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I «Grandi spazi» nel pensiero internazionalistico di Carl Schmitt

Quinta parte
Tramonto
Ph. Erika Pucci / Tramonto

Abstract:

Il saggio delinea il concetto di ‘grande spazio’ elaborato da Carl Schmitt nel 1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte. La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni internazionali.

 

Unità del mondo o pluriverso: il confronto con Kojève

Carl Schmitt era separato anche da Alexandre Kojève[1], come da Julien Freund, dall’esperienza della seconda guerra mondiale.

Il giurista tedesco, contiguo al nazismo e indagato a Norimberga; i filosofi francesi attivi nel movimento maquis, impegnati nella lotta di liberazione nazionale antihitleriana.

Tuttavia, sia Freund che Kojève – come noto – intrattennero con Schmitt rapporti personali cordialissimi, ispirati a reciproco rispetto e rivolti al perfezionamento teorico delle rispettive dottrine[2].

Il dialogo tra Schmitt e Kojève merita di essere ricordato in questa sede perché evidenzia il debito – già rievocato – del giurista verso Hegel, nonché inattesi parallelismi con il pensatore russo-francese su diversi fronti: il concetto d’impero; la filosofia della storia; il colonialismo. E alla luce di queste vicinanze, ma anche delle differenze tra i due Autori, può emergere, a tutto tondo, la visione schmittiana[3].

Kojève, tra i maggiori interpreti di Hegel in Francia, raccoglieva l’eredità della filosofia della storia del grande filosofo tedesco.

Riteneva che – attraverso la dialettica di tesi e antitesi, amico e nemico, Stato contro Stato – si sarebbe, infine, pervenuti a uno «Stato universale omogeneo», che avrebbe assicurato la neutralizzazione dei conflitti[4].

Questa fine del ‘politico’ era interpretata come l’esito di un progressivo superamento del sistema vestfaliano attraverso un’era degli imperi, che avrebbero soppiantato gli Stati nazionali.

In termini schmittiani, secondo Kojève l’incremento delle capacità tecniche dell’umanità avrebbe permesso, dal punto di vista dei problemi economici, di superare lo stadio dell’appropriazione, per giungere a un nomos della terra incentrato su una infinita produzione e una conseguente equa distribuzione.

L’Autore, provocatoriamente, sosteneva che la realizzazione del comunismo si fosse, in realtà, verificata proprio negli Stati Uniti, dove il consumismo aveva permesso una diffusione del benessere su larga scala.

Kojève era critico con il colonialismo, che riteneva minare alla base la possibile creazione di un One World ispirato al benessere collettivo e all’equa ripartizione delle risorse. In senso marxiano, a suo parere il concetto di ricchezza e di povertà, di capitale e proletariato si poneva lungo l’asse Nord/Sud. Afferma Kojève che

[…] la parola «colonialismo» designerà il sistema in cui il plusvalore è investito privatamente, come nel «capitalismo» classico, ma non è più ricavato all’interno del paese bensì all’estero[5].

Il ‘colonialismo economico’ deve correggere i propri squilibri, rischiando altrimenti l’implosione del sistema. Come il ‘capitalismo’ era stato superato dal ‘fordismo’, così anche il ‘colonialismo’ necessiterebbe di uno smussamento delle sue asperità e della conseguente riduzione del gap tra Paesi euroamericani e afroasiatici.

 Tre le soluzioni prospettate:

  1. aumentare i terms of trade, ovvero stabilizzare più elevati livelli di pagamento per i prodotti dei Paesi in via di sviluppo, così da rafforzarne l’economia;
  2. investire, mediante organismi internazionali, il ricavato delle materie prime dei Paesi in via di sviluppo in quegli stessi Paesi;
  3. investire, questa volta ad opera di singoli Stati ‘economicamente avanzati’, il plusvalore in determinati Stati in via di sviluppo, instaurando specifiche partnership bilaterali.

Secondo Kojève, con qualche amor di paradosso, davvero ‘colonialisti’ sarebbero gli Stati Uniti, che rifiutano qualsivoglia strategia redistributiva. Per contro, Francia e Inghilterra sarebbero persino ‘anticolonialisti’, perché investirebbero da cinque a sei volte il plusvalore nei Paesi in via di sviluppo.

