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Recensione del libro di Rutger Bregman "Una nuova storia (non cinica) dell'umanità"

‘L’essere umano è per sua natura una creatura amichevole’
Rutger Bregman "Una nuova storia (non cinica) dell'umanità"
Rutger Bregman "Una nuova storia (non cinica) dell'umanità"

PERCHÈ LEGGERE QUESTO LIBRO

C’è un’idea che ha sempre messo d’accordo i pensatori antichi e quelli moderni, i teologi e gli psicologi, gli scienziati e i filosofi, i conservatori e i progressisti: che gli esseri umani siano fondamentalmente cattivi ed egoisti. Da Sant’Agostino a Machiavelli, da Lutero a Calvino, da Hobbes a Nietzsche, da Freud agli economisti, questa credenza rappresenta il filo rosso di tutto il pensiero occidentale. Lo Stato è indispensabile, dicono i filosofi della politica, perché altrimenti gli uomini non farebbero altro che derubarsi e uccidersi a vicenda. Lo Stato è indispensabile, confermano gli economisti, perché gli uomini pensano solo al proprio interesse personale e nessuno realizzerebbe i beni pubblici. Ma se tutto questo non fosse vero? Il libro di Rutger Bregman racconta una nuova versione non cinica degli ultimi 200.000 anni di storia umana, dimostrando, con numerosi argomenti tratti dalla biologia, dall’antropologia, dalla psicologia e dalla sociologia, che l’evoluzione premia le società in cui vi è maggiore benevolenza, cooperazione e fiducia nella bontà del prossimo. E che la visione cinica della natura umana ci ha sempre portati fuori strada.

Riassunto

L’essere umano è fondamentalmente buono

Questo libro parla di un’idea radicale, osteggiata dalle religioni e dalle ideologie, che da secoli tormenta i governanti. È un’idea che trova poco spazio sui media, ma che si vede confermata in quasi tutti i campi della scienza ed è suffragata dall’evoluzione e dalla vita quotidiana. È un’idea talmente compenetrata nella natura umana da passare quasi inosservata. Se avessimo il coraggio di prenderla sul serio, potrebbe ribaltare la convivenza umana. Se ci entra veramente in testa, è addirittura una medicina che potrebbe cambiarci la vita, perché non guarderemmo più il mondo nello stesso modo. Qual è questa idea? Che l’essere umano è fondamentalmente buono.

Tom Postmes, docente di Psicologia sociale all’Università di Groninga, da anni propone ai suoi studenti lo stesso quesito: un aereo è costretto a un atterraggio di emergenza e si spezza in tre. La cabina si riempie di fumo e tutti capiscono di doversi allontanare. Che cosa succede? Sul pianeta A le persone a bordo si domandano tra loro come stanno; si dà la precedenza a chi ha bisogno di aiuto; tutti sono disposti a rischiare la vita anche per degli estranei. Sul pianeta B, la regola è ognuno per sé; si scatena il panico; tutti spingono e sgomitano; bambini, anziani e disabili vengono calpestati. La domanda è: su quale pianeta viviamo?

In genere, osserva Postmes, il 97 per cento delle persone sono convinte di vivere sul pianeta B, mentre nella realtà viviamo quasi sempre sul pianeta A. Non importa a chi si rivolge la domanda: che siano di sinistra o di destra, ricchi o poveri, ignoranti o colti, tutti commettono lo stesso errore di valutazione. Anche i disastri più famosi della storia si sono svolti sul pianeta A. Un testimone oculare del naufragio del Titanic riferì che non ci fu una ressa generale, né tracce di panico o isterismi: a differenza di quello che può sembrare dal film, nessuno gridava per la paura o correva avanti e indietro; sulle scialuppe gli uomini diedero la precedenza alle donne e ai bambini. Oppure pensiamo all’11 settembre 2001. Migliaia di persone scesero pazientemente per le scale delle Torri Gemelle anche se sapevano di essere in pericolo di vita, dando la precedenza a vigili del fuoco e feriti. Molti dicevano: “Vada pure avanti lei, prenda il mio posto”.

Gli esseri umani sotto i bombardamenti

Il paradigma dell’uomo egoista e approfittatore, dominante nelle scienze sociali e nel sentire comune, è stato platealmente smentito in tutte le situazioni reali di emergenza che si conoscano. Nel settembre 1940, gli inglesi si stavano preparando all’imminente bombardamento aereo tedesco. Le autorità prevedevano che i bombardieri di Hitler avrebbero seminato il panico tra la popolazione, con conseguenze drammatiche: il traffico si sarebbe arrestato, i senzatetto avrebbero urlato per chiedere aiuto e la città sarebbe precipitata nel caos, temeva un generale. Milioni di cittadini sarebbero crollati psicologicamente, l’esercito non sarebbe nemmeno arrivato a combattere perché impegnato a tenere a bada l’isteria delle masse. Winston Churchill prevedeva che almeno tre, se non quattro milioni di londinesi, si sarebbero dati alla fuga.

