In tema, v. anche C. SCHMITT-J. SCHICKEL, Colloquio sul partigiano, in C. SCHMITT, Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, Vicenza, 2012, pp. 67 ss.

[21] Ivi, p. 71. Schmitt non chiarisce se si tratti di criteri cumulativi o alternativi, ritenendo la questione meramente metodologica e poco utile a fini di comprensione del fenomeno. Si propende, comunque, per la prima lettura.

[22] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 26. Può essere in qualche modo utile osservare come – paradossalmente – i brigatisti rossi entrati in clandestinità erano definiti, in senso appunto militare, regolari. Emerge come quella formazione terroristica operasse secondo propri parametri di legittimità talmente accentuati da riflettersi anche sulle denominazioni organizzative.

[23] Va tracciata una distinzione tra l’irregolarità antecedente e quella successiva alla levée en masse. Negli eserciti settecenteschi l’esercito regolare era costituito dalla truppa di linea, mentre gli irregolari erano i panduri e gli ussari, la cavalleria leggera. Dunque, anche questi irregolari erano legali e parte dell’esercito. L’irregolarità designa invece i partigiani, coincidendo con l’illegalità, a partire dall’Ottocento. Cfr., in tema, C. SCHMITT-J. SCHICKEL, op. cit., p. 72.

[24] Ad avviso di L. GIROLDO, op. cit., p. 120, che muove anche dallo studio dell’esperienza di Lawrence d’Arabia, il legame di legittimità con un terzo interessato potrebbe essere addirittura distorsivo per la nozione di partigiano, esponendola ai condizionamenti di un’autorità formale estranea. Vengono così proposti due ulteriori criteri: la intraducibilità, come impossibilità di transito alla regolarità, che implicherebbe – e qui il secondo criterio – un tradimento delle aspettative originarie della lotta.

[25] Secondo Schmitt, la guerra può essere irregolare per nove decimi, ma per l’ultimo decimo dovrà essere combattuta in modo regolare: cfr. C. SCHMITT, L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale (1962), in ID., Un giurista davanti a se stesso, cit., p. 231.

[26] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 106.

[27] Ivi, p. 27.

[28] Ivi, p. 28.

[29] C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 766 osserva che «Teoria del Partigiano, del 1963, indaga quella medesima “irregolarità” di fondo della politica che in Der Begriff des Politischen era stata colta dal punto di vista della crisi della sua forma classico-statuale; qui, l’attenzione di Schmitt è rivolta al partigiano che, in quanto storicamente marginale rispetto alla statualità, è appunto l’eccezione in cui l’origine della politica si manifesta con maggior vigore. E anche qui, come del resto nel Begriff di cui questa è esplicitamente una Zwischenbemerkung, Schmitt insiste proprio, mentre è consapevole del radicale sfondamento della forma politica tradizionale, a ricercare un nuovo controllo politico sull’ ostilità, in un’età ormai post-statuale».

[30] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, Guida, Napoli, 2007, p. 57.

[31] Ivi, p. 29.

[32] C. SCHMITT-J. SCHICKEL, op. cit., p. 76-77.

[33] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 32. V. altresì P. P. PORTINARO, op. cit., p. 213.

[34]C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 33.

[35] Così L. GIROLDO, op. cit., p. 112.

[36] M. NICOLETTI, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia, 1990, pp. 558-559.

[37] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 71.

[38] Ivi, p. 73.

[39] F. VOLPI, L’ultima sentinella della terra, cit., p. 170 osserva che, sorprendentemente, Schmitt parla poco del fenomeno resistenziale nella seconda guerra mondiale. A. VESPAZIANI, Anarchia e nichilismo nel Nomos della Terra, in «Teoria del diritto e dello Stato», 1-2/2011. pp. 539-550 rileva, in tema di omissioni nell’opera schmittiana, che manca qualunque accenno alle responsabilità del Terzo Reich; che non viene mai citata la Shoah; che non si fa mai riferimento al diritto ebraico, che pur prescinde dalla localizzazione territoriale; che non viene dedicato spazio alla nascita dell’URSS (sebbene debba dirsi che nella Teoria del partigiano la figura di Lenin venga attentamente analizzata); che non si menzionano le carte internazionali del secondo dopoguerra e la nascita dell’ONU. Ad avviso dell’Autore, poi, la carenza più significativa riguarda i ‘valori’. Tuttavia, potrebbe osservarsi che Schmitt, da un canto, ritiene che il concetto di valore rappresenti un’economicizzazione dei profili più strettamente giuridici e spirituali; dall’altro, che invece dalla sua opera traspaia la sua assiologia, coincidente con lo jus publicum europaeum e i suoi principi.  

[40] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit, p. 78.

[41] Mao era stato braccato da Chang Kai-shek per molti anni, vivendo una condizione di irregolarità e ‘partigianato’. Cfr. C. SCHMITT-J. SCHICKEL, op. cit., p. 73: «Mao fu dunque estromesso dal diritto, dalla legge, dall’onore e così via».