Il rapporto tra Paesi ‘colonialisti’ e Paesi ‘in via di sviluppo’ sarebbe, secondo Kojève, «il nomos della terra occidentale»[6]. E suggerisce, accanto alle radici dell’appropriazione, della divisione e dello sfruttamento,

[…] una quarta radice, forse quella centrale: la radice del dono. Questa radice della legge economica e socio-politica del mondo occidentale moderno è sfuggita all’acume dei Greci antichi: forse perché erano un piccolo popolo schiavista e non una grande potenza cristiana?[7]

Per il filosofo russo-francese,

quando ormai tutto è stato preso, è possibile dividere o spartire solo se alcuni danno ciò che altri riceveranno per consumarlo[8].

Dunque, diviene indifferibile, per l’Occidente, rendere il Sud del mondo partecipe del benessere, mediante un dare che è anche un prendere, un fattore di stabilizzazione e una modalità di creazione di nuovi mercati.

Secondo la previsione di Kojève, allora, nell’edificio tripartito del nomos, l’appropriazione dovrebbe essere una categoria ormai superata[9]; la produzione dovrebbe aumentare geometricamente, di pari passo con la tecnica; la distribuzione dovrebbe essere ispirata a canoni di razionalità ed equità, così da assicurare un equilibrato nomos mondiale: il ‘colonialismo datore’.

Al di là dell’omaggio a Schmitt – del resto la prolusione è stata pronunciata ad una conferenza organizzata da quest’ultimo –, possono registrarsi notevoli divaricazioni tra il pensiero del filosofo di Plettenberg e di Kojève[10].

Anzitutto, la prospettiva post-statuale dei due Autori è profondamente diversa. Per Schmitt, la fine dello Stato nazionale sfocerà nel ‘grande spazio’, egemonizzato da un Impero. Si potranno così riprodurre le dinamiche realiste del multipolarismo, instaurandosi un nomos della terra ispirato all’equilibrio di potenza e al rispetto reciproco tra i ‘majores homines[11].

Al contrario, secondo Kojève gli Imperi rappresentano un medium tra il sistema vestfaliano e lo Stato mondiale[12]: un momento di transizione verso la fine della storia.

Anche nel dettaglio della teoria imperiale si riscontrano divergenze notevoli. Se Kojève evoca un Impero latino a guida francese, con la Germania – il ‘nemico’ della Francia – in orbita anglosassone, Schmitt ha sempre riconosciuto al proprio Paese, cuore d’Europa, il ruolo di centro gravitazionale del continente, depositario della sua sostanza spirituale[13].

Riguardo la filosofia della storia, inevitabilmente, i due pensatori discordano, sebbene ad avviso di entrambi Oriente e Occidente stiano volgendosi verso il medesimo fine: l’unità del mondo[14].

Kojève, secondo cadenze hegeliane, guarda alla sintesi ultima della fine della storia[15]. L’estrema neutralizzazione dovrebbe generare uno Stato mondiale, in cui la dialettica si arresta e con essa anche la politica, che per Kojève è la lotta per il ‘prestigio’. L’uomo giungerebbe così a una vita felice, di gioco, arte ed amore, al di fuori delle logiche di violenza che hanno caratterizzato la storia del passato.

Schmitt, invece, rifiuta ogni mediazione: il rapporto esistenziale Freund/Feind è destinato a permanere eternamente, a meno di voler rinnegare la politicità e la stessa natura umane.

L’anticolonialismo di Kojève – in questo senz’altro un idealista – si scontra con il realismo schmittiano. Il giurista tedesco decostruisce e smaschera il concetto di anticolonialismo come ideologia spaziale antieuropea. Anzi: la fine del colonialismo coincide, per Schmitt, con la fine dello jus publicum europaeum e della limitazione della guerra. Il forzato riconoscimento di Stati sovrani africani o asiatici – vuote forme prive di contenuto storico-culturale – favorisce un’uniformità indifferenziata che repelle al filosofo tedesco, perché apre le porte alla visione liscia e non striata di un ordine mondiale[16].

Del resto, a Schmitt pare ingenuo ritenere che il ‘dare’, nel senso kojèviano, possa essere sciolto dall’appropriazione. Non può esservi distribuzione senza appropriazione, perché solo Dio può creare e dare «dal nulla»[17]. In questo senso, Schmitt pare riconoscere una certa ingenuità liberale nel pensiero di Kojève, riaffermando, in ultima istanza, le categorie fondanti del suo pensiero: amicizia/inimicizia, agonismo tra Stati, realismo nelle relazioni internazionali.