A partire dal 7 settembre, nell’arco di nove mesi furono sganciate solo su Londra più di 80.000 bombe. Interi quartieri vennero spazzati via. Un milione di edifici fu danneggiato o raso al suolo, più di 40.000 persone persero la vita. Tuttavia la reazione degli inglesi fu ben diversa da quella prevista dalle autorità. Della devastazione psicologica e dei milioni di vittime traumatizzate su cui gli esperti avevano messo in guardia non si vide nemmeno l’ombra. Anche sotto le bombe, la vita quotidiana continuò come sempre: la gente andava al lavoro, i negozi rimanevano aperti, i treni circolavano, i bambini giocavano sulle macerie.

I cittadini non diventarono cinici o bestiali, ma accadde il contrario. La situazione di emergenza non tirò fuori il peggio delle persone: anzi, la popolazione inglese salì di parecchi gradini sulla scala della civiltà: “Alla luce di questo incubo, il coraggio, il senso dell’umorismo e la gentilezza delle persone comuni non cessano di sbalordire”, scrisse una giornalista americana. La salute mentale di molti inglesi ne risultò addirittura migliorata. L’abuso di alcol diminuì e si registrarono meno suicidi che in tempo di pace. Dopo la guerra molti inglesi avevano perfino nostalgia del tempo dei bombardamenti, quando tutti si davano una mano. La società inglese uscì rafforzata dal bombardamento tedesco e Hitler rimase deluso.

Tuttavia anche Churchill, Roosevelt e i loro generali commisero lo stesso errore di Hitler, quando diedero il via ai bombardamenti sulle città tedesche nella convinzione di spezzare il morale del popolo tedesco. Sulla Germania si scatenò l’inferno e, alla fine dei bombardamenti, le vittime furono dieci volte più numerose di quelle inglesi. Più della metà delle città tedesche fu rasa al suolo. Anche in questo caso, tuttavia, la determinazione dei tedeschi ne uscì rafforzata. Di panico di massa non c’era traccia. Dopo un bombardamento, tutti si aiutavano tra loro. Le vittime venivano estratte dalle macerie, gli incendi spenti, i giovani correvano su e giù per soccorrere feriti e senzatetto. Finita la guerra, gli studiosi giunsero alla conclusione che i bombardamenti erano stati un totale fallimento, perché avevano rafforzato la volontà del nemico. Si trattò di un grave errore di valutazione, forse il più grave di tutta la guerra.

Eppure, quella conclusione non scalfì minimamente gli esperti militari. 25 anni dopo, gli americani sganciarono sul Vietnam il triplo delle bombe che erano piovute sulla Germania durante la Seconda guerra mondiale. Fu un fallimento ancor più clamoroso. A quanto pare, tutti condividevano la stessa teoria sbagliata, secondo l’essere umano è egoista, pauroso e aggressivo per natura, e la civiltà sarebbe una sottile patina di vernice, pronta a staccarsi al minimo urto. Invece, più bombe cadevano più quella patina si ispessiva. È proprio quando piovono le bombe o si rompono le dighe che viene fuori il meglio di noi, come dimostrò clamorosamente anche l’alluvione di New Orleans.

Cosa ci ha insegnato l’alluvione di New Orleans

Il 29 agosto 2005, quando l’uragano Katrina si abbatté sulla città, l’80 per cento delle case fu sommerso dall’acqua e quasi duemila persone persero la vita. Fu la catastrofe naturale più grave della storia degli Stati Uniti. Nello stadio del Superdome, dove fu allestito il centro di accoglienza, almeno 25.000 persone erano ammassate come topi in trappola, senz’acqua e senza elettricità. I giornali cominciarono a raccontare storie raccapriccianti di stupri, uccisioni, sparatorie e bande di sciacalli a New Orleans.

Il capo della polizia disse che la città stava precipitando nell’anarchia e lo stesso timore fu espresso dalla governatrice della Louisiana, la quale commentò: “La cosa che mi fa più rabbia è che catastrofi come queste tirano fuori il peggio delle persone”. Anche il rinomato storico Timothy Garton Ash scrisse sul Guardian quello che già tutti pensavano: “Togliamo gli elementi base della vita ordinata e civile – cibo, alloggio, acqua potabile e un minimo di sicurezza personale – e in poche ore ricadremo in uno stato primordiale hobbesiano, una guerra di tutti contro tutti”. Ecco di nuova la teoria della patina: secondo Garton Ash, si era aperta una falla nella “sottile scorza che riapre il magma ribollente della natura umana”.