[42] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 80.

[43] Ivi, pp. 81-82.

[44] Organisation de l’armée secrète, operativa soprattutto negli anni 1960-1961.

[45] J. FREUND, Il riconoscimento del nemico ed il terzo (1974), in ID., Il terzo, il nemico, il conflitto, cit., pp. 231-233 rileva come il Front de Liberation Nationale, a differenza dell’OAS, godesse di ampio appoggio internazionale, in quanto movimento anticolonialista.

[46] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 128.

[47] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, cit., p. 21 osserva che «l’incertezza sulla identità del nemico costituisce in politica uno dei pericoli più grandi che ci siano».

[48] Cfr. C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 97.

[49] Ivi, p. 103.

[50] Riguardo alla potenziale trasformazione del partigiano in terrorista v. C. GALLI, Lo sguardo di Giano, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 160.

[51] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 106.

[52] V. F. VOLPI, L’ultima sentinella della terra, in C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit.., p. 171.

[53] E. CASTRUCCI, Nomos e guerra. Glosse al nomos della terra, La scuola di Pitagora, Napoli, 2011, p. 167.

[54] C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 150 qualifica il partigiano come «figura tanto dell’inimicizia quanto dell’ordine». V. anche A. CAMPI, Introduzione, Introduzione a C. SCHMITT, L’unità del mondo e altri saggi, Antonio Pellecani editore, Roma, 2003, p. 47. Secondo G. GIURISATTI, Introduzione a C. SCHMITT, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, pp. 20-21 «la più drastica smentita d[ell’] unificazione neutralizzante-pacificante del diritto e della politica mondiali postbellici per Schmitt è fornita dalla miriade di conflitti locali che hanno trasformato l’uni-verso omologato dello jus gentium nel teatro di una permanente “guerra civile mondiale totale e globale”, come se l’ordine-senza-nomos del mondo uniformato, nella sua apparente perfezione, producesse da sé, e necessariamente, i propri virus letali, nella forma di ogni sorta di “partigiani”, che combattono ovunque microguerre telluriche, etniche o religiose, a carattere nazionalistico o ideologico, organizzando resistenze la cui discriminazione e criminalizzazione morale da parte del panopticon giuridico-politico mondiale è tanto più virulenta quanto più lo è la radicalizzazione etico-morale del dissidio».

[55] C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 767 osserva che «se infatti è vero – ed è uno dei più notevoli tributi di Schmitt al marxismo – che solo con Lenin e Mao il partigiano manifesta la potenza della propria logica irregolare di intensissima e concreta contrapposizione al nemico, è altrettanto vero, tuttavia, che in questa tradizione il partigiano è in realtà il portatore di un’ostilità assoluta, universale e estrema che fa sfumare i contorni della sua figura nell’altra, opposta benché prossima, del  rivoluzionario di professione (è da notare che Schmitt non prende in esame la figura del terrorista, che si sarebbe prestata egregiamente all’esemplificazione)».

[56] Ibidem si legge che «il partigiano di Schmitt, invece, è ben lontano dal rivoluzionario e dalle sue logiche discriminatorie e assolutamente aggressive che ne fanno un’espressione particolarmente intensa dello sradicamento insensato che è proprio dell’età della tecnica e dei suoi ‘globalismi’; anzi, Schmitt definisce impossibile la sopravvivenza della figura irregolare del partigiano nell’età della tecnica, tranne che come supporto secondario di una guerra fra grandi potenze. Tuttavia, Schmitt pare affermare che anche nell’età della tecnica si possono riproporre le questioni originarie inerenti all’occupazione del territorio (dopo una guerra nucleare, o nella conquista spaziale), cioè le questioni del nomos, e che quindi anche il partigiano – figura dell’accesso consapevole all’origine della politica – potrebbe ritrovare la propria necessità». Cfr. ancora C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 152.

[57] Questa definizione schmittiana è assunta come titolo per il saggio di F. VOLPI, L’ultima sentinella della terra, cit., pp. 161 ss.

[58] Ivi, p. 174, nonché C. SCHMITT-J. SCHICKEL, op. cit., p. 70.

[59] C. SCHMITT, Teologia politica (1922), in ID., Le categorie del ‘politico’, Bologna, 1972, p. 41.

[60] C.SCHMITT, Il concetto di pirateria, in ID., Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, a cura di A. CARACCIOLO, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 399-404.

[61] Per il concetto di pirateria in Schmitt si rimanda a F. RUSCHI, Communis hostis omnium. La pirateria in Carl Schmitt, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico» 38/2009, pp. 1215 ss.

[62] La refrattarietà del pirata al diritto, e la sua connessione con l’elemento marino e la libertà che gli si associa, si rivela anche dall’etimologia: pirata viene dal greco antico peirao (tentare, esperimentare), mentre filibustiere da vrij e buiten (in olandese: libero far bottino).