 

[1] Kojève, imparentato con Kandinskij, apparteneva all’alta borghesia russa. Dopo la rivoluzione di ottobre, pur essendone un fervente sostenitore, dovette emigrare in Germania per frequentare l’Università, atteso che in patria non fu ammesso agli studi per la propria estrazione di classe. Si laureò sotto la guida di Jaspers, per poi trasferirsi in Francia. Particolare fama ricavò dai seminari tenuti all’École Pratique des Hautes Études sulla Fenomenologia dello spirito, che lo resero il principale interprete di Hegel in Francia. Divenuto antibolscevico, fu, successivamente, un alto burocrate della Repubblica francese: per questo, si proclamò ironicamente ‘filosofo della domenica’.

[2] Sulle somiglianze, anche di stile, tra Schmitt e Kojève v. J. W. MÜLLER, Visioni di un ordine globale nell’«età post-europea». Carl Schmitt, Raymond Aron e il funzionario dello spirito del mondo, in Ricerche di storia politica 2/2004, pp. 205 ss.

[3] Rievoca il parallelismo tra Kojève e Schmitt anche F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., pp. 379-382.

[4] J. W. MÜLLER, op. cit., p. 212.

[5] A. KOJÈVE, Il colonialismo nella prospettiva europea, Adelphi, Milano, 2003 [1957]. La conferenza fu tenuta al “Rhein-Ruhr Club” di Düsseldorf il 16 gennaio 1957.

[6] Sembra, questa, una contraddizione rispetto al pensiero schmittiano, secondo cui – dalla scoperta dell’America – il nomos è nomos della terra (globale).

[7] Ivi, p. 12.

[8] Ibidem.

[9] L’ultima appropriazione, secondo Kojève, sarebbe quella napoleonica: J.W. MÜLLER, op. cit., p. 214

[10]Ibidem, l’Autore parla di «visioni del mondo, quasi sotto ogni rispetto, […] agli antipodi».

[11] Carl Schmitt ad Alexandre Kojève, 7 giugno 1955, in A. KOJÈVE – C. SCHMITT, Carteggio, a cura di C. ALTINI, in «Filosofia politica» 2/2003, p. 193.

[12] Va rammentato che lo Stato mondiale era vagheggiato anche da Jünger: cfr. E. JÜNGER – C. SCHMITT, op. cit. Cfr. anche E. DI SALVATORE, Ernst Jünger e la questione dello Stato mondiale, in «Teoria del diritto e dello Stato», 1-2/2011, pp. 299 ss.

[13] In tema, v. F. TEDESCO, L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente inedito) di Alexandre Kojève, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» n. 35/2006, pp. 373 ss, nonché G. GIURISATTI, op cit., pp. 12-13 secondo cui «per l’anglofobo-antiamericano Schmitt sarà il Reich tedesco a farsi garante del nuovo nomos della terra, se la sua idea politica (popolare, etnica nazionalista) sarà in grado di “irradiarsi” al di là dei confini strettamente nazionali, egemonizzando così un grande spazio sovrastatuale, composto al suo interno da una pluralità di nazioni subordinate, che esclude per principio “l’intervento di potenze estranee”. Così come gli USA, centro dell’Emisfero Occidentale, difendono (valendosi della dottrina di Monroe) il loro diritto all’egemonia sul Grossraum panamericano, allo stesso modo la Germania nazista, “cuore dell’Europa”, avanza i propri diritti sul Grossraum paneuropeo” […]». Ivi, p. 14 si legge che «la Germania, pur nella sua sconfitta, si porrebbe idealmente a capo di tutti “gli amanti della libertà” che lottano contro la sottomissione della terra a un unico “signore del mondo”».

[14] Ivi, p. 215.

[15] Cfr. M. FILONI, La fine della storia. Storia di un’idea senza fine, in «Limes» 2/2020 «Il potere del mito». L’Autore ripercorre genealogicamente l’idea di fine della storia, movendo da Hegel e Kojève sino a Fukuyama.

[16] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 297.

[17] C. SCHMITT, Appropriazione, divisione, produzione (1953), in ID., Le categorie del politico, cit., p. 312.