Solo a distanza di mesi, dopo che i giornalisti erano spariti e l’acqua era defluita, gli studiosi scoprirono cosa era veramente successo a New Orleans. Al Superdome erano decedute solo sei persone, per la maggior parte di cause naturali. Il capo della polizia dovette ammettere di non aver alcun rapporto ufficiale di omicidio o di violenza sessuale. Alcuni ricercatori conclusero che “la stragrande maggioranza dei comportamenti spontanei era stata di carattere prosociale”. Si erano formate centinaia di squadre di soccorso che distribuivano cibo, indumenti e medicinali.

Insomma, la città non era stata travolta dall’egoismo e dall’anarchia, ma dal coraggio e dall’amore per il prossimo. Sotto questo aspetto, l’uragano Katrina aveva rispettato i dati scientifici su come le persone reagiscono alle calamità. Sulla base di quasi 700 studi sul campo, il Centro studi sui disastri ha infatti accertato che dopo una catastrofe, al contrario di quanto si vede al cinema, non scoppia mai il panico totale, né si solleva un’ondata di egoismo. Le persone mantengono la calma, non cadono in stato di choc e entrano rapidamente in azione. Anche il fenomeno dello sciacallismo impallidisce, di fronte al diffuso altruismo che spinge ad aiutare e a condividere gratuitamente beni e servizi.

Le false voci sulle violenze e sull’anarchia dilagante a New Orleans costarono invece delle vite. I soccorsi si misero in moto con esasperante lentezza perché le squadre non osavano entrare nella città senza protezione. Furono chiamati 72.000 militari con l’ordine di sparare sulla “teppaglia”. E così fu: la polizia aprì il fuoco su sei afroamericani innocenti e disarmati, provocando la morte di un ragazzo di 17 anni e di un uomo con problemi mentali.

La dinamica del disastro è sempre la stessa: a una disgrazia collettiva fa seguito un’ondata spontanea di collaborazione, ma gli amministratori pubblici entrano nel panico e arriva la seconda catastrofe. Probabilmente, il panico riguarda solo le persone potenti che vedono tutta l’umanità a propria immagine e somiglianza. Re e dittatori, governatori e generali pensano che le persone comuni siano egoiste perché molto spesso essi stessi sono tali. Usano la forza bruta perché vogliono prevenire qualcosa che accade solo nella loro fantasia.

Una visione più realistica della natura umana

Il problema è che quello che crediamo è quello che diventiamo. Quello che cerchiamo è quello che troviamo. Se crediamo che la maggior parte delle persone non sia buona, è così che trattiamo gli altri, e allora sì che tiriamo fuori il peggio da noi stessi e da loro: «In questo libro non sosterrò che siamo buoni per natura. Gli esseri umani non sono angeli, hanno una parte buona e una cattiva. Tutto sta nel capire quale delle due addestriamo. Sosterrò soltanto che per natura, tra bambini, su un’isola deserta, quando scoppia una guerra o si rompono le dighe, abbiamo una netta propensione per la parte buona. Porterò numerose prove scientifiche che dimostrano che una visione più positiva dell’umanità è realistica. Se cominciamo a crederci, sono convinto che possa diventare ancora più realistica» (p. 23).

Che l’essere umano sia per natura egoista è un dogma che in Occidente viene tramandato da secoli. Grandi pensatori come Tucidide, Agostino, Machiavelli, Hobbes, Lutero, Calvino, Burke, Bentham, Nietzsche, Freud e i Padri fondatori americani sottoscrivono in pieno questa teoria. Per stare all’esempio iniziale, tutti erano convinti che vivessimo sul pianeta B. Anche i biologi per anni hanno applicato la versione più deprimente della teoria dell’evoluzione, come la teoria del gene egoista di Richard Dawkins. Persino quando sembrava che un animale si comportasse generosamente, la sua azione veniva comunque etichettata come opportunista.

Anche nelle scienze economiche le cose non vanno diversamente: l’essere umano viene rappresentato come l’Homo oeconomicus, un automa egoista e calcolatore sempre in cerca del proprio guadagno. Pochi hanno avuto l’idea di verificare se quell’Homo oeconomicus esistesse sul serio. Nel 2000 l’economista Joseph Heinrich e i suoi colleghi visitarono quindici piccole comunità in cinque continenti. Sottoposero agricoltori, nomadi, cacciatori e raccoglitori a test di ogni genere, alla ricerca di qualcuno che corrispondesse all’immagine egoistica dell’uomo che gli economisti presupponevano da decenni. Inutilmente: ogni volta le persone si rivelavano troppo socievoli e disponibili.

