I «Grandi spazi» nel pensiero internazionalistico di Carl Schmitt
Abstract:
Il saggio delinea il concetto di ‘grande spazio’ elaborato da Carl Schmitt nel 1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte. La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni internazionali.
In questa quarta parte ci si sofferma sulla collocazione di Carl Schmitt nella corrente realista delle relazioni internazionali, ponendolo a confronto, in particolare, con Huntington e Bull.
Schmitt e il realismo politico: Huntington e Bull
Schmitt è sovente considerato come un realista per la sua concezione delle relazioni internazionali[1].
Al riguardo, può tracciarsi un parallelo tra la teoria del ‘grande spazio’ e l’interpretazione delle relazioni internazionali di Samuel Huntington[2].
Al riguardo, Filippo Ruschi afferma che, accogliendo i suggerimenti di Alessandro Campi, non si può fare a meno di notare che la soluzione prefigurata da Schmitt sembra anticipare quanto ipotizza Samuel Huntington nel celebre Clash of Civilization, laddove l'ordine mondiale riposa sull'equilibrio esistente tra differenti aree di civilizzazione. Solo che mentre per il politologo statunitense questo ordine ha, con un alto grado di probabilità, una deriva 'pan-conflittualista' – il clash appunto –, Schmitt, memore della grande lezione del Concerto Europeo, è consapevole delle potenzialità cooperative di un tale assetto anarchico[3].
Lo studioso di Harvard ha, infatti, teorizzato che, con la fine della guerra fredda, il sistema internazionale si sarebbe ordinato sulla base di aree di civiltà omogenee, coese anche per credo religioso, guidate da uno Stato egemone (core State). In particolare, vengono distinte sette od otto civiltà: sinica, giapponese, indù, islamica, occidentale, latinoamericana, russo-ortodossa e (forse) africana.
L’agente fondamentale del sistema geopolitico diviene così la civiltà, in luogo dello Stato. Le civiltà si confrontano dialetticamente tra loro, con un destino ineluttabile di conflitto per l’affermazione dei propri valori e interessi. In questa prospettiva, l’Autore – nel proprio rivendicato afflato patriottico – teme per la leadership degli Stati Uniti, core State dell’Occidente.
Attingendo alle categorie del realismo politico, Huntington presagisce il declino dell’impero americano, in ragione della perdita del nemico mortale – l’URSS – e della ciclicità della storia, che pretende per le potenze una parabola che si conclude con la loro fine[4].
In particolare, la sfida dell’Occidente, secondo la logica challenge-response di Arnold Toynbee, sarebbe ora la competizione – fino all’estremo del conflitto armato – con il mondo islamico e quello asiatico. Il primo si sarebbe radicalizzato sul piano identitario mediante la esaltazione dell’elemento religioso; il secondo invece sarebbe un competitor economico che vorrebbe affermare la propria influenza anche culturale sul pianeta.
Le aree di civiltà, dunque, come osservato da Ruschi, si muoverebbero in questa logica pan-conflittuale nella ri-definizione delle relazioni internazionali post-guerra fredda.
Può osservarsi che sia Schmitt che Huntington pensano per categorie ormai sovra-statuali. Il ‘grande spazio’ e la civilization rappresentano, effettivamente, macro-aree storicamente determinate, innervate da legami culturali e politici tra gli Stati membri e guidate da uno Stato egemone.
Nondimeno, restano delle distanze fondamentali tra i due pensatori. Anzitutto, il rilievo annesso da Huntington alla religione quale elemento condizionante la civiltà non trova corrispettivo nel principio dei ‘grandi spazi’. Questo si sostanzia, infatti, nel
nesso tra un popolo politicamente ridestato, un’idea politica e un grande spazio politicamente dominato da questa idea, che esclude interventi stranieri[5].
Vero che l’idea politica, in termini schmittiani, ben può coincidere con la religione, purché essa trasmodi in elemento divisivo tale da determinare la disponibilità al conflitto[6]. Tuttavia, in Schmitt la neutralizzazione westfaliana della religione rappresenta una conquista delle relazioni internazionali[7], sicché – almeno in concreto – il ‘grande spazio’ nel pensiero dell’Autore parrebbe fondare principalmente su valori istituzionali, culturali e popolari, piuttosto che religiosi stricto sensu.
Va poi evidenziato come il giurista di Plettenberg respinga l’idea, di ascendenza pagana, della ciclicità della storia, che sembrerebbe invece accolta non solo dal suo amico e interlocutore Jünger, ma anche da Huntington.
Parimenti lungi – almeno nelle intenzioni[8] – dalla filosofia della storia hegeliana o marxiana, per Schmitt la storia – che non si ripete mai due volte – è retta, secondo il «ritmo»[9] di Toynbee, da una tensione dialettica “storico-concreta”. Si tratta di una dinamica fondata su un succedersi di domande, cui corrispondono altrettante risposte. Ed è proprio lungo questo intreccio di sfide e di soluzioni che si dipana la trama della storia del mondo e i differenti ordini concreti che si sono succeduti. La metafora meccanicistica che dopo Cartesio e Newton ha avuto una notevole diffusione nel dibattito filosofico, per quanto immediata, è del tutto fuorviante: non c’è alcuna legge immutabile. Né tanto meno questa dialettica si sviluppa in maniera lineare seguendo un percorso gradatamente progressivo[10].