[63] F. RUSCHI, Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, Giappichelli, Torino, 2012., p. 85, esaminando il fenomeno della pirateria in età antica, scrive: «Hostis communis omnium, il pirata era allo stesso tempo causa ed effetto dell’anarchia delle distese marine. Egli era promotore di un ordine negativo, sovvertitore di ogni categoria etica e giuridica: se il mare era eccentrico rispetto ad ogni regolamentazione, il pirata era la cifra di questa alterità». Riguardo il rischio di una «nemicalizzazione» del pirata e del terrorista, con il rischio di tradimento delle categorie penalistiche classiche, cfr. R. BARTOLI, Il contrasto al terrorismo e alla pirateria. Analogie e differenze tra due paradigmi di nemicalizzazione del diritto penale, in «Jura gentium» 1/2018, pp. 92 ss.

[64] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., pp. 33-34.

[65] F. RUSCHI, Communis hostis omnium, cit., p. 1229 rileva, riguardo l’inimicizia piratesca, che «si trattava di una forma di ostilità in un duplice senso ‘elementare’: sia perché strettamente connessa all’alterità dell’elemento marino, sia perché ispirata ad una violenza primordiale rispetto alla quale mancava qualsiasi freno giuridico o politico».

[66] Sul tema, v. F. RUSCHI, Gli irregolari: pirateria e «Kleinkrieg», cit.

[67] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., pp. 26-27.

[68] P. P. PORTINARO, op. cit., p. 213.

[69] C. SCHMITT, Teoria del partigiano, cit., p. 99.

[70] Sul rilievo periodizzante di quest’efferato attentato, cfr. C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit. p. 158-159, secondo cui l’11 settembre «è l’emblema del fatto che non è più possibile distinguere tra interno ed esterno», «fra civili e militari, fra “privato” e “statale”».

[71] Alla fecondità del pensiero schmittiano riguardo «la nuova rilevanza politica di entità non statali (terroristi)» fa riferimento Carlo Galli, ivi, p. 129.

[72] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, cit., p. 61.

[73] Sul rilievo di questa prima coscrizione generale, v. anche F. RUSCHI, Il volo del drone. Verso una guerra post-umana? Una riflessione di filosofia del diritto internazionale, in «Jura gentium» 1/2016., pp. 14-15.

[74] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, cit., pp. 55-56. Su quest’origine statuale del ‘terrore’ v. anche R. ALITALA, Terrorismo à la carte, in «Limes» 2/2020 «Il potere del mito», p. 221.

[75] Sul rilievo del carattere tellurico e del suo declino, v. anche U. GAUDINO, Leggere Schmitt a Raqqa. Teoria del partigiano e terrorismo islamico, in «SIS» 5/2016, p. 12.

[76] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, cit., p. 63.

[77] F. VOLPI, L’ultima sentinella della terra, cit., p. 176.

[78] Ilich Ramirez Sanchez, detto lo sciacallo, è un terrorista venezuelano che ha agito a livello globale in nome dell’ideale marxista-leninista.

[79] Al riguardo, T. KLITSCHE DE LA GRANGE, Osservazioni sul terrorismo postmoderno, in «Behemot», 3 novembre 2001, osserva che l’intensificazione della violenza e terroristica discende anche dalla caduta del terzo interessato, l’URSS, che aveva comunque interesse a temperare gli eccessi terroristici per finalità politiche sue proprie.

[80] Ricostruisce invece il fenomeno terroristico in termini puramente geopolitici R. ALITALA, op. cit.

[81] P. MONTANARI, Morire per vincere. La strategia del terrorismo suicida, in «Jura gentium», 1/2005. Lo scritto recensisce R. PAPE, Dying to win, New York, 2005.

[82] Su questo punto, cfr. T. KLITSCHE DE LA GRANGE, op. cit., secondo cui l’attacco dell’11 settembre echeggia le teorie di Giulio Douhet, «teorico-pioniere della guerra aerea “totale”».

[83] Riguardo DAESH, U. GAUDINO, op. cit., pp. 21 ss. ritiene che l’inquadramento sub specie di guerra partigiana o terroristica è funzione della prevalenza o meno del carattere ‘statuale’ o globale dello Stato islamico.

[84] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, cit., p. 27 afferma che «quando si combatte in nome di ciò che ha un valore assoluto chi viene combattuto è assolutamente privo di valore, viene dichiarato un disvalore assoluto».

[85] C. SCHMITT, La tirannia dei valori, Milano, 2008 [1967].

[86] C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 161.

[87] Sul sostegno degli Stati al terrorismo cfr. anche R. ALITALA, op. cit.

[88] Contra, ivi, 160, si osserva che nella post-modernità ci sono terroristi che agiscono – appunto - «come pirati».

[89] A. DE BENOIST, Terrorismo e “guerre giuste”, cit., p. 74.