Purtroppo chi contraddice il dogma dominante si trova a combattere anche contro i potenti della Terra. Per loro, una visione incoraggiante dell’essere umano è decisamente pericolosa, destabilizzante e sovversiva, perché implica che non siamo degli animali egoisti che devono essere controllati, regolati e addestrati dall’alto. Inoltre, chi afferma la naturale bontà dell’uomo verrà deriso e schernito in ogni occasione. Verrà considerato uno stupido e un ingenuo. Da questo punto di vista, essere cinici è più facile. Il profeta di sventura sembra sempre molto profondo, qualsiasi cosa proclami.

La vera storia del Signore delle mosche

Nel 1951 William Golding scrisse un romanzo, Il Signore delle mosche, che racconta la storia di una ventina di studenti inglesi naufraghi su un’isola deserta dell’Oceano Pacifico. La convivenza degenera ben presto nella violenza, tanto che uno di loro, l’unico che conserva un po’ di ragione, si chiede disperato: “Ma che cosa siamo? Degli esseri umani? Degli animali? Dei selvaggi?”. Dopo settimane, quando giunge una nave inglese a recuperarli, l’isola è in preda al caos e tre ragazzi sono morti. Il romanzo diventò uno dei classici del Novecento e fece vincere a Golding il premio Nobel della letteratura “per la perspicacia dell’arte narrativa realistica con cui illumina lo stato umano del mondo d’oggi”.

C’è un solo problema: la storia è completamente inventata e non c’è uno straccio di prova che dei ragazzi lasciati da soli su un’isola deserta si comporterebbero così. In verità esiste un caso reale, del tutto simile a quello rappresentato nel romanzo, che è rimasto praticamente sconosciuto. Il 6 ottobre 1966 un quotidiano australiano riferì che sei ragazzi erano stati ritrovati, dopo più di un anno che erano dispersi, su una piccola isola dell’arcipelago di Tonga. I protagonisti della vicenda vennero intervistati in un documentario. Come erano andate le cose? In maniera completamente diversa rispetto a quanto raccontato ne Il Signore delle mosche.

I ragazzi cominciavano e concludevano ogni giornata cantando e pregando. Avevano scavato dei tronchi per raccogliere l’acqua e tenuto un fuoco sempre acceso. Avevano creato un orto, un pollaio, una palestra e perfino un campo di badminton. Se bisticciavano, i litiganti si allontanavano ai due estremi opposti dell’isola finché non si calmavano. Quando uno si ruppe una gamba, gli prestarono assistenza. Dopo il salvataggio, il medico si stupì delle loro ottime condizioni di salute fisica e mentale. Terminata l’avventura, i ragazzi rimasero amici per tutta la vita. Il vero Signore delle mosche, quindi, è una storia di amicizia e di lealtà, che ci fa vedere quanto possiamo fare se ci sosteniamo l’uno con l’altro. La sua lezione è che bisogna sempre cercare il buono e il positivo nelle persone.

La sopravvivenza del più amichevole

50.000 anni fa condividevamo la Terra con un’altra specie umana. I Neanderthal erano fortissimi ed estremamente coraggiosi, oltre che molto intelligenti: il loro cervello era il 15 per cento più grande del nostro; sapevano cacciare il mammut, cucinare, accendere il fuoco, confezionare i vestiti, fabbricare strumenti musicali e gioielli, realizzare pitture rupestri. Resistettero per 200.000 anni nelle condizioni più avverse ma, quando entrò in scena l’Homo Sapiens, scomparvero in fretta. Perché si sono estinti? Per lungo tempo si è ipotizzato che li avessimo sterminati, ma questa conclusione non è sorretta da alcuna prova archeologica. È più probabile, invece, che i Sapiens fossero più attrezzati per resistere al clima rigido dell’ultima era glaciale perché sapevano collaborare meglio tra loro.

Ci sono prove che l’evoluzione favorisce, tanto nel mondo animale quanto nel mondo umano, le specie più amichevoli. L’Homo Sapiens ha subito un processo di domesticazione analogo a quello delle specie animali addomesticate: siamo diventati più amichevoli; i nostri visi e i nostri corpi sono più delicati, giovanili e femminei; i nostri crani sono più corti e arrotondati; le mandibole e i denti sono più infantili; l’infanzia è diventata più lunga e la comunicazione migliore. Ciò che i cani sono rispetti ai lupi, noi lo siamo rispetto ai Neanderthal. Rispetto a loro sembriamo dei cuccioli. Ma come ha potuto l’Homo cucciolo conquistare il mondo?