Non va trascurato che lo storicismo schmittiano rimane legato anche – in una prospettiva teologico-pessimistica – al mysterium iniquitatis. La storia procederebbe verso l’abisso, e le forze spirituali dell’umanità militerebbero, cateconticamente, per frenare la discesa[11].
Le due prospettive si incrociano con esiti diversificati.
Non sempre raccogliere la sfida dei tempi vuol dire agire da katechon. Si consideri l’Inghilterra, che, nel raccogliere la chiamata oceanica, ha contribuito decisivamente al superamento del paradigma terraneo. Esempio ancor più vistoso è rappresentato poi dagli Stati Uniti, che hanno risposto alla challenge cosmica e – soprattutto – a quella nucleare, favorendo la disgregazione degli ultimi barlumi dello jus publicum europaeum.
Nella visione schmittiana, la sfida odierna– irreggimentare politicamente e umanizzare la tecnica scatenata[12] – pare invece evocare un ruolo catecontico.
Altra notazione interessante riguarda il concetto di nemico. Huntington teme che, caduto il grande nemico – l’Unione Sovietica –, gli Stati Uniti rischino di smarrire la propria missione e la propria identità. Il ragionamento pare calcare le tesi del rapporto Freund-Feind.
Va, però, sottolineato come in Schmitt il duopolio USA-URSS apparisse in sé pericoloso per la stabilità internazionale e fosse concepito come un momento necessariamente transitorio. Lo studioso americano, invece, ritiene che la faglia est-ovest garantisse uno schema di sicurezza internazionale desiderabile, in quanto struttura ordinante. È il successivo raggruppamento in aree di civiltà che darà luogo all’inevitabile scontro, con un rovesciamento rispetto all’ideale di equilibrio dei ‘grandi spazi’ propugnato da Schmitt.
A disconfermare il parallelo tra i due Autori, può essere richiamata l’osservazione di Filippo Ruschi, secondo cui solo una forzatura in senso nazionalsocialista del pensiero di Schmitt può condurre a ritenerlo precursore dello scontro di civiltà:
identificare nella dottrina schmittiana del Grossraum una rilettura giuridicamente ‘esperta’ del Lebensraum di Hitler […] rischia di essere frettolos[o], dal momento che fa di Schmitt l’aedo dello scontro tra civiltà e l’appassionato promotore di un nuovo ordine mondiale egemonizzato dall’Occidente, all’ombra magari della svastica[13].
Per Schmitt, insomma, scrive Portinaro, se i rapporti degli Stati fra loro non sono rapporti di guerra di tutti contro tutti, ma al contrario sono rapporti tali da garantire la moderazione ed il contenimento di manifestazioni belliche, ciò è dovuto proprio al fatto che gli Stati sono già parte di ordinamenti più ampi che ne normalizzano le intenzioni[14].
Sicché, il ‘grande spazio’ schmittiano ha una vocazione – realisticamente – pacifica, nell’accezione del temperamentum belli, a differenza della civilization di Huntington.
La specularità delle posizioni dei due Autori considerati risente anche della loro differente altezza cronologica: Schmitt vedeva spalancato davanti all’umanità il rischio di una catastrofe nucleare, mentre Huntington può prendere atto del successo dell’‘equilibrio del terrore’.
Divergenze sussistono anche nella concettualizzazione dell’Occidente. Per Huntington si tratterebbe di una civiltà coesa, a guida americana, e anzi della civiltà dominante. Al contrario, per Schmitt – come noto – si tratta di un concetto ambiguo, insuscettibile di definizione coerente, attesa la mancanza di un chiaro riferimento geografico in materia. Il filosofo tedesco respingerebbe ogni apparentamento di Europa e Stati Uniti, tanto più ove questi ultimi assumessero un ruolo egemone.
Del resto, Schmitt e Jünger concepiscono il confronto tra Oriente e Occidente come complexio oppositorum, e non invece come un clash, nella prospettiva di Huntington[15].
Conclusivamente, pur presentando le tesi di Huntington delle analogie con i ‘grandi spazi’ schmittiani, tra le due teorie le discontinuità paiono prevalenti sulle affinità[16].
Maggiori affinità possono forse rintracciarsi con lo studioso australiano Hedley Bull, come rimarcato da Danilo Zolo e da Anderson Teixeira[17]. Bull, infatti, ha sostenuto come la società internazionale fondata sugli Stati si regga su un equilibrio anarchico, discendente dall’esigenza di contemperare le reciproche istanze di potenza e di sicurezza[18]. In questo senso, il pluriverso schmittiano e la società anarchica sembrerebbero trovare dei punti di convergenza, nella misura in cui si disconosce qualsiasi autorità sovraordinata e la pace internazionale viene garantita dal reciproco rispetto degli Stati, in una coazione all’ordine derivante dal timore della guerra.