Diversi test con i cani e con le volpi hanno dimostrato che gli individui selezionati per essere più amichevoli hanno dato prova di un’intelligenza prontissima, molto più dei loro simili aggressivi. Eppure si era sempre creduto che la domesticazione rendesse gli animali meno intelligenti, perché le dimensioni del cervello si riducono e le abilità che in natura erano necessarie vanno perdute. Anche l’arcata sopraccigliare molto pronunciata che vediamo nel cranio dei Neanderthal, degli scimpanzé e degli oranghi rende più difficile la comunicazione perché impedisce di guardarsi negli occhi. Noi invece siamo fatti per entrare in relazione con le persone intorno a noi e anche il linguaggio è frutto della nostra indole amichevole. I Neanderthal avevano un cervello individuale più grande, ma un cervello collettivo più piccolo. Il loro cervello era come un computer più potente, ma il nostro aveva una connessione wi-fi migliore.

Soldati che non sparano

Samuel Marshall, colonnello e storico, intervistò numerosi soldati americani che combatterono nel Pacifico e in Europa durante la seconda guerra mondiale. Il risultato fu sorprendente: scoprì che a sparare era stato appena tra il 15 e il 25 per cento dei soldati. La stragrande maggioranza si rifiutava di farlo. Un ufficiale raccontò che, malgrado le sue continue esortazioni, i soldati sparavano solo quando li guardava. A guerra finita, emerse che più della metà non aveva mai ucciso nessuno. La maggioranza dei piloti di aerei non abbatté mai nessun aereo nemico e nemmeno ci provò. L’individuo medio sano, concluse Marshall, ha una tale resistenza interiore, per lo più inconscia, a uccidere un suo simile, che di sua spontanea volontà non sopprimerà una vita.

Nel corso dei decenni si sono accumulate montagne di prove che dimostrano che Marshall aveva ragione. Al termine della battaglia di Gettysburg (1863), combattuta durante la guerra civile americana, furono recuperati 27.574 fucili, almeno il 90 per cento dei quali era ancora carico. Molte battaglie andavano avanti per ore, con gli eserciti che si sparavano senza colpirsi. Spesso i soldati miravano troppo in alto o cercavano un pretesto per fare altro: andare a prendere le munizioni, caricare le armi, cercare un riparo e così via. Anche George Orwell osservò che, nella guerra civile spagnola, “tutti mancavano sempre tutti gli altri, ogniqualvolta era umanamente possibile”. Di recente il sociologo Randall Collins ha rilevato, analizzando le fotografie delle battaglie, che mediamente i soldati che sparano sono il 13-18 per cento del totale. Ecco la sua conclusione: “Se osserviamo le prove più frequenti, il quadro hobbesiano risulta empiricamente scorretto. Gli esseri umani sono intimamente portati all’interazione e alla solidarietà, e ciò rende la violenza così difficile”.

Un’altra celebre conferma si ebbe durante la prima guerra mondiale sul fronte occidentale. Nella notte di Natale del 1914 i soldati inglesi e tedeschi uscirono dalle trincee e solidarizzarono tra loro. La maggior parte dei soldati visse la pace in trincea come uno dei momenti più belli della sua vita. Gli unici che continuarono a opporsi furono i comandanti. I generali fecero di tutto per arrestare il “flagello” della pace, minacciando la corte marziale per chiunque mostrasse amicizia verso il nemico. Eppure, se fosse dipeso dai soldati, la guerra sarebbe finita nel Natale del 1914.

Cos’era successo? I soldati si erano accorti che i nemici, dipinti dalla propaganda come mostri, erano in realtà dei ragazzi uguali a loro. Anche in questo caso si osserva uno schema riconoscibile: più ci si allontanava dal fronte, più l’odio era forte. In patria, nei ministeri e nelle redazioni dei giornali, nei salotti e nei caffè, il disprezzo per il nemico era enorme. Anche oggi sui social media, davanti alla televisione o dovunque scegliamo di arroccarci, spariamo da lontano contro l’altro, e generalizziamo sul conto di persone che non abbiamo mai incontrato. Il contatto umano, al contrario, genera fiducia, vicinanza e collaborazione. Aiuta a vedere il mondo attraverso gli occhi dell’altro e ci cambia come persone. Ci odiamo da lontano e ci apprezziamo da vicino.

Esperimenti fuorvianti

Tra gli anni Cinquanta e Settanta alcuni esperimenti sembrarono chiudere il discorso, confermando che qualsiasi persona è capace delle cose più orribili, se si trova in una particolare situazione. Nel 1954, l’anno stesso in cui Golding pubblico Il Signore delle mosche, lo psicologo Muzafer Sherif eseguì a Robbers Cave un esperimento su dei bambini che giunse a conclusioni molto simili. In un campo estivo che si svolgeva su ottanta ettari di boschi, laghi e grotte, i bambini furono divisi in diversi gruppi e lasciati da soli, per vedere cosa sarebbe accaduto. Le cose presero ben presto una brutta piega. Scoppiò una guerra tra i ragazzini che i ricercatori riuscirono a fermare prima che la situazione degenerasse del tutto.

Nel 1961 Il professore Stanley Milgram svolse a Yale il celebre esperimento con la macchina delle scosse elettriche. Rilevò che quando ordinava ai volontari di attivare le scosse elettriche contro qualcuno che si trovava in un’altra stanza, questi eseguivano gli ordini incuranti del dolore che avrebbero arrecato all’altra persona. L’esperimento di Milgram mostrò l’essere umano come una creatura che esegue ciecamente gli ordini dell’autorità. I volontari ricordavano i tanti nazisti che, dopo la guerra, continuavano a ripetere la frasetta “gli ordini sono ordini”.

Un terzo celebre esperimento venne condotto a Stanford nel 1971 dallo psicologo Philip Zimbardo. Gli studenti che si erano offerti come volontari furono divisi tra guardie, alle quali venne data una divisa, e detenuti. Dopo un po’ di tempo, gli studenti che impersonavano le guardie cominciarono a comportarsi in modo sadico nei confronti di quelli che impersonavano i detenuti.

I tre psicologi divennero delle star e i loro esperimenti entrarono nei manuali di psicologia. Successive indagini, tuttavia, dimostrarono che questi esperimenti furono pilotati e oggetto di palesi manipolazioni, che invalidavano completamente i risultati. In tutti e tre i casi, infatti, furono i ricercatori stessi a fare in modo che i volontari tenessero i comportamenti desiderati, incitandoli continuamente. Chi non ci stava, veniva richiamato severamente. Milgram dovette fare enormi pressioni sui volontari, per convincerli ad attivare le scosse elettriche. Nella maggior parte dei casi, obbedivano a malincuore solo se gli veniva detto che “era per il bene della scienza”.

Se i ricercatori non avessero pesantemente interferito, gli esperimenti avrebbero dato risultati opposti. Infatti, quando nei tempi più recenti sono stati replicati senza interferenze esterne, i partecipanti non hanno mai mostrato alcuna tendenza alla violenza. Anche i reality-show, se non vengono pilotati dalla regia, si rivelano una noia mortale e molti sono stati chiusi per questo motivo. La conclusione è che, se prendi delle persone normali e le lasci in pace, non si ammazzano tra loro ma convivono pacificamente, e non succede niente di sensazionale.

Anche un famoso fatto di cronaca su cui si scrissero fiumi di inchiostro per denunciare l’indifferenza e l’apatia delle persone comuni di fronte a un omicidio – l’assassinio per strada di Kitty Genovese nella notte del 13 marzo 1964 – si svolse in realtà molto diversamente da come raccontato. Non era vero che 38 testimoni assistettero dalla finestra senza nemmeno chiamare le forze dell’ordine. Molti di loro lo fecero, ma la polizia rispose di essere già stata avvisata. La polizia non arrivò perché, sulla base di quelle telefonate, pensava si trattasse di una banale lite coniugale. Una vicina invece, senza un attimo di esitazione, accorse per aiutare la vittima, che spirò tra le sue braccia. Quella notte non furono i cittadini a fallire, ma le autorità.

E allora, perché Auschwitz?

Se è vero che l’essere umano è per sua natura una creatura amichevole, è arrivato il momento di porsi una domanda ineludibile: come si spiega Auschwitz? In altre parole, come si spiegano le razzie e i pogrom, i genocidi e i campi di sterminio? Chi erano gli zelanti carnefici di Hitler, Stalin, Mao e Pol Pot? La storia sembra dimostrare che gli uomini normali sono capaci di fare cose tremende. Basta cambiare qualche particolare della loro situazione e voilà, ecco uscire il mostro nascosto in ognuno di loro.

Lo psicologo Don Mixon replicò lo studio di Milgram con le scosse elettriche e giunse alla conclusione che, quasi sempre, le persone comuni arrivano a far del male solo dopo una forte pressione e solo se si convincono di star facendo qualcosa di buono. Molti studenti che attivavano le scosse elettriche venivano convinti, dopo numerose esortazioni, che ciò che facevano era per il bene della scienza, per contribuire alla comprensione della natura umana. Il male non si trova in superficie e sono necessari molti sforzi per farlo affiorare. E, particolare più importante, deve essere invariabilmente camuffato a bene.

Prendiamo il celebre esempio di Adolf Eichmann, che divenne, anche grazie al libro di Hannah Arendt, l’emblema dell’assassino burocrate che non si fa domande, della banalità del male che è in ognuno di noi. Solo in anni più recenti gli storici sono giunti a conclusioni del tutto diverse. La Arendt, come tanti altri, si era fatta ingannare dalla recita di Eichmann in tribunale. In verità, quando era nascosto in Argentina, Eichmann rilasciò 1300 pagine di interviste a una SS olandese, Willem Sassen, nella quale affermò di non essere pentito di nulla e di provare soddisfazione per aver eliminato cinque milioni di ebrei “nemici del Reich”.