[1] V. A. CANTARO, op. cit., p. 3.
[2] Non è casuale che allo scontro di civiltà faccia riferimento, nell’apertura della sua analisi sul ‘mondo’ secondo Carl Schmitt, anche J. F. KERVÉGAN, op. cit., p. 188. In tema, v. altresì A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 19. L’Autore, peraltro, precisa, citando Alessandro Colombo, che dalle tesi schmittiane dovrebbe delinearsi «un modello di convivenza internazionale basato non sul dominio mondiale di un’unica potenza ma sull’equilibrio di molteplici ordinamenti spaziali: non dunque su un monopolio globale garantito dalla forza ma sul pluralismo competitivo, garantito dal diritto, “di spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà”».
[3] F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl Schmitt, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 33-34/2004-2005, p. 384.
[4] Per il pensiero di Huntington, si rinvia a E. CASTELLI, Samuel P. Huntington: alle radici dello scontro di civiltà, in F. ANDREATTA (a cura di), Le grandi opere delle relazioni internazionali, cit., pp. 207 ss.
[5] C. SCHMITT, L’ordinamento dei grandi spazi, cit., p. 127.
[6] Cfr. ID., Il concetto di ‘politico’ (1932), in ID., Le categorie del ‘politico’, (a cura di G. MIGLIO e P. SCHIERA), Il Mulino, Bologna, 1972.
[7] Cfr. J. F. KERVÉGAN, op. cit., p. 191.
[8] Rimarca il debito verso Hegel e il suo storicismo, con particolare riferimento a Terra e mare, P. P. PORTINARO, op. cit., p. 171. L’Autore, tra l’altro, intravede una filosofia schmittiana della storia nell’esaltazione del momento dell’appropriazione di terra: ivi, p. 173-174, in continuità dialettica anche con Marx e Weber, rispettivamente teorici dell’appropriazione dei mezzi di produzione e dei mezzi di amministrazione e giurisdizione. D’altro canto, A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 61 rileva che «Schmitt ha sempre aborrito qualunque meccanica filosofia della storia, nonostante a più riprese nelle sue opere abbia dato l’impressione di cedere alla fascinazione della Geschichtphilosophie d’origine romantica ed ai grandi affreschi epocali che hanno caratterizzato lo storicismo novecentesco (da Spengler a Toynbee)».
[9] L’espressione, di Giacomo Marramao, è citata da F. RUSCHI, Polarità o dialettica? Carl Schmitt a colloquio con Ernst Jünger, in «Jura gentium» 2/2012, p. 36.
[10] Ivi, p. 35.
[11] Cfr. in questa prospettiva C. SCHMITT, Tre possibilità di una immagine cristiana della storia (1950), in ID., Un giurista davanti a se stesso, cit., pp. 249 ss. Del resto, il dramma della finis historiae, con particolare riferimento allo scatenamento della tecnica e alla conflittualità nucleare est-ovest, è coltivato anche in E. JÜNGER-C. SCHMITT, Il nodo di Gordio, op. cit., come rileva F. RUSCHI, Polarità o dialettica, cit., p. 25. E. CASTRUCCI, La ricerca del nomos, postfazione a C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 437 argomenta che «quello di arma nucleare è il concetto limite dell’assoluta ostilità, capace di sconvolgere gli equilibri strategici della «grande politica», costringendo i governanti a considerare seriamente l’attualità dell’antica ipotesi scolastica dell'annihilatio».
[12] È quanto sostenuto dal sig. Altmann in C. SCHMITT, Dialogo sul nuovo spazio (1958), in ID., Terra e mare, edizione a cura di A. BOLAFFI, Giuffrè, Milano, 1985 [1942]: «colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte. La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe, per esempio, l’azione di un nuovo Ercole! Da questa direzione sento giungere la nuova chiamata, la sfida del presente».
[13] F. RUSCHI, Polarità o dialettica, cit., p. 32.
[14] P. P. PORTINARO, op. cit., p. 199.
[15] Cfr. E. JÜNGER-C. SCHMITT, Il nodo di Gordio, cit.
[16] Duro il giudizio su Huntington e Fukuyama espresso da Gary L. Ulmen, autore della nuova sinistra americana, riportato da A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 21: «mentre lo scenario internazionale rimane confuso ed intellettuali seguiti come Fukuyama e Huntington, incapaci di pensare oltre le predominanti categorie liberaldemocratiche, possono soltanto riciclare nuove versioni della dottrina Wilson, la visione schmittiana del mondo di grandi spazi come nuova configurazione geopolitica ben può essere in via di realizzazione».
[17] A. TEIXEIRA, Teoria pluriversalista del diritto internazionale, Aracne, Roma, 2009, con una prefazione di D. ZOLO.
[18] Cfr. H. BULL, La società anarchica, Vita e pensiero, Milano, 2005 [1977].