Leggendo quelle pagine risulta chiaro che Eichmann non era un grigio e banale burocrate che non si fa domande. Tutt’altro: era un fanatico. Non agì per indifferenza ma per convinzione: non diversamente dai volontari di Milgram, faceva il male perché credeva fosse bene. L’Olocausto quindi non fu eseguito da uomini che d’un tratto si trasformarono in automi, agendo senza riflettere. Gli esecutori erano convinti di stare dalla parte giusta della storia. Auschwitz fu il punto di arrivo di un lungo processo storico in cui il male fu sempre più abile a camuffarsi da bene: per anni scrittori e poeti, filosofi e politici, condizionarono e avvelenarono la psiche dei tedeschi. Furono riempiti di menzogne e indottrinati, manipolati e sottoposti al lavaggio del cervello. Solo a quel punto accadde l’impensabile.

Il potere corrompe

In tutti i casi esaminati, la maggior parte delle persone voleva aiutare il prossimo e se qualcuno venne meno a questo compito, questi era chi aveva il potere. Gli studiosi e i direttori dei giornali, le istituzioni e i commissari di polizia: erano questi Leviatani che mentivano e manipolavano. Invece di proteggere i soggetti dalla loro presunta indole malvagia, li mettevano l’uno contro l’altro. Come si spiega questo frequente atteggiamento delle autorità?

Da moltissimi studi si ricava che il potere rende negativi nei confronti degli altri. Coloro che hanno potere sono inclini a credere che le persone siano inaffidabili. Partendo da questa visione negativa, concludono che devono essere guidate e spiate, gestite e regolate, censurate e comandate. E che i più adatti a questi compiti siano loro. Il potere fa sentire superiori. I governanti si raccontano che il popolo è troppo stupido per partecipare alle decisioni e che prendere il comando tocca a loro, che sono tanto lucidi e lungimiranti.

La verità è il contrario: è il potere che rende poco lungimiranti. Chi è arrivato al vertice, infatti, ha meno bisogno di immedesimarsi nel punto di vista degli altri. Spesso l’empatia non gli serve più perché, se trova qualcuno che non capisce o gli dà fastidio, può ignorarlo, multarlo, rinchiuderlo o peggio. Il potere è una specie di droga con una lunga coda di effetti collaterali. Lo storico inglese Lord Acton scrisse queste famose parole già alla fine dell’Ottocento: “Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Oggi ci sono poche altre affermazioni su cui psicologi, sociologi e storici sono altrettanto concordi.

Perché scegliamo i peggiori

Gli individui ai vertici hanno spesso un profilo anormale. Si comportano letteralmente come sociopatici. Sono più impulsivi, più egoisti, imprudenti, arroganti, narcisisti e più rozzi della media. Sono più spesso infedeli, ascoltano meno e tengono meno in considerazione il punto di vista degli altri e sono più sfacciati. Il potere ha l’effetto di un anestetico che isola dagli altri. Qui ci imbattiamo in un mistero: se l’essere umano è per sua natura una creatura tanto amichevole, come è possibile che individui egoisti e avidi, narcisi e sociopatici, arrivino così spesso ai massimi livelli di potere? Come è possibile che delle creature capaci di arrossire – le uniche del regno animale – si lascino guidare da figure che sono oltre la vergogna?

Vi è una sorta di paradosso del potere: le persone scelgono come capi i tipi più discreti e affabili; ma, una volta che quei capi sono arrivati in cima, il potere dà loro alla testa molto facilmente. Nel passato arrivavano a proclamare di essere prescelti dagli dèi o di essere delle divinità essi stessi. Oggi la propaganda dei potenti è molto più sottile. Nella storia i potenti hanno inventato sempre nuove ragioni per giustificare i propri privilegi. Eppure, c’è qualcosa di strano in questo: dopotutto, non dobbiamo credere per forza alle storie che ci raccontano i nostri governanti.

 

CITAZIONI RILEVANTI

La guerra nasce con lo Stato

«Se lo stato di natura era una “guerra di tutti contro tutti”, come sostiene Hobbes, potremmo aspettarci di trovarne traccia in almeno una scena dipinta. Purtroppo non ce n’è nemmeno una. E questa di fronte alle migliaia di pitture che raffigurano la caccia al bisonte, al cavallo e alla gazzella … A tutt’oggi, in quattrocento siti sono stati rinvenuti circa 3000 scheletri di Homo Sapiens sufficientemente antichi da poterci dire qualcosa sullo “stato di natura”. Da questi scavi non è emersa una sola prova convincente di guerre combattute in età preistorica. Per i periodi successivi, la storia è tutta diversa. “La guerra non risale indietro nel tempo all’infinito” è la conclusione dell’eminente archeologo Brian Ferguson. “Ha avuto inizio”» (p. 87-88).

Si uccide da lontano, non da vicino

«Possiamo analizzare, per esempio, le cause di morte dei soldati inglesi durante la Seconda guerra mondiale … Se c’è qualcosa che accomuna questi caduti, è che sono stati uccisi da lontano. La stragrande maggioranza dei soldati è morta perché qualcuno ha schiacciato un bottone, sganciato una bomba o piazzato una mina … Si uccide per lo più da lontano, non da vicino … Nel corso della storia l’armamento ha offerto soluzioni sempre più efficaci al problema principe di tutte le guerre: la primordiale avversione umana per la violenza. È quasi impossibile guardare qualcuno negli occhi e sparargli … Da sempre le guerre si vincono colpendo il maggior numero di persone da lontano … Oltre che armi di lunga distanza, gli eserciti cercano sistemi per aumentare la distanza psicologica dal nemico: se l’altro viene deumanizzato, per esempio presentandolo come uno scarafaggio, diventa più facile trattarlo in maniera disumana» (p. 188-189).

Il machiavellismo non funziona

«La teoria filosofica di Machiavelli è fondata? È vero che per conquistare e mantenere il potere si deve mentire e ingannare senza scrupoli? Che dice la scienza moderna? Quando si tratta di machiavellismo applicato, la massima autorità è Dacher Keltner … Si infiltrò in studentati e in campi estivi, dove si può lottare per il potere indisturbati … si aspettava di poter osservare la saggezza senza tempo di Machiavelli nelle situazioni in cui le persone si incontrano per la prima volta. Rimase deluso: chi segue le prescrizioni del Principe in un campo estivo, viene guardato storto. Come già nella preistoria, in una microsocietà l’arroganza non è tollerata. Il prepotente è considerato un bruto e viene escluso, mentre gli individui più amichevoli ed empatici emergono come capi. La sopravvivenza del più amichevole» (p. 192).

Punti da ricordare

 

  • A dispetto delle convinzioni generali, l’essere umano è fondamentalmente buono
  • Dobbiamo sempre cercare il lato buono e positivo delle persone
  • Nelle emergenze le persone non diventano ciniche e bestiali, ma tendono spontaneamente ad aiutarsi tra loro
  • Spesso gli amministratori pubblici entrano nel panico e provocano ulteriori catastrofi
  • La visione egoista dell’essere umano è un dogma che da secoli in Occidente viene tramandato da teologi, filosofi, scienziati ed economisti
  • Questa teoria fa comodo ai governanti, perché gli offre un pretesto per controllarci, regolarci e comandarci dall’alto
  • Nella realtà i naufraghi su un’isola deserta non si comportano come nel romanzo Il Signore delle mosche, ma collaborano tra loro
  • Ci sono prove che, nel mondo animale e nel mondo umano, l’evoluzione favorisce le specie più amichevoli
  • I Sapiens hanno surclassato i Neanderthal perché sapevano cooperare meglio tra loro
  • In guerra, la stragrande maggioranza dei soldati evita di sparare
  • Il contatto personale genera fiducia e comprensione, mentre la lontananza genera odio
  • I celebri esperimenti scientifici che provano la cattiveria della natura umana sono stati manipolati e falsificati
  • Per convincere qualcuno a far del male al prossimo, il male dev’essere camuffato da bene
  • Adolf Eichmann non era un grigio e banale burocrate, ma un fanatico convinto di fare il bene della Germania
  • Il potere corrompe le persone, rendendole ciniche e insensibili agli altri
  • Per questa ragione non dobbiamo credere per forza alle storie che ci raccontano i governanti

 

L’autore

Rutger Bregman è nato nel 1988 in Olanda, dove risiede attualmente. È storico e scrittore. I suoi libri Utopia per realisti e Una nuova (storia) non cinica dell’umanità sono stati nella classifica dei bestseller del New York Times e tradotti in più di quaranta lingue. Nel suo primo libro ha proposto il reddito di base per tutti, la settimana lavorativa di 15 ore alla settimana e le frontiere aperte con libertà di movimento per tutti. Nel suo secondo libro ha contestato la dominante visione cinica della natura umana.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Rutger Bregman, Una nuova storia (non cinica) dell'umanità, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 366, traduzione dall’olandese di Maria Cristina Coldagelli.

Titolo originale: De meeste mensen deugen. Een nieuwe geschiedenis van de mens
 

INDICE DEL LIBRO

 

9          Prologo

17        Un nuovo realismo

31        Il vero Signore delle mosche

47        1. Lo stato di natura

123      2. Dopo Auschwitz

169      3. Perché persone buone fanno cose cattive

213      4. Un nuovo realismo

265      5. L’altra guancia

313      Epilogo. Dieci regole di vita

329      Ringraziamenti

331      Note